di Luigi Firpo – da Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 17.
Nacque a Stilo, in Calabria Ultra, il 5 settembre 1568, in giorno di domenica, sei minuti dopo le sei pomeridiane, in un'umile casa del "borgo" fuori mura.
Biografia di Tommaso Campanella
Nacque a Stilo, in Calabria Ultra, il 5 sett. 1568, in giorno di domenica, sei minuti dopo le sei pomeridiane, in un’umile casa del “borgo” fuori mura. Non hanno fondamento le asserzioni ricorrenti, attizzate da un patetico campanilismo, che lo vorrebbero nato nel vicino comune di Stignano. Il padre Geronimo, nato intorno al 1535, di condizione poverissima, analfabeta, esercitava il mestiere di ciabattino o “scarparo”; la madre, Catarinella Martello, dovette scomparire presto, dopo aver dato alla luce un altro maschio, Giovan Pietro, e parecchie figliuole, e comunque non lasciò ricordo di sé nel primogenito. Il nonno, Pietro, era nato intorno al 1497 da uno Stefano Loli, detto “Campanella” forse per parentado con donne di tale casato. Il 12 settembre don Terenzio Romano, parroco di S. Biagio del Borgo, battezzò l’infante col nome di Giovan Domenico, che egli muterà poi in Tommaso vestendo il saio domenicano.
L’infanzia fu segnata dalla precocità e dall’indigenza: appena cinquenne, in Stilo, forse sotto la guida del maestro Agazio Solea, si avviò ai primi rudimenti di grammatica e di catechismo, presto eccellendo fra i coetanei per prontezza d’ingegno e memoria tenace; vuole una leggenda locale che, non potendo pagarsi gli studi, origliasse alla finestrella della scuola e, quando qualcuno dei coetanei più fortunati non sapeva recitare la lezione, egli si affacciasse esclamando: “Volete che la dicess’io?”. Nel 1576 imperversò in Calabria, come nell’Italia tutta, la peste, lasciando nell’animo del fanciullo viva impressione dei provvedimenti adottati per soffocare il contagio; ma è tutta la sua povera terra che gli rivela i suoi mali antichi: lo sfruttamento feudale, l’oppressione spagnola, le scorrerie turchesche, la pletora dei monaci oziosi, il ricordo delle recenti stragi dei valdesi, le carestie ricorrenti, i terremoti, la miseria. Nel 1581 la famiglia del C., sempre poverissima, si trasferì nel vicino “casale” di Stignano; fu allora che il ragazzo, ravvisando nella carriera ecclesiastica la sola via per proseguire gli studi, vestì l’abito di “prevetello” o chierico; era già tanto provetto nel latino da potersi esprimere con scioltezza in prosa e in verso. Oppresso per sei mesi da grave malessere febbrile, risanò allora per le magiche arti di una fattucchiera, affacciandosi così, attraverso la superstizione popolare, alla dimensione tentatrice dell’occulto e del soprannaturale.
Nella primavera dell’82 i familiari vagheggiarono di mandare il C. a Napoli, presso uno zio paterno studente di diritto, per avviarlo alla lucrosa carriera forense; ma il giovinetto, affascinato dalle storie di s. Tommaso e di Alberto Magno, rapito dall’eloquenza di un predicatore domenicano, decise di vestire il saio candido di S. Domenico ed entrò per il prescritto anno di prova nel piccolo, antico convento di Placanica, un miglio a occidente di Stignano. Compiuto l’anno di prova, vi pronunciò i voti, assumendo il nome di fra’ Tommaso, e subito, a norma delle costituzioni dell’Ordine, venne trasferito in un monastero di primaria importanza pel noviziato e gli studi: fu assegnato così al convento dell’Annunziata in San Giorgio Morgeto, dove attese per un triennio a compitare la logica (1583-84), la fisica (1584-85), la Metaphysica e il De anima (1585-86) di Aristotele.
Incuriosito sin d’allora delle speculazioni estranee alla grande sistemazione della scolastica, ricorderà poi con ammirazione il medico Francesco Sopravia, che a Seminara, non lontano da San Giorgio, impartiva lezioni, con gran concorso di uditori, sulla filosofia di Leucippo e di Democrito, avendo anche composto un De rerum natura contro gli aristotelici. Essendo i novizi tenuti a mettere per iscritto il frutto degli insegnamenti ricevuti nel triennio degli studi regolari, non mancò di porre in carta le proprie Lectiones logicae, physicae et animasticae, che non ci sono pervenute. Molti anni dopo ricorderà con commozione una notte della sua adolescenza in cui, rimeditando l’argomentazione aristotelica in pro’ dell’immortalità dell’anima, era scoppiato in pianto dirotto nel riconoscerne la debolezza.
Nel 1585 Giacomo II Milano, sesto barone di San Giorgio, venne a prendere possesso del suo feudo con cerimonia solenne e nell’occasione il C. recitò un’orazione in esametri e un’ode saffica (perdute); entrò così in rapporto con la famiglia nobile e ricca dei del Tufo (moglie del Milano era Isabella del Tufo, e Marcantonio del Tufo ebbe nell’ottobre 1585 il vescovato di Mileto, alla cui diocesi apparteneva San Giorgio). Il 5 ottobre fra’ Sisto Fabri da Lucca, generale dei predicatori, dispose una riforma degli studi e del noviziato, elevando da tre a cinque anni la durata dei corsi di logica, fisica e metafisica. In conseguenza, nell’autunno dell’86, il C. venne trasferito al convento dell’Annunziata di Nicastro per completare la propria preparazione sotto la guida di un padre Antonino da Firenze. L’insofferenza dei vecchi schemi autoritari e l’ansia di sperimentare sul libro vivo della natura le asserzioni arbitrarie e discordi dei libri scritti fanno maturare in quegli anni decisivi i primi avvii autonomi del suo pensiero. A Nicastro, nel 1587, abbozza un trattato metodologico De investigatione rerum (perduto), che proponeva nuove categorie sensistiche da contrapporre alla gnoseologia aristotelica. Dotato di sete inesausta di apprendere e di memoria prodigiosa, legge con avida furia libri d’ogni sorta, antichi e moderni, leciti e illeciti: nessuno lo soddisfa, e quelli d’Aristotele meno che gli altri. Si rivela così il C. “contradicente ad ogni cosa e particolarmente alli lettori suoi”, fra i quali uno gli predice: “Campanella, Campanella, tu non farai bon fine!”. Intanto si lega di amicizia profonda col coetaneo confratello Dionisio Ponzio e con lui intesse vaghi discorsi sulla rinnovazione imminente del secolo, accarezza speranze di una veniente età libera, spontanea e fraterna, senza costrizioni né ipocrisie.
Nell’estate dell’88, compiuti a Nicastro gli studi filosofici, venne trasferito a Cosenza per seguirvi presso lo Studio generale della provincia domenicana di Calabria il corso quadriennale di teologia. Ha ormai percorso in febbrili letture clandestine tutti i campi dello scibile, tutti i testi dei classici e dei Padri, in una ricerca affannosa e disordinata, deciso a non tralasciare alcuna via che possa condurre alla verità; finalmente in Cosenza un amico gli pone tra mano i primi due libri del De rerum natura di Bernardino Telesio, venuti in luce a Napoli in seconda edizione nel 1570. Scorse appena le prime pagine, il C. subito intuisce il rimanente, se ne infiamma e sente di aver finalmente raggiunto in quello schietto naturalismo la meta sì a lungo cercata; da allora la sua fisica, anche per la detenzione trentennale che gli inibirà ogni verifica sperimentale, resterà sostanzialmente quella telesiana. Cercò allora, da neofito entusiasta, di conoscere subito di persona il vecchio filosofo, ma proprio in quei giorni (ottobre 1588) l’ottantenne Telesio passò a miglior vita e il C. poté solo accostarsi alla salina esposta nella cattedrale di Cosenza e affiggere al feretro una devota elegia latina di compianto (perduta).
Forse in punizione di vecchie e nuove intemperanze, forse per il dichiarato entusiasmo per le rivoluzionarie dottrine telesiane, tanto avverse all’aristotelismo delle scuole, al cadere dell’anno venne relegato dai superiori nel piccolo e remoto convento di Altomonte. Ma subito raccoglie attorno a sé un piccolo gruppo di medici, gentiluomini, estimatori, che gli forniscono i libri di cui è affamato: Galeno, Ippocrate, ma soprattutto i testi degli ermetici, le opere di divinazione, di cabala e di magia. Nel corso di queste fervide letture, venuto in possesso del libello di un acre detrattore del Telesio, il giurista filosofante Giacomo Antonio Marta, allievo dei gesuiti e idolatra di Aristotele (Pugnaculum Aristotelis adversus principia B. Telesii, Roma 1587), il C. lo ribatte con una vasta dissertazione polemica in otto libri, composta fra il gennaio e l’agosto 1589, intitolata Philosophia sensibus demonstrata.
Al cadere dell’anno, stanco di beghe conventuali, di rimproveri dei superiori, di meschinità provinciali, lascia la Calabria e, forse per mare, si spinge a Napoli; la vita libera dei frati del tempo non consente di dare a quel viaggio il nome di fuga, poiché, se mancò il consenso, certo non vi fu neppure rottura aperta con l’Ordine e in Napoli il C. visse per alquanti mesi indisturbato, vestendo l’abito, nel grande convento di S. Domenico Maggiore, favorito dalla regola rilassata che vi si praticava e dalla folla dei frati conviventi. Si vociferò più tardi nei chiostri calabresi che egli avesse abbandonato la provincia in compagnia d’un misterioso rabbino, certo Abraham, esperto di magia e d’astrologia, istigatore del giovane frate indisciplinato, cui avrebbe rivelato segreti naturali e promesso, per disegno degli astri, uno smagliante avvenire. Nel 1590, desideroso di maggior libertà, si trasferì in casa di Mario del Tufo, verosimilmente con ufficio di precettore dei figliuoli di quel marchese; vi fu ospitato con signorile larghezza, frequentò gentiluomini di gran sangue e distinti scienziati, acquistandosi fama di immensa e precocissima cultura. Quasi dimentico della propria condizione di religioso, lungi dai rigori conventuali, studia, scrive, sperimenta, discute: conduce così a termine i tre libri del De investigatione rerum, abbozzato fin dall’87, che perderà definitivamente per sequestro nel ’92 (solo in minima parte la materia verrà rifusa nella Dialectica). Compone inoltre, mosso da discussioni avute con Giambattista Della Porta a proposito della Phytognomonica da questo ristampata in Napoli nel 1588, un trattato De sensitiva rerum facultate (perduto anch’esso nel 1592 e rifatto molti anni più tardi col titolo Del senso delle cose). Affida al tipografo Orazio Salviano la stampa della Philosophia sensibus demonstrata, che vede la luce ai primi del 1591, preceduta da una vibrante prefazione autobiografica e da una dedicatoria a Mario dei Tufo. Sempre in casa del suo mecenate il C. detta un trattato De insomniis sulla fisiologia dei fenomeni onirici, un De sphera Aristarchi intorno all’ipotesi eliocentrica sostenuta dall’antico astronomo greco, un Exordium novae metaphysicae verosimilmente ancora estraneo alla concezione delle tre “primalità”, tre libri d’una Philosophia Pythagorica in esametri latini, una analoga Philosophia Empedoclis, vari discorsi per compiacere amici che si addottoravano recitandoli a proprio nome, molti versi latini e volgari: nessuno di questi testi ci è pervenuto.
Nell’estate del 1591 il C. soffrì gravemente di sciatica e reumi, cagionati, a suo avviso, dalla troppo lauta tavola di cui godeva in casa dei Tufo, e risanò curandosi ai bagni di Pozzuoli; nel settembre la carestia provocò in città sanguinosi tumulti, richiamando la sua attenzione sulla politica annonaria e sul potere assopito delle inconscie masse popolari. Probabilmente in quell’anno compì un breve viaggio in Puglia, forse seguendo il del Tufo nel suo feudo di Minervino dove conduceva un grande allevamento di cavalli: da quella visita fu indotto a meditare sulle pratiche eugenetiche estensibili alle società umane. Ai primi del ’92, in occasione della venuta del Tasso a Napoli, gli indirizzò un sonetto, invitando il poeta a volgere la propria musa a temi non profani; compose anche il primo libro di una vastissima fisica disegnata in venti libri, col titolo De rerum universitate, ma lo perderà tosto per sequestro a Bologna.
Nel maggio 1592, su denuncia di un invidioso, venne carcerato nel convento di S. Domenico sotto l’accusa di possedere un demone familiare annidato nell’unghia del mignolo e di aver ostentato spregio per la scomunica; la causa, dibattuta davanti a un tribunale costituito in seno all’Ordine e presieduto dal padre provinciale, verté essenzialmente sulle recise opinioni telesiane bandite dal C. a voce e per iscritto, specie nella Philosophia data alle stampe; alla domanda dei giudici: “Come sai tanto, visto che non hai studiato?”, rispose fieramente, ricordando le lunghe veglie a lume di lucerna, con un detto di s. Girolamo: “Io ho consumato più olio che voi vino”. Il 14 maggio fra’ Giovan Battista da Polistena, già provinciale domenicano di Calabria, nell’intento di sovvenire il C., scrive a Ferdinando I di Toscana, proponendogli di prender la protezione di quel giovane di sì straordinario ingegno e cultura, ingiustamente perseguitato e ansioso di porsi al suo servizio. Il 28 agosto si conclude il processo con una sentenza che impone al C. salutari penitenze, il ritorno in Calabria entro una settimana e l’abbandono di ogni opinione telesiana. Ribellandosi alla sentenza, che lo esilierebbe daccapo nell’isolamento culturale e tra le meschine rivalità fratesche della sua provincia, il C. tenta un colpo di testa: con la scusa di recarsi a procurare il castigo del proprio calunniatore, ma aspirando in segreto alla cattedra, di cui gli è stata fatta balenare la speranza, in una delle università toscane (Pisa o Siena), il 5 sett. 1592 parte in opposta direzione alla volta di Roma e di Firenze. Nell’Urbe si trattiene un paio di settimane; visita il padre Alessandro de Franciscis, ebreo convertito e teologo domenicano dottissimo, il politico e moralista Fabio Albergati, il card. Francesco Maria Del Monte, autorevole rappresentante in Curia degli interessi del granduca, certo in traccia di appoggi e commendatizie. Ma proprio il porporato, il 25 settembre, invia a Firenze sul suo conto informazioni caute e sostanzialmente non favorevoli, confermate “ad abundantiam” due mesi dopo dal generale dell’Ordine Ippolito Maria Beccaria.
Il 2 ott. 1592, appena giunto a Firenze, ottiene udienza da Ferdinando I, a cui dedica l’inedito De sensitiva rerum facultate, e ne riceve buone parole, un sussidio in denaro, ma non l’impiego sperato; il 13 ottobre, munito di lettera di presentazione del granduca, visita la Biblioteca Medicea e vi si intrattiene con letterati distinti: Baccio Valori, Ferrante de’ Rossi, fra’ Giambattista Bracceschi, il padre Medici; il 16 ottobre il fuggiasco lascia Firenze alla volta di Bologna, dove sosta fino al cadere dell’anno nel convento di S. Domenico; ivi, ad opera di “falsi frati”, la lunga mano dell’Inquisizione gli sottrae furtivamente tutti i manoscritti, che rivedrà più tardi nel S. Uffizio tra le mani dei giudici, ma che non riuscirà a ricuperare mai più.
Ai primi di gennaio 1593 giunge a Padova e prende stanza nel convento di S. Agostino; subito è coinvolto in un’inchiesta per reato di sodomia perpetrato o tentato ai danni del generale dell’Ordine e, come innocente, viene ben tosto prosciolto. A Padova vive miseramente, iscritto all’università come studente spagnolo, forse impartendo lezioni private, studiando medicina e assistendo alle dissezioni anatomiche. Strinse allora amicizia con Galileo, che, nominato di fresco professore, gli aveva recato una lettera del granduca, e a Venezia ebbe incontri con Paolo Sarpi e rivide il Della Porta, che aveva lasciato Napoli per noie con il Sant’Uffizio. Il 23 giugno presenziò in qualità di testimone al conferimento della laurea in medicina ad un giovane udinese, Giambattista Clario, che presto gli sarebbe stato compagno nel carcere dell’Inquisizione; il 3 luglio la Congregazione dell’Indice in Roma prese in esame le opere sequestrate al C. in vista di una probabile proibizione; non a caso nel corso dell’anno verranno posti all’Indice “donec expurgentur” gli scritti maggiori del Telesio; il 13 agosto, sempre illudendosi che il granduca lo potesse chiamare a una cattedra in Toscana, gli scrisse invano, sollecitando. Nel corso del ’93 compone o delinea una Nova physiologia, rifacendo il primo libro del De rerum universitate perduto, e ne allestisce un “ingente volumen” in venti sezioni, dedicato a Lelio Orsini, residente a Padova, che gli verrà sequestrato all’atto dell’arresto, ancora “imperfectus”; replica al medico veronese Andrea Chiocco, che aveva scritto contro Telesio, difendendo in una Apologia pro Telesio (smarrita poi da G. Scioppio in Germania nel 1608) l’unità e la sede cerebrale dello spirito animale; detta a certi nobili uditori veneti un primo schema di Rhetorica nova (perduto) e dona ad Angelo Correr una Consultazione ai Veneziani (perduta) circa l’opportunità di consentire che gli ambasciatori spagnoli e francesi a Venezia si rivolgessero al Senato nella loro lingua. Ma soprattutto lo attrae la politica: è di quest’anno la stesura del vasto trattato Della monarchia de’ Cristiani (perduto), che fu offerto all’Orsini e inviato al del Tufo. Il C. vi esponeva quello che doveva restare il suo ideale supremo: la unificazione dell’ecumene sotto una sola legge religiosa e civile. Sullo stesso avvio elabora il meditato programma di riforme esposto nei Discorsi universali del governo ecclesiastico, intesi a rinnovare le strutture della Chiesa e del sacerdozio per adeguarle ai grandi compiti politici e sociali loro assegnati dalla Monarchia, e forse sin d’allora delinea l’appassionata esortatoria dei Discorsi ai principi d’Italia, invitati a riunirsi in Roma in una neoguelfa struttura federale presieduta dal papa.
Ai primi del 1594 il C. venne arrestato per ordine dell’Inquisizione, insieme con l’amico Clario e un tale Ottavio Longo da Barletta, sotto l’accusa di aver disputato “de fide” con un giudaizzante (cioè con un ebreo convertito al cattolicesimo e ritornato poi alla religione avita); all’atto dell’arresto fu trovato in possesso di un libro di geomanzia, superstizioso e vietato, che gli venne sequestrato insieme con tutti i suoi manoscritti. Il 18 febbraio nel Sant’Uffizio romano si delibera di far sottoporre i tre carcerati alla tortura e, dopo che questa è stata eseguita sul Longo, da Roma il 3 maggio si conferma l’ordine di torturare anche il Clario e il C.; una seconda tortura particolarmente severa per il C. venne disposta a Roma il 21 luglio.
Il Clario, che era in rapporto con influenti personaggi di casa d’Austria (successe più tardi al padre nella carica di protomedico della Stiria), ottenne che l’arciduchessa Maria d’Asburgo scrivesse al papa una lettera di raccomandazione per gli inquisiti. Il 30 luglio un gruppo di amici tentò dall’esterno l’effrazione delle carceri di Padova al fine di far evadere i tre detenuti, ma la mossa terneraria fallì e, in conseguenza, la posizione degli imputati riuscì aggravata: infatti il Sant’Uffizio avocò la causa a Roma e l’estradizione, per evitare un lungo e incerto negoziato con le autorità venete così gelose delle loro giurisdizioni, fu eseguita clandestinamente, con illegalità tanto più sfacciata in quanto il Clario era suddito della Repubblica.
L’11 ott. 1594 i tre prigionieri fecero il loro ingresso nelle carceri romane dell’Inquisizione che già ospitavano Francesco Pucci e Giordano Bruno, entrambi destinati a perire sul rogo. In un sonetto Al carcere il C. esprimerà con efficacia l’oscura ineluttabilità di quel convegno di liberi spiriti nella “rocca sacra a tirannia segreta”. Intanto le accuse a carico del C. si aggravano: è imputato di aver scritto un sonetto empio contro Cristo, di essere autore del libello ateo De tribus impostoribus, di sostenere opinioni democritee; presto il processo verterà sulla intera sua filosofia. Ma egli si batte coraggiosamente contro i giudici, si difende con efficace destrezza, contrattacca; lo stesso padre commissario Alberto Tragagliola è preso da viva simpatia per quel giovane così precocemente segnato dalla genialità e dalla sventura. Nel corso dell’anno aveva dettato una Fisiologia compendiosa, certo un sommario del sequestrato De rerum universitate, e molti versi latini e volgari (perduti). Nel carcere romano, non oltre il maggio 1595, stende un altro riepilogo latino della propria fisica col titolo di Compendium de rerum natura;si tratta dell’opuscolo che Tobia Adami rintracciò più tardi (1611) in Padova e pubblicò a Francoforte nel 1617 col titolo di Prodromus philosophiae instaurandae. Intraprende anche un’altra esposizione sommaria, in volgare, delle proprie dottrine fisiologiche, trascurando le vaste digressioni polemiche, e la intitola Epilogo magno di quello che della natura delle cose ha filosofato fra’ T. Campanella servo di Dio;l’opera, compiuta poi a Napoli nel 1598 e dedicata a Mario del Tufo, già toccava nel sesto e ultimo libro, accanto ai consueti quesiti della fisica, anche i problemi dell’etica. Insieme con molti versi compone anche un’Arte versificatoria (perduta) per introdurre nella lingua italiana la metrica latina e ne dona copia al Clario; detta infine in volgare due perduti poemetti filosofici sul modo di apprendere e sulla fisiologia.
Concluse le inchieste e gli interrogatori, il 14 marzo 1595 il tribunale invitò il C. a stendere le proprie difese: probabilmente in tale circostanza egli presentò uno scritto a sostegno della filosofia propria e del Telesio, intitolato Apologia pro philosophis Magnae Graeciae ad Sanctum Officium. A fine d’aprile venne torturato ancora una volta; pochi giorni più tardi fu emessa la sentenza a carico del C. e del Clario, condannati alla pubblica abiura “per gravissimo sospetto d’eresia”, mentre l’inchiesta a carico del Longo, quale maggiore colpevole, rimase ancora aperta. Il 16 maggio, con altri dieci compagni, nel corso di una solenne e sinistra cerimonia nella chiesa domenicana di S. Maria sopra Minerva, il C. e il Clario si piegarono all’abiura: mentre questi se ne andò prosciolto, il C. venne assegnato in residenza obbligata, “loco carceris”, al convento domenicano di S. Sabina sull’Aventino. Il 30 ottobre terminò anche il processo del Longo, condannato all’abiura e a lunga detenzione. Intanto, nell’operoso raccoglimento di S. Sabina, tutto intento a dimostrare ai superiori zelo e ravvedimento, il C. riprende a scrivere con rinnovata lena; il 25 dicembre dedica al card. Michele Bonelli, protettore dell’Ordine, il Dialogo politico contro Luterani, Calvinisti e altri eretici, esame polemico delle cause storiche e politiche della Riforma, e il giorno seguente lo invia con una devota lettera al padre Tragagliola. L’anno seguente, sempre in S. Sabina, compone un Trattato dell’arte cavaglieresca (perduto) dedicato al del Tufo, allevatore di purosangue, e stende in volgare una prima Poetica, offerta al card. nipote Cinzio Aldobrandini.
Ogni sua mossa è intesa a ricuperare intera la libertà: il 31 maggio 1596 presenta al Sant’Uffizio un memoriale per ottenere la restituzione dei propri manoscritti; il 12 giugno con un secondo memoriale chiede di essere abilitato a tenere per confino l’intera città di Roma, ma ottiene solo di poter visitare una volta tanto le sette chiese; il 3 luglio un terzo memoriale con le solite richieste viene respinto dall’Inquisizione. Soltanto l’ultimo dell’anno gli inquisitori consentono finalmente al C. di lasciare S. Sabina e di trasferirsi al convento della Minerva, nel cuore di Roma, ormai definitivamente prosciolto dal Sant’Uffizio e riaffidato ai superiori del proprio Ordine; sembra così che si avverino le più rosee speranze del giovane frate, cui è consentito vivere in un grande centro politico e di cultura e di sperare in una prossima, completa riabilitazione.
Invece quella pace non dura: il 5 marzo 1597 un delinquente comune, lo stilese Scipione Prestinace, nel salire il patibolo in Napoli, ottiene di rinviare l’esecuzione con l’abusato espediente di vantare “in extremis” pretese rivelazioni da compiere in materia di religione. Nominato da costui come eretico, il C. è subito arrestato e ricondotto, dopo due soli mesi di libertà, nel carcere dell’Inquisizione romana, dove intesse per un trimestre filosofici conversari col fiorentino Francesco Pucci, imbevendosi delle sue aspettative escatologiche e del suo generoso irenismo, non immune da accenti pelagiani. Il 18 maggio altri dodici eretici vennero condotti all’abiura pubblica nella Minerva, e tra essi il Longo e il Pucci; quest’ultimo venne poi decapitato in Tor di Nona il 5 luglio e il suo cadavere fu arso in Campo dei Fiori; il C. lo pianse con intenso accoramento nel Sonetto fatto sopra uno che morse nel Santo Offizio in Roma. Dopo aver dettato nel novembre il sonetto ACesare d’Este, invitandolo a non contrastare le pretese papali su Ferrara, rivendicata dalla S. Sede dopo la morte del duca Alfonso senza eredi legittimi, il 17 dicembre il C. venne finalmente liberato, concluso senza esito il supplemento d’inchiesta a suo carico, e fu riconsegnato ai superiori del suo Ordine perché lo assegnassero in relegazione severa ad un convento da stabilirsi; gran parte delle sue opere venne proibita; la decisione ultima, profondamente deludente per lui, fu di rimandarlo nella nativa Calabria.
Ai primi del ’98, piegandosi a malincuore all’obbedienza, il C. riprese la via verso la sua terra, che non rivedeva da un decennio. Nel viaggio cercò di prolungare la sosta a Napoli, dove ritrovò molti vecchi amici e protettori e diede lezioni di geografia a certi nobili, dettando una Cosmographia e una Encyclopaedia facilis “ai principi” (perdute) e dando l’ultima mano all’Epilogo magno. Nel maggio un tal Niccolò Fanti, prete, già complice della tentata evasione del 1594, depose nel Sant’Uffizio di Padova a carico del C. a proposito del sonetto empio contro il Redentore a lui attribuito. Imbarcatosi a Napoli nel luglio, a fine mese il C. prende terra nel golfo di Sant’Eufemia e raggiunge la vicina Nicastro, dove subito si adopera per pacificare le aspre contese giurisdizionali tra il vescovo e l’autorità civile. Di là il 15 agosto si trasferisce a Stilo e vi prende dimora nel piccolo convento domenicano di S. Maria di Gesù, dove compone cinquanta articoli contro il Molina, difendendo la dottrina tomistica della predestinazione, un trattatello De episcopo, forse quale specchio esemplare del pastore cristiano in senso controriformistico, e una tragedia Maria di Scozia “perSpagna contra Inghilterra” sulla fine infelice di Maria Stuarda (tutto perduto).
Fallita l’evasione dall’isolamento provinciale, compromessa irreparabilmente la carriera in seno all’Ordine, duramente percosso e umiliato, il C. dovrebbe ora seguire la via amara della rinuncia e del silenzio: presto si trova invece coinvolto in una nuova mossa temeraria. In quel paese stremato e oppresso, diviso da fazioni accanite e da aspre contese giurisdizionali, violato dalle scorrerie dei Turchi e dei Barbareschi, infestato dai banditi, prende via via forma intorno alla dominante figura del C. una vaga, ma pur vasta e rivoluzionaria congiura contro l’autorità spagnola ed ecclesiastica, intesa ad instaurare in Calabria una repubblica comunista e teocratica di cui egli sarebbe stato capo e legislatore. Il programma prevede la cacciata degli Spagnoli, la soppressione della proprietà e delle gerarchie, una democrazia fraterna pervasa dall’aspettazione di immani rivolgimenti cosmici già preannunciati da segni inquietanti in terra e in cielo. Forse il C. reca al complotto nulla più che l’apporto del suo fascino di uomo dotto e facondo, l’annuncio messianico del nuovo ordine imminente, una interpretazione globale delle profezie, degli oracoli, dei prodigi e dei segni astrali; ma le conventicole dei malcontenti e degli illusi vedono in lui la guida ispirata e il condottiero insostituibile, anche se ne fraintendono e snaturano le mete ideali, attratti solo dalla bramosia di saziare basse avidità e vendette personali.
In ripetute prediche del febbraio-aprile 1599 tenute nella chiesa di Stilo il C. annuncia pubblicamente l’imminenza di gravi rivolgimenti mondiali e forse sin d’allora compila una silloge di testi profetici sulla fine del mondo. Nel maggio si aduna a Catanzaro il capitolo provinciale domenicano, ma il C., con suo scorno, non è designato a parteciparvi; si adopera invece a Stilo per metter pace tra le fazioni locali. Nel giugno i contatti fra i congiurati si fanno più fitti; il C. soggiorna per sei giorni a Monasterace, ospite di Scipione Concublet marchese d’Arena, ch’è curioso di aver ragguagli sulle novità che si vociferano imminenti; già il 16 di quel mese il vescovo di Squillace in un memoriale al Sant’Uffizio denuncia come sospetto il contegno del Campanella. Nel luglio fra’ Tommaso si reca a Castelvetere (oggi Caulonia), dove per due giorni intesse colloqui con persone interessate al movimento, poi sosta per altri quindici giorni ad Arena, sempre ospite del marchese, per recarsi poi a Pizzoni, dove per una settimana intrattiene vari conciliaboli segreti. Di ritorno a Stilo, trascorre qualche giorno nella casa paterna di Stignano, scambiando lettere cifrate con i congiurati, poi, ai primi d’agosto, presenzia ad altri due convegni clandestini a Davoli e a Santa Caterina, rientrando quindi a Stilo.
Il 10 agosto Fabio di Lauro e Giambattista Biblia, due oscuri congiurati di Catanzaro, scoprono la confusa trama all’auditore fiscale spagnolo Luis de Xarava, che tosto informa il viceré Ferrante Ruiz de Castro conte di Lemos; quattro giorni dopo anche fra’ Cornelio da Nizza, socio del visitatore domenicano di Calabria, denuncia il C. al Sant’Uffizio. Il 17 agosto, in seguito ai solleciti e decisi provvedimenti ordinati a Napoli, sbarca in Calabria per la repressione l’energico comandante Carlo Spinelli con due compagnie di fanti; il fragile e sconnesso edificio della congiura crolla subitamente tra fughe e delazioni; via via che i sospetti vengono catturati, si istituisce a loro carico un duplice processo di ribellione e d’eresia. Lo stesso giorno 17 il C. fugge dal convento di Stilo e si nasconde a Stignano in casa amica, Ma il 2 settembre, sentendosi malsicuro, si rifugia nel vicino convento francescano di Santa Maria di Titi e il giorno seguente muove verso la Roccella, celandosi, travestito da contadino, nella capanna di un Antonio Mesuraca, che aveva verso di lui un grave debito di riconoscenza perché in passato il padre del C. gli aveva salvato la vita. Ma, dopo aver promesso al C. di procurargli un imbarco sicuro, il Mesuraca lo tradisce, consegnandolo (6 settembre) agli armati che lo braccavano. Tradotto nel carcere di Castelvetere, il 10 settembre vi scrive di suo pugno e consegna allo Xarava una Dichiarazione sui fatti di Calabria, che risulterà per lui gravemente compromettente per le incaute ammissioni in essa sottoscritte. Il 13 settembre viene tradotto al castello di Squillace, dove si inizia il processo; il 29 il tribunale si trasferirà a Gerace, dopo che, due giorni avanti, due complici della congiura sono stati giustiziati a Catanzaro; nel frattempo molti vagamente compromessi o sospettati versano ai repressori somme ingenti di denaro per assicurarsi l’impunità. Sulla fine d’ottobre centocinquantasei prigionieri, e fra essi il C., incatenati a coppie in lunghe file vengono trasferiti a piedi a Monteleone (oggi Vibo Valentia) e scendono a Bivona, presso il Pizzo, per imbarcarsi su quattro galere.
Le navi, col loro triste carico, giunsero in vista del porto di Napoli l’8 nov. 1599, recando quattro congiurati impiccati ai pennoni; altri due vennero squartati presso il molo a monito del fedele popolo della capitale. Insieme a numerosi complici il C. venne serrato in Castel Nuovo nel torrione del Castellano: vi ingannò l’attesa angosciosa componendo poesie per compiangere le sventure proprie e animare a virili sensi gli amici, ai quali scrisse biglietti clandestini, incitandoli a ritrattare le prime confessioni. Dopo che il Sant’Uffizio ebbe richiesto invano (11 novembre) che i sospetti d’eresia venissero tradotti a Roma, si iniziò il processo della congiura per i laici, prima fase d’una serie sfibrante di interrogatori, confronti e torture. L’11 genn. 1600, papa Clemente VIII sottoscrisse il breve di costituzione del tribunale deputato a giudicare la causa della congiura per gli ecclesiastici, chiamando a farne parte il nunzio a Napoli Iacopo Aldobrandini e il magistrato don Pedro de Vera, fattosi chierico per l’occasione. Il 18 gennaio ebbe luogo il primo interrogatorio del C., che negò recisamente ogni addebito, e si chiese a Roma l’autorizzazione a torturarlo; il 31, al fine di fiaccarne la resistenza, venne chiuso per una settimana nell’orrida segreta sotterranea detta “del coccodrillo”, dalla quale uscì, infermo e stremato, per venir sottoposto al durissimo tormento del “polledro”, reiterato il giorno seguente. Egli non lo sopportò, piegandosi ad un’ampia confessione, nel corso della quale, pur negando di aver tramato la ribellione, ammise di aver voluto erigere una repubblica di nuovo stampo, se fossero sopravvenuti in Italia i rivolgimenti attesi e preannunciati. La sua arrendevolezza sotto il tormento, probabilmente simulata è la prima mossa di un ben architettato tentativo di salvezza: egli sa bene di essere il capo riconosciuto del movimento e che la sua situazione processuale può dirsi disperata, anche se, per formale rispetto della procedura, gli viene consegnato un riassunto delle accuse emerse a suo carico e lo si invita a presentare le proprie difese: quelle redatte nel marzo dall’avvocato dei poveri Giambattista de Leonardis appariranno tanto coraggiose quanto inutili.
Il 2 aprile, mattina di Pasqua, il C. mette in atto il suo piano: si fa trovare dai carcerieri riverso e vaneggiante sul pagliericcio incendiato, nella cella piena di fumo: dà inizio così, conscio di giocare tra la vita e la morte, a una temeraria e tenacissima simulazione di pazzia, l’unico espediente che ancora può salvargli la vita. Intanto completa di nascosto (10 aprile) la stesura delle proprie difese, che non è ormai più in grado di consegnare, visto che si mostra fuor di senno, ma che viene via via ritoccando nel corso dell’anno per ogni eventualità: esse si compongono di una Prima delineatio defensionum, narrazione abilmente attenuata dei fatti di Calabria, e di una Secunda delineatio defensionum, silloge dei testi profetici che avevano ispirato la sua predicazione e primo abbozzo dei futuri Articuli prophetales;è di quei giorni anche l’Apologia ad amicum, indirizzata probabilmente al Ponzio, nella quale il C. esprime il suo accorato sdegno per il fraintendimento del proprio messaggio operato dai congiurati calabresi (lo scritto verrà poi rielaborato a guisa di appendice agli Articuli). Il 19 aprile il papa nominò giudici del processo d’eresia il nunzio Aldobrandini, il suo vicario e il padre Tragagliola, già commissario del Sant’Uffizio romano e ora promosso vescovo di Termoli; il 10 maggio ebbe inizio il processo d’eresia e due giorni dopo si chiese a Roma l’autorizzazione a torturare gli imputati, che venne concessa l’8 giugno ad arbitrio dei giudici. Intanto il 17 maggio aveva avuto luogo il primo interrogatorio del C., che seguitò a mostrarsi pazzo; il 18, torturato con un’ora di “corda”, persisté nelle stravaganze e nei dinieghi; il 20, in un terzo interrogatorio, non si tradì nella sua ardua finzione; più tardi (6-15 novembre) ben dieci testimoni deposero, proclamandosi convinti della pazzia del C., che era stato spiato a più riprese, anche di notte.
Nel corso di quell’anno 1600, il recluso si occupa di astrologia, compone rime autobiografiche e sacre, sonetti politici e d’occasione, oziosi versi d’amore dettati per compiacere compagni cli prigionia; a partire dall’aprile stende febbrilmente la Monarchia di Spagna, additando, non senza opportunismo, nella grande monarchia iberica la potenza mondiale destinata ad attuare l’unificazione dell’orbe sotto un solo potere e l’erezione della monarchia cristiana. Il 1º genn. 1601 morì il mite e comprensivo Tragagliola e solo il 23 marzo venne designato a sostituirlo in seno al tribunale il severo Benedetto Mandina, vescovo di Caserta. Questi il 13 aprile scrisse a Roma lamentando l’estrema penuria di cui soffrivano i frati imprigionati e il 26 gli fu risposto di far provvedere alle loro necessità mediante i superiori della provincia domenicana; ma ancora nell’agosto quelli non s’erano piegati a sovvenire i loro sventurati confratelli.
Il 31 maggio da Roma si ordinò di accertare definitivamente se la pazzia del C. era vera o finta. Un fidato amico e compagno di carcere, fra’ Pietro Presterà, nella speranza di sottrarre il C. alla nuova tortura minacciata, fece pervenire ai giudici (3 giugno) la Prima e la Secunda delineatio defensionum, ma senza esito. Dopo aver protratto senza mai tradirsi, per quattordici mesi, l’abile e pertinace simulazione della pazzia, il C. la sancì definitivamente sopportando con animo invitto, per trentasei ore consecutive (4-5 giugno), l’atroce supplizio della “veglia”; ne uscì stroncato, infermo per sei mesi ma salvo, perché la prova legale della sua follia lo sottraeva per sempre al patibolo. Fatto certo ormai della vita, lotterà d’ora innanzi per ricuperare quella libertà, che sola può consentirgli di attuare nel mondo l’azione riformatrice cui si sente predestinato. Il superamento dell’inaudita tortura resterà poi nel suo ricordo come prova di coraggio inflessibile, un culmine alto, quasi testimonianza vissuta della libertà dell’arbitrio umano, che forze avverse e fisiche sofferenze non possono riuscire a piegare.
Il 2 agosto una perquisizione improvvisa operata nel carcere conduce al sequestro di un codicetto, nel quale un amico e coimputato, fra’ Pietro Ponzio, era venuto trascrivendo ottantadue poesie del C.; fu sequestrato altresì un fitto manoscritto (che il C. cercò di salvare gettandolo dalla finestra su un sottostante terrazzo) contenente il testo dell’Epilogo magno, che l’autore, ancora prostrato per il supplizio patito, già veniva riprendendo; nel corso dell’anno continuò a dettare poesie, si dedicò a studi di grafologia, stese probabilmente gli Aforismi politici, esposizione “epilogistica” della sua dottrina sulle società umane organizzate e sul potere. Il 20 settembre morì il vicerè conte di Lemos e gli successe interinalmente il figlio Francisco de Castro.
Del tutto risanato, il C. trascorre il 1602 componendo opere di largo impegno: la Città del Sole, descrizione romanzesca, sul modello dell’Utopia del More, di una repubblica felice, nella quale riapparivano, idealizzate e riscattate dalle rozze interpretazioni dei congiurati, le idee di riforma radicale della società bandite in Calabria al tempo della congiura; la prima redazione (in volgare) della Metafisica in tre parti e 15 libri; varie rime filosofiche. Il 16 ottobre due frati complici, Dionisio Ponzio e Giuseppe Bitonto, riescono ad evadere dal Castel Nuovo e a riparare dapprima a Malta, poi a Costantinopoli, dove il Ponzio, fattosi maomettano, verrà ucciso in rissa da un giannizzero. Dopo lunga ponderazione degli atti del processo d’eresia, si delibera in Roma (13 novembre) che il C. sia condannato al carcere perpetuo e irremissibile da scontarsi nelle prigioni del Sant’Uffizio; il 29 il tribunale napoletano prende atto della sentenza, che è puramente formale, sia perché sono tuttora aperti i processi per la ribellione, sia perché è palese che il governo spagnolo non concederebbe mai l’estradizione di un personaggio tanto pericoloso. L’8 gennaio del 1603 la sentenza venne letta al Campanella.
Mentre continua fiaccamente il processo per la congiura, destinato a non sfociare in conclusione di sorta, giunge a Napoli in aprile il nuovo viceré Juan Alfonso Pimentel de Herrera, conte di Benavente; poco dopo, il giudice de Vera si sposa (luglio 1603) rendendosi inabile a far parte del tribunale di un processo ecclesiastico, sicché anche la causa di ribellione contro i frati ne risulta arenata. Un decreto (7 agosto) del padre Francesco Maria Guanzelli, maestro del Sacro Palazzo, pone all’Indice tutte le opere del Campanella. Per timore che tenti di imitare il Ponzio nell’evasione, nello stesso mese lo si trasferisce nel torrione del castello, in cella più isolata e sicura; là, in compagnia di Felice Gagliardo, giovinastro superstizioso, si dà alle pratiche magiche e alle evocazioni demoniache, mosso da fallaci presagi di libertà e da vibranti speranze di prossimi sommovimenti cosmici provocati dalla prevista “congiunzione magna” (l’eccezionale concorso di pianeti nell’auge di Mercurio in Sagittario atteso per il 24 dic. 1603). La scoperta, in ottobre, di un piano ordito per favorire la sua fuga provoca una sorveglianza più severa. Fin dall’aprile aveva affidato al tedesco Christoph Pflug, carcerato per errore in Castel Nuovo, copia della Monarchia di Spagna e dell’Epilogo magno;intraprende una vasta Astronomia in quattro libri, che compirà l’anno seguente, allegandovi un’appendice De symptomatis mundi per ignem interituri (perduta); stende anche un Prognosticon astrologicum de his quae mundo imminent usque ad finem (perduto), che invia all’amico Antonio Persio e al matematico e geografo Giovanni Antonio Magini; affida al discepolo Geronimo del Tufo la Metafisica italiana, che non riuscirà più a ricuperare; nell’inasprita detenzione, privo di libri e dell’agio di scrivere, compone essenziali rime filosofiche.
Nel luglio 1604 venne trasferito in castel Sant’Elmo, in un’orrida fossa sotterranea cieca e umida, dove resterà per quattro anni, con ferri alle mani e ai piedi, toccando il culmine del suo calvario di sofferenze fisiche e morali. Con il solo conforto di un pio confessore, il pavese don Basilio Berillari, superando quella profonda crisi di sconforto e di smarrimento intellettuale, egli venne allora operando un radicale ripensamento dei propri filosofemi, che coronerà l’anno seguente con l’accettazione della propria sorte di sofferenza e di grandezza, in una illuminante conversione, che non tanto si risolse in ascesi religiosa, quanto in una reinterpretazione globale del proprio destino. Potrà così rientrare senza riserve nell’ovile cattolico recando con sé, intatto, il prorompente impulso riformatore. Nella “fossa” detta le sue liriche più sofferte: il Sonetto nel Caucaso, la Lamentevole orazione profetale, le tre Salmodie metafisicali, le quattro canzoni In dispregio della morte; di là indirizza al papa, ai sovrani, ai potenti, commosse suppliche di liberazione, di continuo ravvivando le sempre deluse speranze. Sempre nel 1604, ricompone in volgare, col titolo Del senso delle cose e della magia, il perduto De sensitiva rerum facultate del 1590 e, tramite il devoto e autorevole confratello Serafino Rinaldi, fa pervenire al viceré un suo parere De regimine regni Neapolitani (perduto), forse rifuso poi negli Arbitrii del 1608.
Il 27 ott. 1604 il papa designa Giovanni Ruiz de Baldevieto a sostituire il de Vera (pronunciato inabile sin dal 29 luglio) in seno al tribunale per la congiura degli ecclesiastici; nel gennaio 1605 il C. tenta invano di farsi ricevere dal viceré, ponendo l’accento sulla propria perizia nelle scienze politiche. Dopo la morte di Clemente VIII (5 marzo) e il brevissimo pontificato di Leone XI, nuove speranze suscita in lui l’ascesa al soglio (16 maggio) di Camillo Borghese col nome di Paolo V. Il 26 marzo i frati complici, concluso il processo per la congiura, vengono liberati, ma per tacito accordo fra i giudici ecclesiastici e il governo spagnolo (timoroso di dover consentire, a sentenza pronunciata, che il C. venga trasferito a Roma in virtù della condanna subita per eresia) il filosofo viene “dimenticato” nella “fossa” di Castel Sant’Elmo: gli toccherà ancora penare per più di vent’anni nelle segrete dei castelli napoletani.
Il 17 giugno 1605, certo a richiesta del C., un ignoto amico denunzia al Sant’Uffizio romano che egli subisce gravi maltrattamenti da parte dei ministri regi; in agosto indirizza egli stesso un memoriale (perduto) al nunzio Aldobrandini e all’inquisitore Diodato Gentile, vescovo di Caserta, chiedendo di venire ascoltato di persona e preannunciando mirabolanti rivelazioni e promesse; visitato nell’ottobre dai due prelati, ne viene giudicato un esaltato visionario. Nel corso dell’anno svolge attività intensa di scrittore: compone un libro latino Cur sapientes et prophetae nationum omnium in magnis temporum articulis fere omnes rebellionis et haeresis tamquam proprio crimine notentur ac morti violentae subiaceant, et postmodum cultu et religione reviviscant (perduto), volto a indagare le cause del fallimento pratico di tutti i grandi filosofi e profeti; intraprende la stesura in volgare di una radicale apologia razionalistica del cristianesimo, che intitola Recognoscimento filosofico della vera universale religione contra l’anticristianesimo macchiavellistico e che trasfonderà poi nell’Atheismus triumphatus; pone mano agli Articuli prophetales, vasta silloge di testimonianze a suffragio del proprio millenarismo.
Il 23 maggio 1606 rilasciò una dichiarazione all’abate Vincenzo Pagano per ottenere rimedi utili alla propria salute fisica e morale, dicendosi ammalato, senza cibo, privo di assistenza spirituale; il 2 giugno inoltrò una seconda supplica al Gentile; il 13 da Roma si ordinò di provvederlo di un prudente e discreto confessore, ma il viceré volle riservare a sé la facoltà di sceglierlo e pretese che fosse in ogni caso spagnolo. Tra il luglio e l’agosto indirizzò suppliche appassionate a Paolo V, a Filippo III di Spagna, ai card. Girolamo Berneri, Cinzio Aldobrandini e Odoardo Farnese, al nunzio a Napoli Guglielmo Bastoni: in esse il recluso chiede di venir trasferito a Roma, narra patimenti e sventure, elenca le opere compiute o progettate, profferisce audaci o stravaganti promesse; da ogni pagina spira un inesausto fervore di operare per il bene della cristianità, un ravvivarsi perenne dei propositi e delle speranze. In quell’anno detta la bellissima, dolorante Canzone di pentimento, indirizzata al Berillari, e poco più tardi le grandi Salmodie sulla bellezza del creato e la potenza dell’uomo; intanto rielabora l’Epilogo magno e lo correda di “avvertimenti”, nei quali riprende la discussione delle dottrine dei filosofi classici abbandonata dopo la perdita (1593) del De rerum universitate;probabilmente in quest’anno, se non prima, ricompone in compendio i Discorsi universali del governo ecclesiastico, cui recherà in seguito ripetute aggiunte; fra il settembre e l’ottobre detta tre libri di accorate rampogne ed esortazioni A Venezia (che lo Scioppio intitolerà poi Antiveneti)e si offre al papa quale campione della Chiesa nell’aspra contesa dell’interdetto contro la Serenissima. La gravità del momento politico e il serrato dibattito dottrinale in corso lo inducono anche a stendere in volgare, riprendendo in parte i concetti della smarrita Monarchia dei Cristiani, l’esposizione del suo ideale di teocrazia ecumenica col titolo di Monarchia del Messia, cui allega in appendice un Discorso delle ragioni che ha il Re Cattolico sopra il Mondo Nuovo e altri regni d’infedeli;infine vagheggia il progetto, e forse lo attua in parte, di “un volume per convertir li gentili dell’Indie orientali e occidentali”, prima stesura di quello che sarà il libro II del Quod reminiscentur.
Ai primi del 1607 il C. entrò in rapporto epistolare con il controversista tedesco Kaspar Schoppe (italianizzato in Scioppio), neofito del cattolicesimo, che promise di interessarsi ai suoi casi. Il 23 marzo l’inquisitore Gentile chiese a Roma che il domenicano Gaspare Peña, confessore del C., fosse autorizzato ad assolverlo anche dai casi riservati; il 19 aprile la concessione venne accordata, ma si invitò il Gentile a farsi consegnare il trattato sulla conversione degli eretici (il Recognoscimento ricordato) e a mandarlo a Roma; fin dal 12 intanto il C. aveva indirizzato un ampio memoriale al papa e al collegio cardinalizio con le suppliche e promesse consuete. In quei giorni (17 aprile) lo Scioppio venne a Napoli e, pur non riuscendo a vedere di persona il C., scambiò con lui varie lettere, in realtà mirando piuttosto a carpirne manoscritti e suggerimenti per i propri lavori polemici che ad aiutarlo concretamente. Vedendo così rinverdire le proprie speranze, il C. detta memoriali appassionati diretti a Paolo V, a Filippo III, all’imperatore Rodolfo II, agli arciduchi d’Austria, a vari cardinali; carteggiando con lo Scioppio, redige per lui vari opuscoli epistolari di argomento medico: sull’avvelenamento mercuriale dei luetici (perduto), sul modo di evitare il freddo o la calura eccessiva e un De pestilentia Coloniensi indirizzato il 14 giugno a Serafin Henot.
Il 18 maggio lo Scioppio partì da Napoli alla volta di Roma; poco più tardi, sotto la data forse fittizia del 1º giugno, il C. gli spedì copia di tutte le sue opere disponibili: erano tra esse i Discorsi ai principi d’Italia di recente rielaborati, gli Aforismi politici espressamente corredati di postille latine, nonché due testi oggi perduti, cioè l’Apologia pro Telesio del 1593 e il Prognosticum astrologicum del 1603. Lo stesso giorno dedicò allo Scioppio, ultimato e tradotto in latino, il trattato contro gli increduli, intitolato Recognitio verae religionis, invitandolo a volgerlo in tedesco perché facesse frutto nella conversione della Germania; il destinatario si limiterà a mutargli il titolo nel pomposo Atheismus triumphatus. Il 5 luglio il Sant’Uffizio romano prese in esame due memoriali del C., nei quali egli chiedeva di essere trasferito in carcere meno duro e di venir tradotto a Roma per sottostarvi ad un nuovo processo; l’ordine fu di assegnargli una cella meno disumana nello stesso Castel Sant’Elmo e di rivedere il suo incartamento processuale. In quei giorni il prigioniero componeva la canzone Della prima possanza e, in una sofferta lettera a mons. Antonio Querenghi, tracciava un quadro delle proprie traversie giovanili e dei lunghi patimenti. Il 17 agosto l’inquisitore Gentile notificò a Roma che, per ordine del viceré, il C. era stato trasferito in una cella ordinaria.
Partendo da Roma alla volta della Germania (2 settembre) lo Scioppio porta con sé copia di vari scritti del C.: sulla metà del mese, a Bologna, tenta invano di far stampare la Monarchia del Messia e i Discorsi ai principi, e poco dopo, a Venezia, conduce inconcludenti trattative con il libraio senese Giambattista Ciotti per la pubblicazione del dell’Atheismus, del Senso delle cose e dell’Epilogo magno; arrestato per due giorni (27-28 settembre) come agente politico sospetto, si vede sequestrare la Monarchia di Spagna e gli Antiveneti.
Ai primi di genn. 1608 l’arciduca Ferdinando d’Asburgo, il futuro imperatore, indirizza al viceré una commendatizia per il C., auspicando per lui carcere più umano e facoltà di scrivere; il 24 si legge nel Sant’Uffizio romano un memoriale del C., che chiede daccapo di essere tradotto a Roma e una revisione del processo, ma il papa non acconsente. Finalmente tra marzo e aprile viene trasferito in Castel dell’Ovo, dove resterà per sei anni in detenzione meno feroce, tanto da poter ricevere visite di ammiratori e discepoli e da aver agio di stendere la traduzione latina di molte sue opere, così da facilitarne la diffusione oltr’Alpe. Subito insospettito, il Sant’Uffizio romano invita mons. Gentile (29 giugno) a procurare che il C. passi dalle carceri regie a quelle dell’Inquisizione, visto che sussistono gravi indizi a suo carico; solo nel settembre, per la recisa opposizione vicereale, si lascerà cadere la pratica. Per contro l’arciduca, su istanza dei potenti banchieri Fugger, rinnova il suo intervento (3 ottobre), stavolta chiedendo addirittura la liberazione del Campanella.
L’operosità del recluso è sempre intensa: nel maggio, in risposta ad un quesito del medico tedesco (ma residente a Roma) Giovanni Faber, gli invia un opuscolo epistolare “sul pieno e sul vacuo”; entro l’agosto compone i tre Arbitrii sopra l’aumento delle entrate del Regno con acuti suggerimenti di politica tributaria e, per mezzo del confessore Peña, li fa pervenire al viceré, che li prende in esame e solleva obbiezioni, cui il C. risponde. Intanto dà l’ultimo compimento agli Articuli prophetales e continua a carteggiare con lo Scioppio, insistendo perché questi non dismetta i tentativi di liberarlo e incitandolo con suggestive promesse; per contro, lo zelo del poco fedele amico si va raffreddando: in Germania egli fa tradurre in latino i Discorsi ai principi d’Italia, ripromettendosi di farli stampare a Monaco, ma non conduce a buon fine il disegno.
Il 26 marzo 1609 nel Sant’Uffizio romano si diede lettura di un memoriale indirizzato dal C. al papa, probabilmente quello che possediamo, senza data, ma certo del 1609, ch’egli spedì a Paolo V, Filippo III e Rodolfo II, implorando libertà; si decise di riesaminare la sua causa. Il 20 maggio scrisse anche allo Scioppio, supplicandolo di intercedere per la sua liberazione; il 15 giugno il nunzio a Graz informò il Sant’Uffizio del continuo carteggio corrente tra il C. e lo Scioppio, al quale aveva spedito gli Antiveneti e la Monarchia del Messia, proclamandosi in grado di profetare e di compiere miracoli. Il 25 giugno il papa ordina che la cella del C. venga perquisita, gli si impedisca di scrivere e si compili un sommario informativo del suo processo; il 16 luglio si decise di scrivere a mons. Gentile per ottenere la traduzione del prigioniero a Roma, ma l’ultimo del mese l’inquisitore napoletano riferiva il rifiuto del viceré di consegnarlo all’autorità ecclesiastica; il papa ordinò allora (13 agosto) di esercitare pressioni dirette sul re, tramite il nunzio a Madrid, per ottenere l’estradizione e di far compilare intanto la lista degli errori in materia di fede contenuti nei suoi scritti. Partito da Graz il 24 luglio, lo Scioppio rientrò a Roma (20 agosto); l’arciduca aveva già richiesto con un terzo memoriale (30 luglio) che egli venisse ammesso a diretti colloqui col C., dal quale contava di trarre larga messe di suggerimenti per la sua polemica contro i riformati; in realtà egli non si spinse più fino a Napoli, ma il C. gli scrisse a lungo (7 novembre) dissertando ampiamente sull’Anticristo e caldeggiando la propria liberazione.
Anche nel corso del 1609 l’operosità dello scrittore fu intensa: dopo aver discusso con lo Scioppio l’opportunità di volgere in latino i propri scritti per farli conoscere in Germania, traduce il Senso delle cose, che si trasforma nel De sensu rerum;concepisce il disegno di allegare alla trattazione fisica ed etica dell’Epilogo magno anche un testo politico e connette a quel trattato gli Aforismi politici, costituendo la tripartita Filosofia epilogistica, non senza sviluppare in forma autonoma la trattazione sin’allora embrionale dell’Etica; intraprende, a guisa di commentario di tale esposizione sintetica, le vaste Quaestiones physiologicae, ethicae et politicae, compiute in prima stesura intorno al 1613, e detta per esse, a guisa di preambolo, il De gentilismo non retinendo;compone una prima Medicina in due libri; avvia in latino una seconda Metaphysica;continua ad accarezzare l’idea missionaria, quell’idea che animerà il Quod reminiscentur, dichiarando di esser capace di “tirar gli Ebrei alla fede”.
Il 29 apr. 1610 il Sant’Uffizio ordina all’inquisitore, napoletano di accertare quanto vi sia di censurabile negli scritti del C., di reiterare la perquisizione nella sua cella e di trovare un accordo col viceré perché egli sia custodito severamente e non abbia modo di carteggiare. Il 14 maggio il prelato risponde fiaccamente di non aver trovato particolari errori nelle opere in sua mano, fuor delle antiche tesi già venute in luce attraverso i processi. Fin dal 6 maggio il viceré (che il 13 luglio cedette poi i poteri al successore Pedro Fernandez de Castro, conte di Lemos) aveva consentito a “religiosi e persone spirituali” di visitare il C. nel carcere, ma dopo due sole settimane l’ordine venne revocato; in quello stesso mese una perquisizione operata nella cella condusse al sequestro della seconda, incompiuta Metaphysica. Senza scoraggiarsi, il C. ricompone da capo una terza Metaphysica latina in 13 libri; abbozza verosimilmente quello che sarà il libro II del futuro Quod reminiscentur, rivolto alla conversione dei pagani; stimolato dall’apparire del Nuncius sidereus di Galileo, riprende a lavorare all’Astronomia;in data imprecisata tra il settembre e i primi dell’anno seguente indirizza un memoriale a Filippo III e a Paolo V.
Il 13 genn. 1611 scrisse una calorosa lettera a Galileo a proposito del Nuncius. In seguito a un memoriale al papa presentato dai domenicani di Napoli (certo sollecitato e probabilmente redatto dal C.) perché si addivenga ad una sentenza conclusiva nella causa della congiura, da Roma si ordina (17 marzo) di accertare se il processo è terminato e se il C. può venir tradotto nelle prigioni del Sant’Uffizio; un secondo memoriale dei frati sarà letto il 3 giugno. Nel maggio una ennesima perquisizione operata nel carcere condusse al sequestro dell’Astronomia, che andò così perduta; nell’estate il C. fece presentare al viceré un ampio memoriale e un altro ne spedì (29 ottobre) a Paolo V, chiedendo di essere tradotto presso l’Inquisizione romana e non mandato in Spagna, come si vociferava; supplicava anche per ottenere vesti e medicine, delle quali venne provveduto con ordine del 1º dicembre. Nel corso dell’anno, sempre interessato a questioni astronomiche, aggiunge una Nova appendix necessaria agli Articuli prophetales;apporta alcuni ritocchi significativi al testo italiano della Città del Sole;riprende e amplia la Medicina;avvia probabilmente la versione in latino della Filosofia epilogistica;continua a vagheggiare l’idea missionaria, proclamandosi certo di poter convertire ebrei e maomettani. Al riaprirsi di una vecchia polemica dietetica tra naturalisti, per compiacere l’amico telesiano Antonio Persio, autore di un trattatello Del bever caldo (Venezia 1593), gli dedica un De utilitate potus calidi (perduto).
Il 19 luglio 1612 si dà lettura nel Sant’Uffizio romano di un memoriale del C., che chiede di essere ascoltato circa gravi argomenti in materia di fede; si tratta palesemente di un ulteriore espediente in vista della sperata estradizione. Lo stesso giorno si legge pure un esposto di Stefano de Vicariis, vescovo di Nocera e commissario dell’Inquisizione del Regno, il quale lamenta che il C. sia detenuto con tanta strettezza da non poter parlare a persona senza il permesso del viceré. Più tardì (1º settembre) mons. de Vicariis annuncerà di aver visitato il C. nel carcere e di aver appreso da lui che l’autorità civile non solleverebbe difficoltà per consegnarlo ai superiori ecclesiastici, ove questi lo richiedessero; il 27 Paolo V farà rispondere al prigioniero che la maggiore agevolazione in cui gli è lecito sperare è il carcere perpetuo. Nel 1612 il C. diffonde tra i suoi amici un Index librorum, che comprende ormai 36 titoli di proprie opere. Rifacendo la giovanile Rhetorica dal 1593, rielaborando in tre libri una vasta Dialectica (nella quale rifuse solo in minima parte il giovanile De investigatione rerum perduto), ricomponendo in latino con ingenti accrescimenti una Poetica che restaurasse lo smarrito testo volgare del 1596, infine aggiungendo “ex novo” una breve Historiographia, il C. ha ormai costruito l’ingente volume della Philosophia rationalis, al quale solo dopo il 1618 aggiungerà una quinta sezione (ma prima nel definitivo ordinamento) dedicata alla Grammatica.
Tra l’autunno 1612 e la primavera seguente si trattengono per otto mesi a Napoli, reduci dalla Terrasanta, nel corso di un vasto periplo d’istruzione, il nobile giovinetto sassone Rudolf von Bünau e il suo precettore Tobia Adami; quest’ultimo, uomo di ottimi studi umanistici e giuridici, grande ammiratore del C., riesce a mettersi in contatto con lui, intesse un carteggio quasi quotidiano di oltre duecento lettere, riceve per sé e per il proprio discepolo due calorosi sonetti elogiativi e finalmente, nel partirsi, porta con sé copia di quasi tutte le maggiori opere del filosofo: il De sensu rerum, la tripartita Philosophia epilogistica (tradotta in latino solo nelle parti I e II col titolo De philosophia naturali et morali), la Medicina non ancora ampliata fino ai sette libri definitivi, il De gentilismo non retinendo, una Scelta di ottantanove “poesie filosofiche” alle quali l’autore, in vista d’una vagheggiata pubblicazione oltr’Alpe, aveva affiancato espressamente un’Esposizione in prosa. Nel corso della calorosa discussione epistolare con l’Adami il C. aveva dettato l’Epistola antilutherana, le Responsiones e le Responsiones secundae ad obiectiones, componendo una vibrata apologia del cattolicesimo contro le tesi della Riforma, che allogherà più tardi nel libro I del Quod reminiscentur. Inoltre l’Adami si procura a Napoli, tramite il domenicano Gregorio Costa, copia della terza Metaphysica del 1611, anche se l’autore già attende ad un vasto rifacimento, che si protrarrà per il successivo decennio.
Nel 1613 il C. intraprende l’immane Theologia, stende gran parte dei sette libri Astrologicorum che compirà ai primi del 1614, continua a ritoccare gli Articuli prophetales, che promette, ma non consegna all’Adami. Sempre in contatto con Galileo, nel giugno discute per iscritto le sue tesi sulle macchie solari e altrettanto farà in novembre analizzando il galileiano Discorso delle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono (Firenze 1612); l’uno e l’altro testo andranno poi ad accrescere le Quaestiones physiologicae. Il napoletano Tommaso Costo pubblica a Venezia una edizione accresciuta della sua Istoria del Regno di Napoli nella quale narra gli eventi della congiura del 1599 e dei conseguenti processi, con accenti di viva ostilità verso il Campanella.
L’8 marzo 1614 annuncia a Galileo di attendere al libro IV della Theologia;due mesi dopo ha già compiuto il libro V. Il 9 maggio viene letta nel Sant’Uffizio romano una denuncia del domenicano Angelo Romano di Palermo, il quale lamenta che il C. nel carcere abbia agio di comporre libri e li distribuisca a eretici di varie nazioni; un’inchiesta condotta dal de Vicariis non riesce ad accertare il fatto. L’11 maggio il C. detta un memoriale a Cosimo II di Toscana, per ottenerne la protezione e un appoggio per la stampa d’una raccolta di propri scritti; vi allega un’ampia lista di “promesse mirabili” e di opere; per dare maggior peso al documento, lo fa sottoscrivere da Fabrizio Serrano y Leyva conte di Casalduni, un giovane patrizio inetto e malaticcio di cui l’amico fra’ Serafino Rinaldi amministrava i beni. Deplorando i troppo agevoli contatti con varie persone, di cui il C. gode in Castel dell’Ovo, a fine ottobre il viceré lo fa trasferire daccapo in Castel Sant’Elmo in dura reclusione; subito dopo le autorità affidano, per pochi giorni al C. copia della sua prima Metafisica in volgare (trovata in possesso di un certo G. B. Heredia e sequestrata), perché risarcisca una lacuna riscontrata nel manoscritto, che gli vien tosto ritolto. Nel corso dell’anno completa verosimilmente la redazione latina della Philosophia realis, affiancando alla Physiologia e all’Ethica la rielaborazione degli Aforismi politici nella Politica in 173 articoli, allegandovi la Civitas Solis e l’Oeconomia composta ex novo; ciascuna delle quattro sezioni di questa Philosophia della “realtà” fisica e morale è ormai corredata di ampie Quaestiones analitiche e polemiche. Tra il cadere del 1614 e il maggio 1618 darà corso in Sant’Elmo al rifacimento radicale della Medicina, in sette libri.
Nel 1615 il severo rigore della prigionia costrinse il C. ad una penosa inazione; sin dal 23 aprile il Sant’Uffizio romano aveva ordinato al nunzio a Napoli di procacciare copia dell’Atheismus triumphatus e di fare in modo che il recluso venisse posto nell’impossibilità di scrivere; soltanto a gran fatica poté forse avviare la stesura definitiva dell’ampio testo missionario, volto alla conversione al cattolicesimo di tutte le genti, che intitolò da un versetto del salmo XXI: Quod reminiscentur et convertentur ad Dominum universi fines terrae.
Il 24 febbr. 1616 i consultori del Sant’Uffizio in Roma qualificano formalmente eretica l’ipotesi eliocentrica copernicana e due giorni dopo il card. Bellarmino intima a Galileo il “praeceptum” che gli vieta in futuro di insegnare o sostenere le tesi condannate; il 5 marzo segue la condanna all’Indice del De revolutionibus di Copernico e della Lettera in sua difesa del calabrese Paolo Antonio Foscarini, apparsa a Napoli nel 1615. Posto in allarme dalla scoperta ostilità dei teologi romani, il C. compone di getto nell’estate una serrata Apologia pro Galileo, difendendo l’opinabilità scientifica e l’irrilevanza dogmatica della teoria, che pure mal si conciliava con la sua fisica di impronta telesiana, dando così prova di schietto disinteresse e di strenuo coraggio intellettuale; subito fece pervenire il proprio scritto al card. Bonifacio Caetani, incaricato di espurgare il libro di Copernico, sperando così di giovare al grande amico pisano; solo dopo la morte del porporato (nel giugno 1617) escogiterà l’aggiunta di una dedica al Caetani premessa all’Apologia per lasciar credere di aver scritto per suo mandato.
Il 16 giugno 1616 il conte di Lemos lascia il governo di Napoli al fratello Francisco in veste di luogotenente e il 26 sbarca a Pozzuoli il nuovo viceré Pedro Girón duca d’Osuna, uomo ambizioso e irrequieto; sin dall’agosto, ancor prima di aver fatto il suo ingresso in città, l’Osuna mostra interesse per il C. e lo fa condurre alla propria presenza in Posillipo sotto buona scorta, concedendogli poi il trasferimento nel Castel Nuovo in assai più blanda detenzione. Colmo di speranze per quell’improvvisa benevolenza, il C. scrive a Galileo (3 novembre): “sto quasi in libertà”; pochi giorni dopo, proclamando di aver da esporre importanti rivelazioni, ottiene udienza dall’Osuna e chiede senza mezzi termini di essere addirittura rilasciato: il capriccioso duca gli risponde invece con male parole e lo ricaccia nella segreta di Castel S. Elmo.
Ai primi di gennaio 1617 Tobia Adami, rientrato in Germania, pubblica a Francoforte il giovanile Compendium de rerum natura composto dal C. nel 1595 (di cui si era procurato copia in Padova nel 1611); il libretto, preceduto da una diffusa e calorosa Praefatio dell’editore ai filosofi tedeschi e da un sonetto del C. all’Adami (primizia della Scelta che vedrà la luce cinque anni dopo) appare col titolo di Prodromus philosophiae instaurandae, quasi preludio alla pubblicazione degli altri e maggiori testi che l’Adami aveva recato seco; il 10 novembre questi dava notizia a Galileo dell’avvenuta stampa. Era uscita intanto in Germania, in seno ad una miscellanea di scritti antiasburgici, una versione latina anonima del capo XXVIII della Monarchia di Spagna, presentata come libretto autonomo sotto il titolo di Discursus de Belgio sub Hispani potestatem redigendo:nasce così nei paesi riformati la raffigurazione del C. quale machiavellico consigliere politico dell’imperialismo spagnolo. Il 1º dicembre il filosofo dedica a Paolo V il Quod reminiscentur, cui ha lavorato per tutto l’anno.
Nell’aprile 1618 il C. spedì a Roma un memoriale, chiedendo di venir liberato dal carcere “sotterraneo e insalubre”; il 2 maggio il Sant’Uffizio deliberò di scrivere a Napoli, facendo pressione perché la reclusione fosse alleviata, pur assicurandosi contro qualsiasi tentativo di fuga. A fine mese venne finalmente trasferito in Castel Nuovo, la meno opprimente delle carceri napoletane, dove trascorse in condizioni non disumane gli ultimi otto anni di detenzione in mano spagnola. Ritrovato un certo favore presso l’Osuna, che lo chiamò a ripetuti colloqui, poté d’allora in poi ricever visite, impartire qualche lezione, scrivere con maggiore agio, anche se, meno incline a dettar nuove opere, preferirà rivedere e ampliare assiduamente le antiche. Nel giugno vergò un diffuso oroscopo o Calculus nativitatis per Filiberto Vernat, un distinto giovane fiammingo carcerato per errore a Napoli; i riscontri con la successiva vicenda biografica del personaggio rivelano nel C. doti inquietanti di preveggenza. Il 22 dicembre indirizzò a Paolo V un lungo memoriale, folto di suppliche e di promesse, rinnovandogli l’offerta del Quod reminiscentur, definitivamente compiuto sin dal maggio; alla missiva allegò una Lista delle proprie opere distinte in nove tomi, tracciando un primo schema per la vagheggiata edizione degli “opera omnia”. Non sono posteriori a quest’anno le tre Orationes de laudibus divi Thomae (perdute), che l’amico fra’ Serafino Rinaldi fece recitare pubblicamente a Napoli. Nel corso del 1618 conduce innanzi la Theologia almeno sino al libro XII, volge in latino la Monarchia Messiae del 1606 con l’annesso De iuribus Regis Catholici in Novum Orbem, carteggia ancora con lo Scioppio. Vedono la luce in Olanda in rapida successione, in versione fiamminga, tre edizioni del Discursus sui Paesi Bassi, suscitando vivaci reazioni e polemiche.
Il 31 maggio 1619 il Sant’Uffizio in Roma esamina una supplica di libertà del C. e risponde con un netto rifiuto. Probabilmente in quest’anno riceve la visita del sassone Johann Bluhme, amico dell’Adami, e gli affida, perché li rechi al fido editore tedesco, i rielaborati testi latini confluiti nella Philosophia realis, cioè la Physiologia, l’Ethica rifatta, la Politica largamente accresciuta e rimaneggiata in tredici capitoli con l’allegata Civitas Solis e infine l’Oeconomica;non gli consegna invece le Quaestiones, attorno alle quali ha ripreso a lavorare. Un altro amico dell’Adami, il teologo pietista Johann Valentin Andreä, pubblicando a Strasburgo una raccolta di “diletti spirituali” (Geistliche Kurzweil), viinclude una propria versione tedesca di sei sonetti del C. tratti dalla inedita Scelta; lo stesso Andreä dà in luce nella città renana una sua utopia pedagogica ed edificante, intitolata Reipublicae Christianopolitanae descriptio, palesemente ispirata dall’inedita Città del Sole. Il 20 novembre l’Adami dedica ai fratelli von Bünau la prima edizione del De sensu rerum, che vedrà la luce a Francoforte ai primi del 1620, qua e là mutilata per ragioni di opportunità delle frecciate antiluterane. Non prima del 1619 il C. intraprende, per uso dei discepoli che lo visitano nella prigione, la Mathematica, rimasta in tronco al primo libro, e la Grammatica, certo compiute entrambe non oltre il 1624; in data non lontana compone, sempre per uso didattico, un Compendium physiologiae tyronibus recitandum, tuttora inedito.
In sostituzione dell’Osuna, caduto in sospetto a Madrid, il 3 giugno 1620 giunse a Napoli il nuovo viceré card. Gaspare Borja y Velasco; ai primi di novembre il C. gli indirizzò una supplica perché gli venisse effettivamente corrisposta la misera somma stanziata per il suo vitto, ormai in arretrato da quattro mesi. Sperando in una congiuntura favorevole alla revisione del vecchio e dimenticato processo, compose allora a scopo autoapologetico, per uso legale, una Informazione sopra la lettura delli processi fatti l’anno 1599 in Calabria e una congiunta Narrazione della istoria sopra cui fu appoggiata la favola della ribellione. La pronta sostituzione del Borja col rigido Antonio Zapata Cisneros, giunto a Napoli il 12 dicembre, insabbiò quella pratica. È del 1620 la prima edizione della Monarchia di Spagna, impressa in Germania in località sconosciuta nella versione tedesca del celebre giurista Christoph Besold.
Alla morte di Paolo V (28 genn. 1621) fu chiamato a succedergli (9 febbraio) Alessandro Ludovisi col nome di Gregorio XV; subito si riaccesero nell’animo del C. le speranze di ottenere la libertà grazie al favore del nuovo pontefice. Le sue insistenze si fecero pressanti: anche se una dedica del 6 marzo al papa, apposta su un esemplare a penna del Quod reminiscentur, è probabilmente fittizia (e da posticipare di alcuni anni), il 31 di quel mese dettò varie commendatizie rivolte a distinti personaggi romani (Antonio Caetani, Federico Cesi, Giovanni Fabri) da affidare al discepolo Pietro Giacomo Failla, che si trasferiva nell’Urbe recando seco esemplari di molti scritti del C. con l’intento di procurarne la stampa previa concessione delle approvazioni ecclesiastiche; il 22 maggio, avendo il C. chiesto licenza, con un memoriale al papa, di dare in luce il Quod reminiscentur, quel volume manoscritto venne affidato per la revisione al card. Roberto Bellarmino, pur avendo la Congregazione dell’Indice fatto presente in pari data che era tuttora in pieno vigore la proibizione generale fulminata contro il C. nel 1603. In risposta ad un nuovo memoriale del C., postulante la revisione e l’imprimatur per tutte le proprie opere, il 30 giugno la Congregazione dell’Indice non solo rispose negativamente, ma chiese che gli fosse financo impedito di scrivere. Dopo aver dato parere favorevole sul Quod reminiscentur, il 28 agosto Bellarmino addita alla Congregazione dell’Indice vari luoghi censurabili rilevati negli scritti del C. e i porporati concludono esser più conveniente che il C. cessi di scrivere e delle cose sue si occupi, come per l’addietro, il Sant’Uffizio. L’immediata e battagliera autodifesa del C. Ad cardinalem Bellarminum contra censuram librorum meorum (perduta) non dovette giungere sotto gli occhi del censore, che si spense il 15 settembre. Intanto la Theologia era stata condotta innanzi almeno sino al libro XXI.
L’11 apr. 1622 scrisse, chiedendo protezione, al card. Alessandro d’Este. Compose allora un perduto Apologeticus in lode di un carme composto da Virginio Cesarini per le nozze di Niccolò Ludovisi, nipote del papa, con Isabella Gesualdo, carme impresso a Roma nel 1622.
Affida poi a Ludovico Cattani da Diacceto, conte di Châteauvillain, la quarta redazione ormai compiuta della Metaphysica in 16 libri, sperando che essa possa vedere la luce in Francia; l’opera viene così conosciuta almeno in parte a Parigi dal padre Candide Marin Mersenne ed è presentata, insieme ad un’epistola del C., ai dottori della Sorbona. Per mezzo del Cattani riesce pure a far pervenire ad Antoine Soubron, libraio di Lione, gli Astrologicorum libri, la Medicina e il riveduto De sensu rerum, tentando così di farli stampare oltr’Alpe, eludendo il divieto dell’Indice. Tobia Adami pubblica a Francoforte l’Apologia pro Galileo e, in località imprecisata, la Scelta d’alcune poesie filosofiche di Settimontano Squilla, che aduna ottantanove componimenti poetici del C. sotto un allusivo pseudonimo; la dedica dell’Adami all’Andreä, al Besold e a Wilhelm von Wenbe è datata da “Parigi, 1621”.
Giunge a Napoli (24 dicembre), in sostituzione di Zapata Cisneros, il nuovo viceré, Antonio Alvarez di Toledo duca d’Alba. In risposta a un ennesimo memoriale del C., il 1º febbr. 1623 la Congregazione del Sant’Uffizio gli negò l’autorizzazione a ricelebrare la messa. L’8 luglio morì papa Gregorio XV: appena appresa la notizia, il C. pone in carta una Pro conclavi admonitio ad electores summi pontificis de eligendo summo pontifice semper optimo, per raccomandare che nell’elezione del nuovo papa si ponesse mente solo al merito personale e al bene della Chiesa; subito invia il coraggioso scritto ai cardinali nipoti Scipione Borghese e Ludovico Ludovisi, capi delle due più potenti fazioni del conclave dal quale uscì eletto (6 agosto), col nome di Urbano VIII, un coetaneo del C., Maffeo Barberini; tosto il prigioniero appunterà su di lui, come al solito, rinascenti speranze di liberazione. Nel corso dell’anno la Theologia viene condotta innanzi sino al libro XXVII. Appare in Germania, sempre in tedesco, la seconda edizione della Monarchia di Spagna, cui il traduttore Besold allega di suo un’appendice, nella quale discute se sia desiderabile che il mondo intero venga governato da un solo monarca. Sin dai primi dell’anno l’Adami aveva pubblicato a Francoforte la Philosophia realis, dedicandola a Giovanni Ernesto il Giovane di Sassonia; nel corpo del volume vide così la luce per la prima volta la Città del Sole, in versione latina.
In concistoro, il 18 marzo 1624, Urbano VIII invita i cardinali a rispettare l’obbligo della residenza nelle rispettive sedi episcopali sancito dal concilio di Trento; per compiacere qualche porporato mal disposto ad allontanarsi da Roma, il C. detta un perduto De assistentia dominorum cardinalium in curia et de non residentia in episcopatibus, nisi ubi ociantur Romae, sostenendo che ai cardinali non spetta la cura d’anime, ma l’assistenza al papa. Il 4 aprile, in vista di una riforma degli appellativi onorifici, il C. invia a Virginio Cesarini l’ampio opuscolo epistolare De’ titoli;il 20 luglio annuncia a Cassiano Dal Pozzo il compimento del libro XXX e ultimo dell’immane Theologia; sta lavorando sul tema “de cometis” con una scrittura che entrerà a far parte delle Quaestiones physiologicae (q. 24); il 13 agosto supplica il card. Francesco Barberini di essere tradotto a Roma; scrive anche al padre Mersenne (20 settembre) circa la progettata edizione della Metaphysica da allestire in Francia e al card. Gabriele Trexo y Paniagua (15 dicembre), che ha saputo curioso dei propri scritti, chiedendo protezione. Nel corso dell’anno presenta al viceré, come prove di lealismo filoispanico, la Monarchia di Spagna e i Discorsi ai principi d’Italia, postulando invano licenza di darli alle stampe; compone il De conceptione beatae Virginis per sostenere che s. Tommaso non ha respinto, anzi caldeggiato la dottrina dell’Immacolata Concezione, e l’anno seguente lo dedicherà al card. Trexo; per compiacere l’amico Paolo Gualtieri, che si ripromette di aggiornare la rassegna di Costantino Lascaris dei calabresi illustri, riprende tra mano la Lista dei propri scritti compilata nel 1618 e la rielabora in latino, introducendo la ripartizione definitiva in dieci ingentissimi tomi.
Il 1º genn. 1625 il card. Trexo rispose al C. con una lettera benevola e colma di considerazione, ma inconcludente; subito dopo questi tornò a chiedere la revoca della sospensione a divinis e ricevette (1º febbraio) un secondo rifiuto; nel maggio, in una commovente supplica al viceré per ottenere il pagamento del vitto, lamentò di esser “costretto a morirsi di fame”. Il bisogno di libertà non era stato soffocato dalla snervante prigionia: nel giugno ottenne che i domenicani di Calabria con il loro provinciale fra’ Ambrogio Cordova indirizzassero al re di Spagna una petizione per la sua liberazione; il 20 agosto scrisse egli stesso al generale dell’Ordine, padre Niccolò Ridolfi, chiedendo di poter celebrare la messa e di riavere i libri liberati dalle censure, invocando protezione e libertà; inviò allora il Quod reminiscentur anche a Urbano VIII. Un passo decisivo in suo favore fu compiuto il 12 settembre, quando a Madrid il Consiglio d’Italia propose che il suo caso venisse devoluto al viceré, “perché faccia in questo ciò che gli parrà sia giustizia”; nei decenni trascorsi e in tanto mutare di uomini e di cose s’era persa financo la memoria del suo delitto e qualche amico compiacente aveva fatto sparire le carte dei vecchi processi. Per la terza volta il Sant’Uffizio romano negò ancora (8 ottobre) al C. la facoltà di celebrare la messa, com’egli postulava, e già il 2 genn. 1626 un nuovo memoriale dell’irriducibile recluso riproponeva alla Congregazione romana la stessa richiesta tetragona.
Solamente nel marzo 1626 giunse a Napoli la lettera regia che demandava al viceré ogni decisione in merito alla sorte del C.; questi scrisse allora (26 aprile) al compatriota e discepolo Giambattista Contestabile, perché sollecitasse in Napoli le formalità legali del suo rilascio; il 15 maggio il Consiglio collaterale del viceregno deliberò che il C. venisse liberato sotto cauzione, con l’obbligo di ripresentarsi ad ogni chiamata. Fu così che il 23 maggio, dopo quasi ventisette anni di continua e spesso durissima detenzione, il C. poté finalmente uscire dal Castel Nuovo e recarsi a prendere stanza in quel convento di S. Domenico che trentacinque anni prima era stato teatro della sua vivace ribellione giovanile. Rimase libero per un mese, visto che il Sant’Uffizio, non appena informato del rilascio, ordinò di tradurlo di nascosto a Roma. In esecuzione di quella deliberazione venne daccapo arrestato a Napoli (22 giugno) per ordine del nunzio e indotto a scrivere al papa, a scanso di conflitti giurisdizionali, con la richiesta d’essere tradotto a Roma. Travestito da prete secolare, incatenato, sotto il falso nome di don Giuseppe Pizzuto per eludere le difficoltà che il governo spagnolo avrebbe sollevato contro l’estradizione, il 5 luglio si imbarcò alla volta di Roma, dove giunse tre giorni dopo, venendo chiuso nel palazzo dell’Inquisizione per rendere conto al tribunale ecclesiastico di quei falli che la giustizia secolare gli aveva rimessi dopo sì lunga espiazione.
Il 16 luglio 1626 il Sant’Uffizio romano, riesaminata la causa del C. e presa visione delle censure dettate dal Bellarmino, ordina che egli venga detenuto nel palazzo dell’Inquisizione, in stretto isolamento, ma con ogni riguardo ed agio materiale. Autorizzato a scrivere, nell’agosto subito ne approfitta componendo un’apologia dell’autorità pontificia sopra i sovrani laici con le perdute Animadversiones ad libellum Parlamenti pro Rege Christianissimo in difesa del Tractatus de haeresi, schismate ac de potestate Romani pontificis dato in luce a Roma nel 1625 dal gesuita Antonio Santarelli e clamorosamente condannato dalla Sorbona per l’asserito diritto papale di deporre i sovrani eretici. I cardinali inquisitori, in considerazione dell’infermità da cui il C. è afflitto, lo autorizzano (27 agosto) a lasciare il carcere comune e a prendere stanza, sempre nel palazzo del Sant’Uffizio, in una cella della residenza del padre commissario o del suo socio, rimanendo però sotto chiave e con promessa di occuparla loco carceris. Poco dopo (15 settembre) il vescovo di Molfetta consegna all’Inquisizione copie manoscritte di tre opere del C.: il Quod reminiscentur, la Monarchia del Messia e l’Atheismus triumphatus.
Avendo appreso che Urbano VIII è travagliato dalla malferma salute e più dalle insistenti e diffuse predizioni di morte imminente, il C. fa sfoggio della sua dottrina astrologica, di cui sa che il papa fa gran conto, dettando l’opuscolo De fato siderali vitando inteso ad illustrare una serie di pratici accorgimenti che dovrebbero consentire di eludere il destino astrale; subito dopo mise in atto, in compagnia e a beneficio del papa, le pratiche propiziatorie così suggerite e se ne guadagnò la simpatia e il favore. Il 17 dicembre la Congregazione del Sant’Uffizio, dopo aver ascoltato una relazione severa del card. Desiderio Scaglia intorno agli errori in materia di fede rilevati nell’Atheismus, aprì un ennesimo processo contro il C. per investigare se egli aveva procurato la diffusione di quello e di altri libri e se il testo incriminato era stato presentato per iniziativa sua, oppure di estranei, il 22, introdotto alla presenza degli inquisitori, il C. supplicò di poter godere d’una detenzione meno rigorosa; i cardinali, pur rifiutando, raccomandarono ai custodi di usargli ogni riguardo. Nel secondo semestre del 1626 (o ai primi del ’27) compose in italiano i due Discorsi sulla libertà e felice suggezione allo Stato ecclesiastico;in Germania vide la luce la quinta edizione (seconda latina) del Discursus sui Paesi Bassi.
Il 7 genn. 1627 il Sant’Uffizio deliberò di procedere formalmente contro il C., esaminando punto per punto le dottrine censurate dal card. Scaglia nell’Atheismus; all’inquisito si ingiunse di consegnare anche le altre sue opere e di renderne conto; esemplari manoscritti delle stesse vennero ricercati anche presso lo Scioppio e nei conventi domenicani del Regno. Il 29 marzo, al cospetto degli inquisitori, il C. chiese che gli fosse resa giustizia, porse una supplica al papa, postulò licenza di poter celebrare la messa, chiese un servo per assisterlo e carcere meno rigoroso. Era un modo di passare al contrattacco. Ottenne solo che Filippo Borelli, figlio d’un suo antico carceriere napoletano presentato in quell’occasione come nipote, fosse autorizzato a convivere seco con ufficio di amanuense e famiglio. I cardinali sollecitarono allora l’elenco delle proposizioni censurate, che il padre Niccolò Riccardi, consultore del Sant’Uffizio, veniva intanto redigendo: il testo conclusivo si articolò in ottanta tesi vertenti principalmente sulla dottrina della predestinazione toccata nell’Atheismus e sul pansensismo sostenuto nel De sensu rerum;prontamente il C. replicò, dettando l’ampio trattato De praedestinatione (compiuto forse l’anno seguente) e la Defensio libri sui De sensu rerum. Riammesso alla presenza dei cardinali inquisitori (8 aprile) lamentò le proprie infermità e chiese di venir trasferito presso un convento del proprio Ordine, oppure in Castel Sant’Angelo, o almeno di essere abilitato a tenere l’intero palazzo del Sant’Uffizio “loco carceris”. Gli fu solo concesso di tener seco il Borelli, che gli prestasse assistenza. In quei giorni, per compiacere il padre Ippolito Lanci, commissario dell’Inquisizione, gli riespose in compendio, di malavoglia, l’opuscolo De’ titoli composto tre anni prima per il Cesarini.
Il 22 sett. 1627 gli venne assegnato un sussidio di 10 scudi mensili per il vitto e le altre sue necessità, a carico dell’Ordine domenicano. Di fronte alla Congregazione, il 21 dicembre perorò a lungo in difesa dell’Atheismus, chiese invano l’abilitazione a risiedere in convento, o almeno nell’intero palazzo del Sant’Uffizio, e consegnò un nuovo memoriale per il papa. Si dispose allora che egli venisse interrogato punto per punto sui luoghi censurati, ma si ha l’impressione che il rigore inquisitorio fosse sul punto di addolcirsi, e non tanto per il candore delle sue opinioni e la bravura nel difenderle, quanto per il palesarsi sempre più aperto della simpatia e del favore del papa; per compiacerlo, toccandone le ben note ambizioni letterarie, e per accattivarselo definitivamente, il C. aveva allora intrapreso da qualche tempo la stesura di prolissi, eruditi e frigidi Commentaria sulle poesie latine giovanili del Barberini, analizzandone ogni aspetto metrico e grammaticale, didascalico e filosofico.
Lamentando la propria infermità, il 3 febbr. 1628 il C. chiede ancora una volta di essere esentato dalla reclusione in cella, e finalmente il papa non rifiuta, ma pone solo come condizione l’esaurimentodell’inchiesta sull’Atheismus;il non luogo a procedere riguardo a tale scritto venne pronunciato il 23 marzo. Il 17 aprile, di fronte agli inquisitori, il C. si proclama disposto a dare ogni soddisfazione, se si vorrà ascoltarlo in merito ai suoi libri; ricorda come al tempo dei processi napoletani non fosse sano di mente; chiede venia per la pratiche superstiziose poste in atto nel 1603 e rivelate incautamente proprio nell’Atheismus; insiste per l’abilitazione a muoversi per l’intero palazzo ed a riaccostarsi ai sacramenti; invoca clemenza dopo tanti anni di patimento. Dieci giorni più tardi ottiene finalmente di poter tenere il palazzo loco carceris e il padre commissario Lanci si avvale della sua dottrina per fargli esaminare libri di teologia sottoposti a censura. Nel maggio presenta al papa parte dei commenti alle sue poesie e detta una confutazione astrologica delle voci di nuovo divulgate circa la sua morte imminente; persino il maestro del Sacro Palazzo padre Niccolò Ridolfi si fa trarre da lui l’oroscopo. Finalmente autorizzato a ricelebrare la messa (25 maggio), scrisse al papa (10 giugno) una calorosa difesa della propria dottrina astronomica; in quei giorni ricevette la visita di Jacques Gaffarel, prete provenzale e dotto orientalista, già suo estimatore e più tardi editore ed amico devoto, che descriverà quel colloquio nelle sue Curiositez inouyes (Paris 1629). Alle soglie della sessantina e dopo quasi trentacinque anni di carcere, era giunto finalmente ad assaporare il momento della libertà.
Il 27 luglio 1628 fu infatti autorizzato a lasciare il palazzo del Sant’Uffizio e a prendere stanza, sempre loco carceris, nel convento della Minerva. Per ordine di Urbano VIII, l’Inquisizione gli restituisce (10 agosto) tutti i suoi libri, perché li riveda e corregga per sottoporli poi all’esame del maestro del Sacro Palazzo; fra questi è anche l’Atheismus con le allegate censure, in guisa da consentirgli di emendare e rifare quanto occorre; si dispone altresì che il vicario dell’Ordine lo provveda largamente del necessario e gli mantenga un giovane scrivano. Anche la clausura si attenua: il 14 settembre è autorizzato per una volta tanto a visitare, accompagnato, le sette chiese; il 7 novembre i teologi dell’Ordine concedono l’approvazione per la Philosophia rationalis; il 22 scrive trionfante al papa di aver ultimato i Commentaria alle sue poesie. In quello stesso novembre detta gli Avvertimenti al re di Francia, al re di Spagna e al sommo pontefice circa alli passati e presenti mali d’Italia, vagheggiando un riassetto territoriale della penisola che assegni la Lombardia ai Francesi e il Regno di Napoli al papa; stende anche una Oratio pro Rupella recepta, che fu recitata in Roma in S. Luigi dei Francesi “da un padre francese marchese” non identificato, per esaltare nell’espugnazione di La Rochelle (28 ottobre) una grande vittoria cattolica sui riformati; abbandona così il suo antico e, almeno in parte, opportunistico filoispanismo, per volgersi tutto dalla parte di Francia.
Sono probabilmente da assegnare a quest’anno due perduti opuscoli: il De canonisatione sanctorum, dedicato al card. vicario Gian Garzia Millini, e il De praecedentia, praesertim religiosorum, forse suggerito dai puntigli sorti fra il generale dei domenicani e il commendatore di S. Spirito in Saxia. Ancora nel 1628 un anonimo polemista luterano pubblicò in Germania, forse a Stoccarda, una versione tedesca dei due primi Discorsi ai principi d’Italia, con un commento ostilissimo al C., alla Spagna e al Papato.
Il padre Riccardi, quale delegato del maestro del Sacro Palazzo, approva (10 genn. 1629) la Monarchia Messiae;il giorno successivo, definitivamente prosciolto dal Sant’Uffizio, il C. viene rilasciato ai superiori del suo Ordine e consegue finalmente, anche in termini formali, la sospirata libertà; la sua provvisione mensile viene elevata a 15 scudi. Libero, lungi dal mettersi cheto, non si dà pace: vuole agire per il bene della Chiesa, stampare i suoi libri, dar suggerimenti politici, disputare in materie teologiche, fondare un collegio di missionari calabresi. Una fuggevole fortuna benigna lo accompagna: nel marzo tre teologi romani approvano ventidue tesi essenziali estratte dal De praedestinatione; il 6 aprile il suo nome viene cassato dall’Indice dei libri proibiti e quel giorno stesso, ultimata la revisione del Quod reminiscentur, appone a quel laborioso trattato la definitiva dedica a Urbano VIII; il 2, giugno il capitolo generale domenicano celebrato in Roma gli conferisce l’ambito titolo di “maestro” di teologia. Grazie al papa e all’astrologia entra in rapporto con il card. Girolamo Colonna e con suo padre Filippo, gran connestabile del Regno, al quale dedica un perduto opuscolo d’arte militare dal titolo Quibus quotve modis pauci contra plures pugnare ac vincere possint;in luglio ottiene anche l’approvazione ecclesiastica per gli smisurati Commentaria alle poesie di Urbano VIII.
Ma una così rapida ascesa, che sembra aprirgli la via alle cariche e agli onori (taluno vocifera addirittura al cardinalato), gli suscita attorno ostilità, invidie e sospetti, che a poco a poco lo irretiscono e scalzano, facendo leva anche sui suoi impeti generosi e sulla sua inettitudine all’intrigo; negli alti prelati dell’Ordine, punti da gelosia, trova i suoi più insidiosi e tenaci avversari.
Quando i librai Prost di Lione, ultimata nel settembre la stampa dei sei libri Astrologicorum, già ne avevano diffuso alcune copie, ricevettero un esemplare a penna del De fato siderali vitando, subdolamente spedito dall’Italia da frati ostili al C., che dalla diffusione di un opuscolo palesemente superstizioso si aspettavano la rovina dell’emulo. Pubblicata con quell’aggiunta a mo’ di libro VII, l’Astrologia giunse a Roma e provocò la collera del papa; per giustificarsi il C. dettò rapidamente un Apologeticus ad libellum De siderali fato vitando e si cautelò facendolo approvare dai censori ecclesiastici Giambattista Marini e Francesco Tontoli. Al fine di soffocare lo scandalo dichiarò poi (15 novembre) apocrifa l’Astrologia, che, così reietta, venne condannata all’Indice, proprio mentre il C. riprendeva a smentire le funeste previsioni degli astrologi sul decesso imminente del papa. Perdurando il rumore, il 10 dicembre in un memoriale al pontefice dichiarò di non voler riconoscere per proprie tutte le opere stampate senza il suo consenso e non sottoposte alle prescritte revisioni ecclesiastiche: dovette ripudiare così, sotto l’urgere di una dura necessità, pagine che gli erano carissime, solo perché impresse da torchi tedeschi o fiamminghi.
L’anno 1630 vide il C. impegnato nelle snervanti pratiche per la pubblicazione delle sue opere, che si fecero via via più difficili con l’intiepidirsi del favore papale: il 14 febbraio scrisse al card. Francesco Barberini caldeggiando il progettato collegio destinato a formare giovani domenicani calabresi da inviare alle missioni; scrisse anche (24 marzo), tutto accorato, al papa, difendendosi dalle calunnie e dagli intrighi dei suoi nemici; nell’estate si rivolgerà anche all’imperatore Ferdinando II, ricordandogli la propria devozione e annunciando imminente la pubblicazione di varie opere. Le approvazioni continuavano infatti ad affluire senza remore apparenti: il 13 maggio fu rilasciata quella del maestro del Sacro Palazzo per il Quodreminiscentur; il 30 quella dell’Inquisizione per l’Atheismus, ribadita subito dopo dall’Ordine. Dettata sin dal 2 giugno la Praefatio, affidò il volume a Bartolomeo Zannetti, che lo impresse quale primizia degli “opera omnia”, dei quali si annunciava come la “sexti tomi pars prima”; ma al cadere dell’anno, quando il libro era pronto per la diffusione, un consultore del Sant’Uffizio si levò a bersagliarlo con nuove e cavillose censure, bloccando così la concessione del “publicetur”. Tra il giugno e l’agosto anche la Monarchia Messiae venne corredata di tutte le approvazioni necessarie.
Nel corso dell’anno il C. detta un discorso (perduto) contro le fallacie dell’astrologia giudiziaria; stende in latino col titolo De regno Dei l’esposizione conclusiva dei propri concetti sulla teocrazia universale; infine (novembre), per vendicarsi delle continue persecuzioni ordite dal padre Niccolò Riccardi detto il “padre Mostro”, maestro del Sacro Palazzo, compila le acri Censure sopra il libro del padre Mostro, sottolineando le enunciazioni eretiche o superstiziose contenute in un goffo libraccio divozionale di quel suo maligno confratello: i Ragionamenti sopra le litanie di Nostra Signora (Genova 1626).
Si pubblica intanto in Germania la sesta edizione (prima in tedesco) del Discursus sui Paesi Bassi, mentre l’Astrologia viene ristampata a Francoforte; in conseguenza i Prost di Lione modificano i frontespizi dei loro esemplari invenduti, un gruppo dei quali viene smerciato con la data aggiornata del 1630, un altro viene privato del nome degli stampatori e presentato come impresso a Francoforte per concorrere con l’autentica e più corretta edizione tedesca.
Nei primi due mesi del 1631 il C. detta pazientemente le efficaci Risposte alle censure dell’Ateismo triunfato e, piegandosi a sostituire e ristampare emendate trentadue pagine del volume, ottiene finalmente il “Publicetur”, mentre il maestro del Sacro Palazzo seguita a concedere le approvazioni della Defensio libri sui De sensu rerum (9 febbraio), del De gentilismo non retinendo (20 febbraio) e dello stesso De sensu (5 maggio).
Nonostante questi apparenti successi, non dovettero essere mesi facili per il C.; scrivendo a Galileo (26 aprile) si duole di essere da lui trascurato e non gli nasconde che lascerebbe volentieri Roma per un asilo in Toscana. In agosto gli avversari gettano la maschera: dopo appena sei mesi di smercio dell’Atheismus, col pretesto di un temerario pronostico astrologico della Chiesa che v’è formulato, il padre Riccardi ordina il sequestro dell’opera; invano il C. protesta, dichiarandosi pronto a emendare il brano incriminato. Indignato, subito detta contro la tardiva censura la Disputatio contra murmurantes in bullas sanctorum pontificum adversus iudiciarios editas, mostrando di voler prendere le difese delle bolle di Sisto V e di Urbano VIII contro gli astrologi, ma difendendo in realtà la liceità dell’astrologia non superstiziosa; per cercare di farla giungere al papa, la Disputatio viene consegnata al card. Agostino Oreggi, segno che al C. l’udienza diretta era ormai negata; in ogni caso la revoca del sequestro dell’Atheismus non fu concessa. Col dileguarsi dell’effimero favore di Urbano VIII la persecuzione degli emuli era destinata a farsi sempre più serrata e insidiosa; è forse contro di essi che compose, non più tardi di quest’anno 1631, un perduto De aulicorum technis sulle male arti dei cortigiani.
Il 22 settembre, ospite a Frascati in villa presso i padri scolopi, dove tiene un corso a dieci scolari, il C. termina la breve Expositio sul cap. IX dell’epistola paolina ai Romani, composta per illustrare la propria dottrina della predestinazione a richiesta del conte Jean de Brassac, ambasciatore di Francia a Roma. Il 29 scrive al papa, denunciando le mene dei suoi nemici e inviandogli il commento all’elegia proemiale della raccolta di versi latini del Barberini, ponendo così termine ai vasti e inconcludenti Commentaria, che resteranno inediti e andranno inparte perduti; sempre a Frascati, per compiacere il Calasanzio, compone, nell’ottobre, l’Apologia pro scholis piis; ilsanto scrive ai suoi di trattarlo con ogni riguardo. Il 16 dicembre l’agro napoletano è funestato da una violenta eruzione del Vesuvio: il C. studia il fenomeno nel De conflagratione Vesuvii, che reciterà a Roma, ai primi del gennaio seguente, nell’Accademia Capranica; l’originale, affidato al medico ed erudito francese Gabriel Naudé, non verrà più ricuperato. Lo stesso Naudé completa un suo prolisso e retorico panegirico di Urbano VIII per i benefici da lui concessi al C.; lo scritto cortigianesco, presto divenuto inattuale, vedrà poi la luce a Parigi, ma solo dopo la morte del papa, nel 1644.
Il 21 apr. 1632 il padre F. Maddaleni Capoferri comunica alla Congregazione dell’Indice, di cui è segretario, che il C. ha mosso istanza per ottenere che nel nuovo Indice in corso di allestimento siano condannate le opere sue non approvate espressamente o non stampate in Roma, poiché egli le considera adulterate e spurie. Si tratta di una mossa intesa a prevenire nuove censure dei persecutori, volte a colpire le vecchie stampe tedesche (che erano state effettivamente manipolate in qualche misura dall’Adami) e, che metteva fuori causa anche la giovanile Philosophia sensibus demonstrata, munita di approvazione ecclesiastica, ma impressa a Napoli; comunque nell’Elenchus librorum omnium prohibitorum venuto in luce quell’anno il nome del C. non figura. Il 29 aprile scrisse a don Filippo Colonna con accenti di scoraggiata amarezza per il perduto favore papale, insistendo per ottenere il proscioglimento dell’Atheismus; avviò pure (7 maggio) un carteggio amichevole con Pierre Gassendi e fra il maggio e l’ottobre si tenne in stretto contatto con Galileo, al quale si offerse con temeraria generosità quale difensore nell’addensarsi sempre più minaccioso delle nubi del processo inquisitorio a carico del vecchio scienziato. Nei primi mesi dell’anno dettò al Naudè, che s’era guadagnato la sua intera fiducia, l’autobiografica Vita Campanellae (perduta) e un Syntagma de libris propriis et recta ratione studendi, che quell’infido amanuense rifiuterà poi di restituire e di pubblicare, decidendosi a darlo in luce a Parigi, manipolato e postumo, soltanto nel 1642. Compose anche allora, in appoggio alla politica francese, il Dialogo politico tra un Veneziano, Spagnuolo e Francese circa li rumori passati di Francia, difendendo l’operato di Luigi XIII e del Richelieu in occasione del conflitto scoppiato tra il re, la madre Maria de’ Medici e il fratello Gastone d’Orléans; la data apposta alla scrittura in vari codici (15 novembre) è forse fittizia; più tardi, per tema di censure e vendette spagnole, il C. fu costretto a negare di esserne l’autore. Ai primi d’ottobre torna in villeggiatura presso gli scolopi a Frascati, dove incontra Giuseppe Calasanzio. Il pittore stilese Francesco Cozza ritrae con vigorosi tocchi le sembianze del C. in una tela oggi conservata presso i Caetani di Sermoneta. Si pubblica in Germania la settima edizione (seconda in tedesco) del Discursus sui Paesi Bassi. Al cadere dell’anno parte da Roma alla volta di Venezia Jacques Gaffarel, recando seco il De gentilismo e la Medicina, nonché una copia aggiornata dell’Index delle proprie opere, che il C. aveva allestito nel 1624 per conto del Gualtieri.
Nell’aprile 1633, replicando a due versi oltraggiosi diffusi a Roma in quei giorni, compone il Disticon pro rege Gallorum in lode di Luigi XIII per il suo fermo ma giusto contegno verso la madre e il fratello ribelli. Da Venezia il Gaffarel dedica (6 maggio) all’amico comune Jean Bourdelot l’Index delle opere del C. stampato dai torchi di Andrea Baba; subito il C. lo prega di non pubblicare altre cose sue per timore dei divieti romani; un indice analogo, che tien conto delle notizie depositate nel Syntagma dettato l’anno avanti al Naudè, vede la luce in Roma nel corpo della bibliografia romana dal 1630 al 1632, che Leone Allacci intitolò Apes Urbanae in onore del papa e dello stemma dei Barberini. Il 15 agosto il domenicano Alberto Boni dedica al card. Giambattista Pallotta la Monarchia Messiae del C. stampata in Iesi da Gregorio Arnazzini e accresciuta in appendice dei due Discorsi del 1626 sul buon governo degli Stati della Chiesa. Lo stesso giorno viene imprigionato a Napoli fra’ Tommaso Pignatelli, già discepolo del C., che, fantasticando di liberare il Regno dal giogo spagnolo, aveva ordito un’ingenua congiura intesa ad avvelenare il viceré e i più potenti signori per chiamare il popolo a libertà; subito a Napoli si sospetta che il C. sia istigatore o mandante: un suo nipote è carcerato in Calabria e suo fratello Giovan Pietro si salva con la fuga, riparando a Roma. In quest’anno il C. compone probabilmente un perduto trattatello per uso dei missionari sul tema In quibus possunt communicare et in quibus non cum schismaticis et infidelibus.
La pubblicazione della Monarchia Messiae destò scalpore in Roma: il 12 genn. 1634 il Sant’Uffizio, ordinò all’inquisitore di Iesi di mandar copia del libro per sottoporlo all’esame del maestro del Sacro Palazzo; poco dopo, avendo il Riccardi subdolamente osservato che quel testo avrebbe potuto offendere i principi secolari con le sue rigide tesi teocratiche, il volume venne sequestrato e in gran parte distrutto. Il 23 marzo il C. inviò al card. Antonio Barberini un opuscolo non identificato in difesa dell’Ordine domenicano; da Venezia il Gaffarel dedicò la Medicina (23 settembre) al duca di Parma Odoardo Farnese, sul punto di recarla a Lione per la stampa; di là sottoscriverà (29 ottobre) l’indirizzo al lettore. Intanto a Napoli la situazione del Pignatelli precipita: condannato a morte (18 settembre), il giovane frate viene strangolato nel carcere (6 ottobre), dopo che una feroce tortura gli ebbe strappato un’ammissione di complicità del C., che ritrattò poi fermamente in punto di morte. Tanto bastò perché gli Spagnoli levassero sempre più alte voci contro il C., affermandone la colpevolezza e chiedendone il castigo. Trovandosi allora, secondo il solito, in villeggiatura a Frascati presso gli scolopi, egli apprese che da Napoli s’era sul punto di richiedere la sua estradizione e corse a Roma, donde scrisse (11 ottobre) in grande affanno al Colonna, supplicandolo di intercedere in suo favore presso il papa; nel frattempo cercò rifugio a palazzo Farnese, sotto la protezione dell’ambasciatore francese François de Noailles. Fu probabilmente lo stesso Urbano VIII, forse ansioso di evitare una disputa giurisdizionale incresciosa, forse memore dell’antica benevolenza, a suggerirgli l’espatrio: il C. si indusse così ad affrontare i rischi e i disagi della sua ultima fuga, verso quella Francia nella quale godeva ormai di largo credito e dove lo attendevano estimatori ed amici.
Travestito da frate dei minimi di S. Francesco da Paola, sotto il falso nome di fra’ Lucio Berardi, il 21 ottobre il C. lascia Roma di nottetempo nella carrozza del Noailles, che lo conduce fino a Livorno, donde si imbarca alla volta di Marsiglia. Vi approda il 28 e di là, il giorno seguente, scrive al dotto amico Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, narrandogli le peripezie della fuga. Il 1º novembre giunge ad Aix-en-Provence, residenza del Peiresc, che lo ospita signorilmente in compagnia del Gassendi, venuto da Digne per incontrarlo: insieme essi svolgono filosofici conversari e osservazioni astronomiche sul pianeta Mercurio; da Aix (2 novembre) scrive al papa, denunciando con durezza le persecuzioni patite in Curia. Ripreso il viaggio, giunge a Lione (15 novembre) e trova con compiacimento i primi quattro libri della Medicina già finiti di stampare nell’officina del Pillehotte, al quale erano stati affidati dal Gaffarel; non ha notizia invece della Metaphysica, di cui aveva ottenuto copia qualche tempo prima il libraio romano Andrea Brogiotti, dietro promessa di farla stampare appunto a Lione. A Parigi arriva il 1º dicembre e di là il 4 scrive al card. Francesco Barberini, lamentando i continui torti che aveva dovuto subire in Roma; l’11 scrive al Peiresc, narrandogli le occorrenze del recente viaggio e l’ambiente di calorosa simpatia (spesso era estrinseca curiosità) che ha trovato a Parigi, dove ha preso stanza nel convento dell’Annunziata dei domenicani riformati nel “faubourg” St. Honoré. Due giorni dopo viene ricevuto onorevolmente a Ruel dal Richelieu.
Malgrado le manovre sotterranee dei nunzi, che, ispirati da Roma, cercano di gettare il discredito su di lui e sulle sue opere, le accoglienze tributategli dalle autorità e dai dotti sono lusinghiere. Prossimo ormai alla settantina, finalmente libero e sicuro, potrebbe godersi in pace i suoi ultimi anni: ma non sa stare inoperoso e quieto. Si adopera con il consueto entusiasmo per la conversione dei protestanti, per dar lumi alla condotta politica francese sullo scacchiere europeo e su quello italiano in particolare, per condurre innanzi la faticata stampa delle proprie opere. E intanto l’invidia dei malevoli non gli dà requie, insinua il discredito negli ambienti colti parigini, lo priva della piccola pensione ecclesiastica che gli consentiva di sostentarsi.
Dall’esilio l’indomabile perseguitato continua a riproporre le proprie difese, a lamentare la miseria in cui lo si abbandona, a lottare per i propri ideali politici e religiosi. Il 9 febbr. 1635 ottiene udienza da Luigi XIII, che lo accoglie con espressioni di cordiale benevolenza e gli assegna una pensione, che verrà poi pagata in modo discontinuo e con crescente ritardo. La Medicina, ottenuto il privilegio reale (26 febbraio), vede la luce poco dopo a Lione; il 15 marzo dedica ai fratelli François e Charles de Noailles la Philosophia rationalis, di cui sta preparando la stampa quale tomo I degli “opera omnia”. In aprile, alla vigilia dell’entrata in guerra della Francia contro i domini asburgici, presenta al Richelieu gli Aforismi politici per le presenti necessità di Francia e il 23 ne invia copia a Urbano VIII; poco dopo li rifonde in latino nelle Consultationes aphoristicae gerendae rei praesentis temporis per conseguire la disfatta degli Austro-ispanici.
In quel torno di tempo rielabora radicalmente la dottrina della predestinazione in un nuovo libro VI della Theologia, che assume così forma definitiva. Ricevuto onorevolmente alla Sorbona (2 maggio), ottiene di designare lui stesso i dottori incaricati di prendere in esame varie sue opere al fine di far approvare quelle non ancora munite dell'”imprimatur” romano; il 21 luglio già ottiene l’approvazione per il De gentilismo e il De praedestinatione. Il 7luglio aveva dettato un opuscolo epistolare a Jean-Baptiste Poisson, residente ad Angers, rispondendo ad un suo quesito sulla grandezza del punto matematico. Ottenuto il privilegio reale (26 agosto) il tipografo Toussaint Dubray intraprende la stampa della Philosophia rationalis. Dopo esser riuscito faticosamente nell’aprile a ricuperare da Roma il manoscritto della Metaphysica, il C. la rielabora un’ultima volta (quinta redazione in diciotto libri) e ottiene (15 ottobre-8 novembre) l’approvazione della Sorbona. Ottenuto il privilegio reale (22 novembre) per l’Atheismus triumphatus, il De praedestinatione e i minori scritti annessi, vede la raccolta approvata anche (8 dicembre) dal padre Julien Joubert, vicario della Congregazione gallicana dei domenicani, e l’11 la Sorbona approva la sola Disputatio in bullas del 1631: in tal guisa può affidare, sempre al Dubray, la stampa di buona parte del tomo VI degli “opera omnia”.
Continua intanto a scrivere suppliche, lamentele, proteste ripetute al papa e al card. Barberini, carteggia con amici francesi e romani, spiega vivace attività per convertire al cattolicesimo distinti personaggi ugonotti. La politica francese resta al centro dei suoi pensieri: dopo aver dettato, non oltre il maggio, la Comparsa regia (una sorta di appello legale del re di Francia al papa per ottenere il trasferimento della dignità imperiale dalla dinastia austriaca a quella francese), fra luglio e ottobre la include in un ampio trattato in volgare, nel quale discute, concludendo a tutto vantaggio della Francia, “se la monarchia spagnuola sia in crescimento, in stato o in mancamento”; sempre a sostegno della causa francese aveva anche composto sin dal maggio i Documenta ad Gallorum nationem, rievocando la grande ombra di Carlo Magno ad incitare i Francesi a coraggiosi propositi di grandezza.
Il 24 genn. 1636 la Sorbona approva il De sensu rerum, tosto munito (20 aprile) del privilegio reale; in febbraio vede la luce a Parigi, impresso dal Dubray e dedicato a Luigi XIII, il nutrito volume comprendente l’Atheismus, la Disputatio in bullas, il De gentilismo, il De praedestinatione e l’Expositio super IX Rom., che il 24 venne spedito al Peiresc; due giorni dopo il nunzio a Parigi informerà il Sant’Uffizio di non aver potuto impedire, come gli era stato ordinato, la stampa del volume, di cui preannuncia l’invio di un esemplare; non appena questo giunse a Roma, Urbano VIII ordinò (10 aprile) di sottoporlo a revisione.
Col proposito di impedire o ritardare la pubblicazione di altri scritti del C. gli emuli romani provocano intralci insidiosi: su istigazione del padre Riccardi la Sorbona invalida (2 maggio) le approvazioni concesse alle opere del C. e sancisce che in avvenire i censori non possano appartenere allo stesso Ordine dell’autore; nonostante ciò, il 1º giugno la Congregazione gallicana dei domenicani rilasciò l'”imprimatur” per la Metaphysica e in quegli stessi giorni vide la luce a Parigi, dai torchi di Louis Boullenger, la seconda edizione riveduta del De sensu rerum, preceduta da una dedica al Richelieu (che compensò l’omaggio con un regalo di cento doppie) e accompagnata dall’inedita Defensio redatta nel 1627; nell’anno seguente, mutato solo il frontespizio, il volume verrà smerciato anche dai librai Denis Béchet e Jean Dubray.
Per le difficoltà create dallo stato di guerra e dal disastroso andamento delle operazioni militari il C. non riceve più le rate della sua pensione e vive in gravi ristrettezze, che gli strappano lamentele continue. Piena di fervore rimane tuttavia la sua operosità di consigliere politico e di polemico difensore delle posizioni francesi nel conflitto europeo: nel maggio, confutando un intransigente libellista anonimo, detta un perduto parere al re, consigliandogli clemenza verso il fratello ribelle e devozione al papa (del tutto dà conto a Urbano VIII con lettera del 3 giugno); l’8 giugno recita a Conflans un perduto sermone sull’autorità del pontefice nel trasferire la dignità imperiale; tra primavera ed estate compone tre Discorsi a’ principi per cementare l’unione della Francia col Papato in funzione antiasburgica, un manipolo di Avvertimenti a Venezia che additano le insidie politiche di un’alleanza tra la Repubblica aristocratica e i Protestanti inclini al radicalismo democratico, una serie di Orazioni politiche ai principati italiani per esortarli ad una coalizione antispagnuola e ad un riassetto territoriale della penisola; ai primi di settembre redige un opuscolo sulla situazione politico-militare della Francia nel confuso teatro bellico europeo, che intitola A quibus desiderari pax debet secundum politicam, ed è forse identificabile con un vibrante memoriale superstite a Luigi XIII; compone infine una Disputatio (perduta) sulle cause che negano assurdamente alla Francia prospera e potente di dominare la tanto più debole Spagna. Ma anche tutti gli altri suoi molteplici interessi restano ben vivi, come appare dal carteggio col Peiresc, cui rammenta (19 giugno) le dispute padovane giovanili intorno alla filosofia democritea, o invia modelli di carta del sistema copernicano, o confida le sue amarezze per le strettoie della guerra, che paralizzano il lavoro delle tipografie. Ma un’amarezza ben più dolorosa lo attende: il 20 novembre il Sant’Uffizio, facendo propria una severa censura elaborata dai teologi domenicani della Minerva, fulmina la condanna del De praedestinatione. Invano il C. con lettere sempre più fitte, angosciate e supplichevoli protesta la propria innocenza e ortodossia presso il pontefice e i cardinali nipoti, svelando le trame dei nemici invidiosi e invocando la loro protezione.
Sempre animato dalla sua visione ecumenica dell'”unico ovile” e dell'”unico pastore”, il 10 genn. 1637 indirizza una eloquente epistola a Enrichetta Maria di Borbone, regina d’Inghilterra, sperando per suo tramite di ricondurre quel reame al cattolicesimo, ma non riesce a farla pervenire alla destinataria; manda anche (16 febbraio) al potentissimo Pierre Séguier, cancelliere di Francia, la protesta dettata due anni avanti contro la trasmissione ereditaria della dignità imperiale. Il 6 aprile scrive ancora una volta al papa, lamentando le persecuzioni patite e chiedendo la restituzione dei libri che tuttora gli sono trattenuti dai censori romani; più tardi invierà a Roma una relazione polemica sugli scritti di Théophile Brachet de La Milletière, assertore di un’irenica concordia fra cattolicesimo e protestantesimo, che giudica pericolosi per il loro indifferentismo dogmatico e l’impronta gallicana. Il 6 agosto dedica al Séguier la ristampa della monumentale Philosophia realis, tomo II degli “opera omnia”, impressa a Parigi da Denis Houssaye.
Tutte le sezioni dell’opera risultano variamente rielaborate e accresciute rispetto alla stampa francofortese del 1623: solo nei capi VI e VII dell’Ethica si riscontra la soppressione di larghi brani di argomento medico, svolti ormai nella più specifica sede della Medicina;a ciascuna delle quattro parti vengono allegate le vastissime Quaestiones inedite; recente è l’Appendix alla ventesima Quaestio physiologica, nella quale il C. smantella vigorosamente, ma con scarso rispetto delle convenienze cortigiane, il trattatello Du desbordement du Nil (Paris 1634) di Marin Cureau de La Chambre, influente e vanitoso medico del re. Il grosso in folio della Philosophia realis reca anche in calce il De regno Dei del 1630 e la Pro conclavi admonitio del 1623 e ristampa altresì a mo’ di preambolo e con pochi ritocchi il De gentilismo col più ambizioso titolo di Disputatio in prologum instauratarum scientiarum. Nel corso del 1637 Toussaint Dubray completa la stampa dei Logicorum libri, la seconda e più nutrita delle cinque sezioni della Philosophia rationalis.
Il 18 genn. 1638 il re concede a Filippo Borelli, amanuense e famiglio del C., un privilegio ventennale per la Metaphysica, ma poche settimane più tardi viene approvato anche un astioso e prolisso Anticampanella redatto in greco dal monaco bizantino Atanasio Retore per confutare il sensismo del C; ridotta in compendio latino, l’opera vedrà poi la luce nel 1655. Jean Dubray conclude (30 aprile) la stampa della Philosophia rationalis, che reca in fronte la vecchia dedica ai fratelli Noailles e in appendice la stesura definitiva dell’indice programmatico degli “opera omnia”; inviando il volume in omaggio a Ferdinando II de’ Medici (6 luglio), il C. rievocherà i suoi antichi rapporti con quella casa, l’amicizia con Galileo, e vergherà le parole profetiche: “il secolo futuro giudicarà noi, perch’il presente sempre crucifige i propri benefattori; ma poi resuscitano al terzo giorno o ‘l terzo secolo”. Tramite Pompone II de Bellièvre, ambasciatore di Francia a Londra, inoltra una seconda copia dell’epistola alla regina d’Inghilterra, ma il diplomatico la tratterrà fra le proprie carte senza consegnarla. Dal canto suo il padre Riccardi escogita una nuova vessazione, facendo intimare ai librai parigini divieto di smerciare le opere del C.; questi, indignato, scrive a Roma (3 agosto), denunciando il sopruso e chiedendo invano di poter mettere l’occhio sulle censure mosse al De praedestinatione, per confutarle. Viene in luce dall’officina di Denis Langlois l’ingente tomo in folio della Metaphysica, quarto volume degli “opera omnia”, preceduto da una dedica del 15 agosto a Claude Bullion de Bonolles, ministro delle Finanze; il nome del tipografo è taciuto per eludere le minacciate sanzioni. Il 5 sett. 1638, nel giorno in cui il C. compie il settantesimo anno, nasce alla Francia il sospirato erede al trono, atteso per cinque lustri: il futuro Luigi XIV; pochi giorni dopo, chiamato a palazzo ad esaminare l’infante e a trarne l’oroscopo, il C. pronuncerà sul piccolo Re Sole un lungimirante presagio. Compose poi, nel dicembre, l’Ecloga in portentosam Delphini nativitatem, ultimo e ispirato suo carme, volto a celebrare quella fausta nascita e a riaffermare la propria fede giovanile in una palingenesi universale destinata a recare l’unità delle nazioni e la pace fraterna a tutti gli uomini. Poco dopo, con una perduta Apologia, dovrà difendere quei versi dalle censure linguistiche di certi cortigiani malevoli e saccenti; nei primi giorni del ’39 l’Ecloga vedrà la luce a Parigi, in due diverse tirature, dalla stamperia del Dubray.
Provata dai lunghi patimenti e disagi, aggravata dalla pinguedine, dai malanni numerosi, dalle amarezze, la vita del C. volgeva al termine: il 1º febbr. 1639 scrisse ancora al card. Antonio Barberini, lamentando la propria misera situazione e l’ostile silenzio in cui cadevano a Roma le sue suppliche e proteste; il 4 marzo spedì al card. Francesco Barberini l’ultima sua lettera superstite, riaffermando, frammezzo alle lagnanze e difese consuete, l’alta consapevolezza della propria missione di apologeta radicale del cristianesimo, di rinnovatore scientifico e sociale e di nunzio del secolo nuovo. Nel maggio le configurazioni astrali, sempre osservate con vigilanza assidua, gli preannunciarono pericolo grave, in dipendenza dell’eclisse prevista per il 1º giugno; caduto ammalato, invano il C. tentò di scongiurare con riti propiziatori, alla cui efficacia aveva sempre prestato credito, il malefico influsso che lo minacciava. Spirò santamente, alle 4 del mattino del 21 maggio, fra le preghiere dei confratelli del convento domenicano, e venne sepolto nell’attigua chiesa dell’Annunziata; la Rivoluzione, abbattendo nel 1795 (per sostituirlo con un mercato) l’edificio che aveva dato asilo e come alle riunioni dei giacobini, ha cancellato ogni traccia del suo sepolcro.