Giacomo Leopardi – Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica – II


Giacomo Leopardi.
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
Capitolo II.

Note
Diritti d’Autore: no
Edizione di riferimento
Giacomo Leopardi, Poesie e prose, vol. secondo, a cura di Rolando Damiani, Arnoldo Mondadori editore, collana I Meridiani, Milano 1988.

Leopardi. Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica

II.

Molti e gravissimi, o Lettori, sono i mali che ha recati all’immaginativa il grande accrescimento della signoria dell’intelletto, dalla podestà dei quali la libera il poeta come e per quel tempo che può. Ma il pregiudizio non tocca il diletto solo, come porta la credenza comune: altre cose più sostanziali, benchè questa è sostanzialissima, sono a parte del danno; e di ciò non è dubbio che non s’avveda e non s’attristi qualunque non dico poeta nè oratore, ma filosofo veramente acuto e sublime, e diverso dai più de’ filosofi ch’oggi stanno in lode e in riverenza.

Qui potrei dire che la ragione in pressoch’infinite cose è nemica formale della natura; che la ragione è nemica nelle cose umane di quasi ogni grandezza; che spessissimo dove la natura è grande, la ragione è piccola; che per lo più il grande nella stima degli uomini non è altra cosa che lo straordinario, ma lo straordinario è contro o fuori dell’ordine di cui la ragione è amica perpetua; che frequentissimamente vere ed eccessive piccolezze, perchè sono straordinarie, si chiamano grandezze; che Alessandro e cento altri tali sono, secondo la natura e la fama, grandi, secondo la ragione, pazzi, e la pazzia, secondo la ragione, è sempre piccolezza; che appena può succedere che altri sia grande e faccia cose grandi, s’ei non è signoreggiato dalle illusioni, e che sia stimato grande, se le illusioni non hanno forza in altrui; che quanto crescerà l’imperio della ragione, tanto, snervate e diradate le illusioni, mancherà la grandezza degli uomini e dei pensieri e dei fatti; che il poeta sopra qualunque altro ha bisogno d’illusioni potentissime, e dev’essere in mille cose straordinario e in alcune quasi pazzo, ma questo è un tempo di ragione e di luce che si burla degl’inganni, e quando anche non volesse, a ogni modo li conoscerebbe, e conoscendoli gli sprezzerebbe; nè concede facilmente altrui d’essere straordinario, ma per lo più con quel nome formidabile c’ha imparato dalla ragione chiama la stranezza furore o stoltizia: profonda miseria d’ogni arte bella e infinita calamità della poesia. Ma questo è un soggetto oltremodo vasto, e i fondamenti di quello che ho detto circa all’inimicizia della ragione e della natura, stanno nell’intima considerazione del composto universale delle cose: però non mi ci fermo, non volendo a tanta moltitudine di materie essenziali e necessarie del mio discorso, aggiungerne delle superflue, quantunque confacevoli e strettissimamente affini al soggetto. Taccio dunque tutto questo, non lodo i secoli antichi, non affermo che quella vita e quei pensieri e quegli uomini fossero migliori dei presenti, so che questi discorsi oggi s’hanno per vecchi e passati d’usanza, lascio ch’altri giudichi a sua voglia delle cose ch’io potrei dire; sieno sogni di fantasie disprezzatrici del presente e vaghe del lontano. Solamente dico che quella era natura e questa non è; che l’ufficio del poeta è imitar la natura, la quale non si cambia nè incivilisce; che quando la natura combatte colla ragione, è forza che il poeta o lasci la ragione, o insieme colla natura, l’ufficio e il nome di poeta; che questi può ingannare, e per tanto deve coll’arte sua quasi trasportarci in quei primi tempi, e quella natura che ci è sparita dagli occhi, ricondurcela avanti, o più tosto svelarcela ancora presente e bella come in principio, e farcela vedere e sentire, e cagionarci quei diletti soprumani di cui pressochè tutto, salvo il desiderio, abbiamo perduto, onde sia presentemente l’ufficio suo, non solamente imitar la natura, ma anche manifestarla, non solamente dilettarci la fantasia, ma liberarcela dalle angustie, non solamente somministrare, ma sostituire; dico che chiamare la poesia dal primitivo al moderno, è lo stesso che sviarla dall’ufficio suo, volerla spogliare di quel sovrano diletto ch’è suo proprio, tirarla dalla natura all’incivilimento. Ma questo nè più nè meno vogliono i romantici, e conveniva bene che questo tempo, dopo averci snaturati indicibilmente tutti, proccurasse in fine di snaturare la poesia, ch’era l’ultimo quasi rifugio della natura, e d’impedire agli uomini ogni diletto ogni ricordanza della prima condizione, e negasse il nome di poeta a chiunque verseggiando non esprimesse i costumi moderni e lo spegnimento dei primitivi e la corruzione degli uomini. Perchè in somma una delle principalissime differenze tra i poeti romantici e i nostri, nella quale si riducono e contengono infinite altre, consiste in questo: che i nostri cantano in genere più che possono la natura, e i romantici più che posson l’incivilimento, quelli le cose e le forme e le bellezze eterne e immutabili, e questi le transitorie e mutabili, quelli le opere di Dio, e questi le opere degli uomini. La qual differenza e riluce abbondantemente nei soggetti e nelle descrizioni e nelle immagini e in tutta la suppellettile e il modo e l’elocuzione poetica, e in tutto il complesso della poesia, ed è chiara, fra le altre cose, per portare un esempio pratico, nelle similitudini, le quali i nostri proccurano comunemente di pigliare dalle cose naturali, onde avviene che quelle presso loro sveglino ad ogni poco nella fantasia de’ lettori mille squisitissime immagini con maraviglioso diletto, ed è stato già notato che le similitudini de’ sommi poeti sono per lo più tratte dalle cose campestri; ma i romantici con altrettanto studio s’ingegnano di cavarle dalle cose cittadinesche, e dai costumi e dagli accidenti e dalle diverse condizioni della vita civile, e dalle arti e dai mestieri e dalle scienze e fino dalla metafisica, e fino (quando pare che la similitudine debba fare in certo modo più chiara la cosa assomigliata) arrivano a paragonare oggetti visibili a questo o a quell’arcano del cuore o della mente nostra; perchè in sostanza è più chiaro del sole che i nostri cercano a tutto potere il primitivo, anche trattando cose moderne, e i romantici a tutto potere il moderno, anche trattando cose primitive o antiche. Laonde le similitudini di questi tali, e parimente di quasi tutti i poeti inglesi e tedeschi, nella gente che noi chiamiamo di buon gusto, cioè naturale, fanno per la più parte un senso come grossolano così spiacevolissimo, che mentre ella leggendo s’aspetta e desidera di scordarsi dell’incivilimento, a ogni tratto se lo vede ficcare avanti agli occhi; giacchè presso quei poeti che ho detto, in cambio di montagne e foreste e campi e spighe e fiori ed erbe e fiumi e animali e venti e nuvole, troverete del continuo castelli e torri e cupole e logge e chiese e monasteri e appartamenti e drappi e cannocchiali e strumenti manifatture officine d’ogni sorta, e cose simili. Che ve ne pare o Lettori? non è un bel cambio questo? non vedete che sono stufi dei vezzi celesti della natura, e cercano vezzi terreni? non vedete che quei diletti che non trovano più o dicono di non trovare nelle opere di Dio e nelle bellezze universali e perpetue, e che chiamano da bisavoli, gli accattano dalle particolari e caduche, e dalla moda e dalle fatture degli uomini? e in somma non vedete manifestissimamente che noi schiavi noi pedanti noi matti amici dell’arte, siamo i veri e propri amici e partigiani della natura, e questi liberi questi savi questi amici della sola natura, sono assolutamente gli amici e i fautori e gl’imitatori dell’arte?
E benchè questo sarebbe il luogo di commuoversi e di gridare, — Ecco il genere di poesia che vi manca, o italiani: di queste cose siete detti poveri e ignoranti: queste ricchezze vi promette chi dice di volervi rigenerare e risuscitare: a questi studi siete esortati e incitati e stimolati; tuttavia mi conterrò, nè sopporterò che il dolore, e la miseria dell’argomento mi distacchi dalla modestia che si conviene a questo discorso non altrimenti che a me. Diranno che quelle tali similitudini, e in genere la poesia romantica diletta soprammodo un infinito numero di persone. E dove bisognerebbe urlare, risponderò posatamente. Tre cose fra le altre cagionano questo diletto. Prima la corruzione dei gusti, la quale come regna in molti poeti, così parimente in molti lettori; e in genere, come le fantasie de’ poeti sono impastoiate, e avvezze e domestiche alla tirannia degl’intelletti, così anche le fantasie de’ lettori, e come quelle per la maggior parte non sanno più dilettare come debbono, così queste non sanno come una volta essere dilettate. E che perciò? Non parvero un tempo Seneca e Plinio più dilettevoli di Cicerone? Lucano più di Virgilio? E quelle incredibili stravaganze del seicento non piacquero in tutta quanta l’Italia? E uno de’ pochi sani, a chi gli avesse allegato il consenso degli uomini in favore di quella barbarie, non avrebbe risposto allora questo medesimo che rispondo io presentemente? e se fosse stato deriso, chi de’ due avrebbe avuto ragione? il deriso o i derisori? E primieramente, posto che il genio alla poesia romantica sia tanto divulgato e potente in Europa, quanto fu il genio alle pazzie del seicento in Italia, e soprattutto che qualunque è dilettato dai romantici non possa essere dilettato dai nostri, domando che cosa debbano fare quando il gusto sia magagnato e cattiva e torta la via tenuta dalla moltitudine, quei poeti e quegli scrittori che conoscono tutto questo, e sono immuni dalla corruttela. Sto a vedere che per iscriver cose da contemporanei, non da bisavoli, dovranno adattarsi alla depravazione e comporre piuttosto da barbari che da vecchi, e che nel seicento, come faceva benissimo l’Achillini quando esclamava,

Sudate, o fochi, a preparar metalli,

così operava pessimamente il Menzini, quando e fuggiva con ogni studio quello che il suo tempo cercava, e deridendo la goffaggine di quel gusto, scriveva fra l’altre cose:

Via cominciam; CO ’L FULMINE TREMENDO
MANDÒ IN PEZZI DI FLEGRA LA MONTAGNA,
E ’L BARATRO A’ GIGANTI APERSE ORRENDO
GIOVE, CHE SPUNTA ANCOR CON LE CALCAGNA
DELL’AUREE STELLE I SOLIDI ADAMANTI
CHE SON CERCHI A CUI ’L CIEL FA DI LAVAGNA.
O che bel fraseggiare! o che galanti
Pensieri! Aspetto ancor che sieno le stelle
A ferza d’armonia palei rotanti

bisavoli, ma loro stessi; ed essendo dilettati da Omero, non vogliono che nessun poeta possa dilettare presentemente in quella forma; credo, perch’avranno appaltato quei tali diletti agli antichi, in maniera che i moderni che altrimenti avrebbero potuto, per rispetto di questo non ne potranno più somministrare legittimamente.

La seconda cagione del diletto recato dai romantici è la rozzezza e durezza di molti cuori e di molte fantasie che di rado e appena s’accorgono dei tasti delicatissimi della natura: ci vogliono urtoni e picchiate e spuntonate romantiche per iscuoterle e svegliarle: gente alla quale i diletti fini e purissimi sono come il rasoio alle selci; palati da sale e aceto, che par ch’abbiano fatto il callo ai cibi e liquori gentili. Questa durezza molti l’hanno da natura, molti dall’incivilimento, moltissimi da ambedue, corroborata potentemente o aiutata la disposizione ingenita, che forse avrebbe potuto cedere e illanguidire, dai costumi e dagli abiti e dalla snaturatezza cittadinesca. Nella fantasia di costoro fa molto più caso qualche lampada mezzo morta fra i colonnati d’un chieson gotico dipinta dal poeta, che non la luna su di un lago o in un bosco; più l’eco e il rimbombo di un appartamento vasto e solitario, che non il muggito de’ buoi per le valli; più qualche processione o spettacolo o festa o altra opera di città, che non messe o battitura o vendemmia o potagione o tagliatura di legne, o pastura di greggi o d’armenti, o cura d’api o di fratte o di fossi o di rivi o d’orti, o uccellagione o altra faccenda di agricoltori o di pastori o di cacciatori; più lo stile corrotto e cittadinesco e moderno, che non il semplice e primitivo. Non già che questi non sieno capaci di nessuna dolcezza naturale e fina, nè che la natura di quando in quando non li solletichi e diletti senza ch’essi ci badino, ma nella poesia per un torpore d’immaginazione che a smuoverla ci bisognano gli argani, e che pena a strascinarsi lontano una spanna, vogliono oggetti presenti, che la fantasia non abbia da fare un passo per trovargli, e si contentano del piacere secco e grosso di quelle tali immagini, lasciando il sugoso e sostanzioso e squisito della natura e della poesia naturale. E oltrechè l’imitazione dell’incivilimento e dell’arte a petto all’imitazione della natura è soprammodo grossolana per se medesima, e perciò meglio atta a fare impressione in quei cuori e in quelle immaginative, i romantici poi, cercando avidamente, e scegliendo con infinito amore le cose straordinarie e pellegrine, e le sterminatezze e gli eccessi anche dove imitano veramente la natura, menano a quelle fantasie manrovesci tali che la crosta ch’hanno dintorno, per dura che sia, non ci può reggere che non ne sbalzi via qualche pezzo, restandone scoperto il vivo, o più tosto, quantunque gli oggetti sieno lontani, tuttavia con quelle stranezze a marcia forza le spoltroniscono, e comechè sia ce le tirano: onde quelle immaginazioni che resistono eccellentemente ai sospiri d’un poeta tenero e infelice per una donna di Avignone, non può far che non cedano tanto o quanto ai ruggiti d’un assassino per una Turca; e chi non batte palpebra se il poeta proccura di mostrargli una riga di sangue sul petto d’un guerriero giovane e valoroso, è forza che dia segni di vita allo spettacolo d’un soldato ubbriaco, sfondato e sviscerato da una palla di cannone; e chi non piega punto il viso a un collicello verde e battuto dal sole, bisogna pure che di filo dia qualche occhiata a una gran roccia stagliata e nuda che sporge al fianco d’una montagna, e pende orribilmente sopra un abisso cupo non so quante miglia. Di questa durezza ne partecipa più o meno grandissima folla di persone, giacchè finalmente cuori e fantasie così molli che piglino a prima giunta le forme che il poeta vuol dare, e d’un senso così squisito che s’accorgano immantinente dei più leggeri tocchi, e in somma cuori e fantasie che seguano quasi spontaneamente il poeta dovechè vada, e talvolta lo precedano, e sempre, come corde vivissime, risuonino spiccatamente alle menome percosse, non si trovano fuorchè ne’ poeti (dico poeti per natura, facciano versi o non facciano): e per questo s’è dubitato dagli antichi, e si dubita dai moderni se la moltitudine sia giudice competente del poeta; del qual dubbio so che cosa pensino i romantici; ma pensino a modo loro; io di questo non parlo: solamente dico (tornando al proposito di quei duri e difficili parte alla natura parte alla poesia): scrivano per questi tali quei poeti che li somigliano, scrivano i tedeschi e gl’inglesi, non gl’italiani per Dio, fra i quali e non regna così largamente, e d’ordinario non è molto intima nè gagliarda quella durezza. E certo quella facilità e cedevolezza di cuore e d’immaginativa, e anche quella mobilità e vispezza che può stare nelle fantasie volgari e che le assomiglia a quelle de’ poeti, e segnatamente quell’indole adattata ad accogliere e sentire la soavissima operazione della pura e delicata e santa natura che non è nè leziosa nè feroce, nè Sibarita nè Scita, nè spiritosa nè spiritata, e non s’imitò mai nè colle smorfie nè colle civetterie nè colle arguzie sempiterne, nè colle sfacciatezze nè colle scapigliature nè colle bestialità nè cogli orrori sempiterni, e in breve i fondamenti del buon gusto, insieme con quelle faville di fuoco poetico che possono essere disseminate per le fantasie popolari, sono stati conceduti da Dio principalmente ai greci e agl’italiani; e per gl’italiani intendo anche i latini, padri nostri: delle altre nazioni, massime della tedesca e dell’inglese, io non dico niente; parlano i fatti.

L’ultima e capitalissima delle tre cagioni che ho detto, è la singolarità, la quale sarebbe superfluo a dimostrare quanto smisuratamente possa nell’immaginazione: così non occorre dire che spessissime volte l’efficacia nelle scritture è tutt’uno colla novità o rarità; onde vedremo accadere frequentemente che quella cosa che un poeta o uno scrittore esprime, poniamo, con una parola nuova o per se stessa o per l’uso, e quindi efficace talmente che susciti a maraviglia ne’ Lettori l’immagine o il moto conveniente, venga significata nello scrivere o nel favellare ordinario con una voce molto più propria, ed anche per se stessa più vigorosa ed espressiva; e nondimeno quell’altra voce, solamente perch’è nuova, fa effetto più che non avrebbe potuto fare la parola corrente. E caso che quella o voce nuova o maniera di adoperarla andasse in usanza, allora quel cotal passo efficace e notabile diventerebbe ordinario, come senza fallo dev’essere accaduto a moltissimi luoghi di poeti e scrittori antichi, in ispecie de’ più studiati e imitati, e però massimamente di Omero. Ed è tanta la forza della singolarità nella poesia, che anche messa in opera come non doveva, a ogni modo si fa sentire gagliardamente alle stesse persone di buon gusto: saranno offese e stomacate da quelle immagini, ma converrà che le veggano mal grado loro. Venendo dunque al caso nostro, non è, si può dire, in Europa, non in America nessun lettore di poeti che non abbia le orecchie più o meno assuefatte alla maniera de’ greci e de’ latini, parte perch’è la maniera ordinaria appresso più nazioni sì de’ poeti e sì della ciurma de’ versificatori (la quale come in Italia vediamo ch’è infinita, così fuori non ci lasciamo dare ad intendere che sia scarsissima); e fino quei favellatori sguaiati che affettano il parlar poetico, pigliano comunemente da essa e parole e frasi e concetti: lascio certi predicatori fioriti, come li chiamano, i quali parimente accattano da essa la maggior parte de’ loro fiori; lascio tante infelici prose di qualsivoglia genere (e dicendo infelici ho detto quasi lo stesso che innumerabili) sparse della stessa infioratura; e brevemente la foggia poetica degli antichi è tanto usuale e nota, massimamente fra noi, che nè pur le orecchie della plebe l’ignorano affatto; ma anche fra i tedeschi e gl’inglesi fra i quali la foggia romantica è più divulgata che altrove, non pare che perciò l’uso della nostra sia poco frequente; certo leggono e citano e lodano alla giornata molte e molte loro poesie d’altri tempi scritte al nostro modo: parte perchè gli stessi poeti greci e latini sono conosciuti letti studiati usati maneggiati da tutto quanto il mondo, e dai tedeschi e dagl’inglesi specialmente; questi trattiamo nella puerizia; da questi, si può dire, impariamo che cosa sieno versi e poesia; a questi esemplari conformiamo le prime idee che ci disegniamo in testa del verseggiare e del poetare; questi si stampano in tutte le forme, si dichiarano in tutti i modi, si trasportano in tutte le lingue in tutti i dialetti; di questi si citano si ricordano s’accennano tutto giorno, scrivendo parlando, da senno da burla, allusivamente espressamente, frasi versi sentenze immagini descrizioni favole; questi è vergogna non aver letti, non averne su per le dita fino alle menome finzioni, fino a un buon numero di concetti e di versi: in somma non c’è popolo incivilito appresso il quale i poeti greci e latini non facciano il forte della poesia; però non credo che ci sia popolo nella stima e nell’assuefazione di cui la maniera poetica de’ greci e de’ latini non sia la maniera ordinaria: la poesia romantica (lasciando stare che è creduta nuova, almeno in parte o quanto all’accozzamento di cose non nuove) è non ordinaria alle orecchie inglesi e tedesche, straordinaria alle francesi, ma molto più alle italiane, perchè i francesi, benchè pare che facciano cattivo viso alla nuova disciplina, è un pezzo che hanno accolto, non le stravaganze, ma tuttavia grandissima ed essenzialissima parte della poesia romantica. Ora stando così le cose, che maraviglia è che scuota meglio le immaginazioni una poesia nuova o poco familiare, che non un’altra a cui sono tanto assuefatte? che s’interni meglio una punta di stagno nuova e bene acuta, che non una d’acciaio vecchia e per lunga opera, ottusa? Stupisca o mi opponga l’efficacia della poesia romantica chi non conosce le fantasie degli uomini: io stupirei se succedesse altrimenti. Ma che dico le fantasie? Nessuna cosa umana conosce chi non sa che l’assuefazione fiacca le forze dei beni e dei mali, dei diletti e dei dolori spirituali e corporali, e quasi ci toglie il vedere e il sentire quello che vediamo e sentiamo continuamente, e che l’avvezzare è una delle tante forme onde il tempo va incessantemente cambiando e consumando.

Tutto noia si fa, l’amore e il sonno
E i dolci canti e i graziosi balli,

dice Omero; e in effetto, come ciascuno sa e predica, nessuna cosa è tanto bella nè piacevole che a lungo andare non annoi: così la nostra maniera poetica, essendo pur cosa umana per quanto sia dilettevole e prossima al divino, può tediare senza fallo; del che qualunque la riprende, con molto più convenienza riprenderebbe la natura delle cose, cioè finalmente Iddio. Avviene non di rado che taluno stufo del dolce sia più dilettato dall’amaro: diremo per questo che l’amaro sia un buon sapore? e che sia meglio del dolce? e che il dolce sia cattivo? Ma non parliamo del fastidio, parliamo della forza e del dominio della nostra maniera poetica sulle immaginazioni e sui cuori, ch’è stenuato incredibilmente dall’uso; dico della maniera in genere, all’antichità e volgarità della quale non è maraviglia che prevalga la novità e singolarità di un’altra; che del resto la facoltà di trovare e di far cose nuove non mancherà fuorchè insieme colla natura ai poeti che adopreranno quella stessa maniera antica, vale a dire agl’imitatori della natura. E quanto alla poesia romantica, facciamo ch’ella pigli piede, e si propaghi, e diventi, ch’è impossibile, così conosciuta e trita e volgare com’è la nostra presentemente: allora si vedrà che cosa ella possa per se medesima senza la novità: quando quel vocabolario di frasi e descrizioni e altre tali cose, che adesso perch’è nuovo o raro, sveglia tante immagini e tanti moti, fatto vecchio e comune, non isveglierà più niente, si vedrà quanta parte di quel gran diletto, di quella gran forza dei romantici venisse dalle proprietà, non sostanziali nè intrinseche, ma estrinseche e casuali della poesia loro: nè ci vuole troppo tempo nè troppo uso perchè questo succeda, nè tanto quanto n’è bisognato proporzionatamente per la poesia nostra; che lo stagno non pena tanto a logorarsi quanto l’acciaio: nondimeno tolga Iddio ch’il mio detto sia confermato dall’esperienza, e che la poesia romantica sia rovinata dall’uso: e quando io credessi che questa mia scrittura dovesse giungere ai posteri, come so che non giungerà, vorrei più tosto che dubitassero se ciò che ho detto sia vero, di quello che mi lodassero come profeta, giacch’è meglio che molti dubitino, di quello che quasi tutti sieno corrotti, e che un secolo disputi, di quello che un mezzo secolo sia barbaro. Ora poichè la poesia, come tutte le cose di questo mondo, a forza d’uso si snerva, che rimedio ci troverà questo nostro tempo scopritore e ritrovatore? Stimo che acciocch’ella mantenga sempre quell’efficacia che proviene dalla novità, bisogni mutar foggia di quando in quando, e come adesso, in luogo dell’antica, buona per li pedanti, e disadatta al tempo nostro, abbiamo la romantica, così quando questa sarà tanto o quanto appassita, se ne debba mettere in sua vece un’altra, e dopo un’altra, e così di mano in mano. Che andiamo noi cercando bellezze eterne e immutabili? Qualunque cosa non si muta, qualunque dura sempre, non fa per la poesia: questa vuol cose caduche, cose che si rinnuovino, cose che passino: abbia anch’ella le sue mode, diventi leggera per esser sempre gagliarda; duri ciascuna foggia quanto può durare una moda: nella fama de’ poeti non fo variazione: duri a un di presso quanto dura presentemente: spero che si potranno stampare i giornaletti a posta, colle mostre di ciascheduna poesia che andrà venendo in usanza, come adesso si stampano quelli delle altre mode colle loro figurine. Queste paiono burle, o Lettori; pur voi sapete e vedete quanto poco sieno lontane dal fatto. Ma lasciamo queste fanciullaggini. La novità o singolarità che cagiona principalmente l’efficacia e il diletto della poesia romantica, non è già quella degli oggetti, ma quella dell’imitazione, la quale può essere singolare in due modi, e per le forme sue proprie, cioè se il poeta imiti in qualche maniera straordinaria, e per gli oggetti, cioè se il poeta imiti qualche oggetto o parte di oggetto che non soglia essere imitata nella poesia. E notate, o Lettori, che anche questa seconda singolarità è propria veramente dell’imitazione e non degli oggetti, stante ch’io non ho detto che questi debbano essere singolari, ma poco imitati. Anzi una delle cose che aiutano massimamente la poesia romantica oltre alle tre considerate finora, è che moltissimi degli oggetti ch’ella imita, sono per noi comuni e presenti, e ci stanno o ci passano tutto giorno avanti agli occhi; dico segnatamente le cose cittadinesche e le usanze del tempo nostro. Imperocchè allora è grandissima l’efficacia della poesia, quando l’imitazione è rara, l’oggetto comune. E dico l’imitazione rara nell’uno dei modi specificati qui sopra, o in tutti e due. Quest’è una verità manifesta e notabilissima, che si dimostrerebbe facilmente e chiaramente se ci occorresse altra prova che l’esperienza di ciascheduno, e da cui si possono derivare molte e gravissime osservazioni intorno alla poesia, nè pedantesche nè romantiche, i quali due generi sono assai meno discordi, anzi assai meno dissimili che non pare. E da questo si comprende quanto sia scaduta la condizione della poesia da quello ch’era anticamente; dico di quella poesia ch’eseguisce l’ufficio suo, che imita la natura e non l’arte, e perchè col tempo l’arte in moltissime cose ha prevaluto alla natura, perciò quanto alla maniera è primitiva e non moderna. Ora l’efficacia di questa poesia che sola è propriamente poesia, la doveano sentire gli antichi meglio di noi, come sappiamo che facevano, imperocchè un tempo furono affatto ordinari in essa tutti e due quegl’inestimabili accidenti, la rarità dell’imitazione e la familiarità degli oggetti, le quali cose sono poi venute scemando l’una e l’altra. E quanto alla prima, ognuno vede che quando pochi poeti aveano cantato e cantavano, e le forme particolari e minute dell’imitazione doveano essere in grandissima parte rare anzi nuove, e di oggetti o parti d’oggetti non ancora o poche volte imitati ci doveva essere grande abbondanza: lascio che la poesia per se medesima essendo sempre rara, doveva anche sempre essere per questo verso più efficace. Tutto questo proporzionatamente va detto altresì di quei tempi meno remoti, i quali contuttoch’avessero buona quantità di poeti passati e presenti, nondimeno le orecchie non erano così piene di poesia come le nostre. Quanto alla seconda, è manifesto da sè che infinite cose naturali e primitive furono per gli antichi quando più quando meno, prima sommamente poi mezzanamente, sempre più comuni e familiari che non sono per noi, anzi molte furono comuni per loro, che sono quasi sparite dal mondo; non già che la natura la quale non solamente ne circonda e preme da ogni parte, ma sta dentro di noi vivente e gridante, possa mai divenire straordinaria per gli uomini; ma il mantello dell’incivilimento che nasconde tante parti della natura, non all’animo nè al desiderio nostro, ma pure agli occhi, nascondeva assai meno agli antichi, molto meno ampio e molto più rado, e un tempo scarsissimo e trasparente; non odono più il poeta la plebe e gli agricoltori che una volta l’udiano o più tosto lo vedeano dipingere con tanto amore quegli oggetti e quelle faccende ch’essi aveano tutto il giorno avanti agli occhi e per le mani; sono periti i costumi primitivi o vicini ai primitivi; e non solamente questi, anche altri molto lontani da essi che tuttavia conservavano un certo bellissimo color naturale (dico quelli de’ greci ch’ebbero ai tempi, per esempio, di Pericle, e quelli de’ romani ch’ebbero ai tempi di Silla e di Cesare e d’Augusto, e gli altri tali), sono parimente vecchi e remoti: il che, se bene giova alla maraviglia e a molte illusioni, pregiudica all’evidenza, e all’efficacia ordinaria della poesia. Queste cose i romantici presso cui l’imitazione è così straordinaria e buona parte degli oggetti così comune, e che gridano tanto perch’il poeta imiti le cose moderne e presenti, le avranno senz’altro non solamente ponderate ma sviscerate, e fatte norma del loro poetare. Oh per l’appunto. In fatti cercano col candelino, come ho già detto di sopra, quelle più strane cose che si possono immaginare, o sieno semplicemente stravaganze singolarissime per natura loro; o sieno eccessi di qualsivoglia genere, segnatamente misfatti atrocissimi, cuori e menti d’inferno, stermini subbissi orrori diavolerie strabocchevoli, così altre invenzioni da Spaccamonti; o sieno oggetti forestieri lontanissimi dagli occhi e dalla consuetudine dell’Europa o di quella tal nazione alla quale ciascuno di loro scrive, sconosciutissimi almeno ai sensi della più parte e sovente di quasi tutti i Lettori loro; o sieno costumi casi favole allegorie parimente forestiere e lontanissime, che per noi spesso e in qualunque modo, e massimamente nelle poesie loro, sono tanti geroglifici; o finalmente sieno cose quantunque vicine e nostrali, tuttavia rare e poco note o ignote alla moltitudine, come dire animali infermità officine lavorii strumenti, edifizi di costrutture singolari, che pochi hanno veduto o sentito, o che si vedono o sentono di rado, avvenimenti che poche volte succedono, e cose tali: in somma, chi non sapesse che vogliono anche il moderno e il comune anzi il triviale, parrebbe, come effettivamente pare a prima vista, che in vece del comune non cercassero negli oggetti altro che il singolare, non già specificamente quello rispettivo alla poesia (vale a dire che questa non soglia imitare quei tali oggetti), ma il singolare in genere, cioè tanto questo, quanto il rispettivo a’ paesi nostri e l’assoluto; e che non a bello studio ma per mero accidente s’abbattessero a imitare oggetti comuni, cioè perchè questi sono anche tali da non poter essere stati molto imitati dalla poesia. E viene in parte da questo amore verso la singolarità che fanno incetta di cose vili e oscene e fetide e schifose, non istraordinarie in nessun modo per se, nè rispettivamente a’ paesi nostri, ma sì bene rispettivamente alla poesia, perchè finora i poeti erano stati cigni e non corvi che volassero alle carogne; ma i romantici perchè queste carogne sono intatte, e però possono far effetto, ci vanno sopra di tutta voglia, e ci ficcano e sguazzano il becco e l’ugne. E viene parimente da esso bell’amore, se non in tutto, almeno in parte, quella segnalatissima propensione al terribile o vogliamo all’orribile, per cui rigettando, come ho detto più sopra, quasi tutte le idee fanciullesche, nondimeno accolgono, anzi raccolgono con molta cura, insieme colle altre più mostruose, principalmente le terribili. Ma di questa propensione, perchè ricercherebbe un lungo discorso, non voglio entrare a parlare: e venendo agli oggetti straordinari o assolutamente o relativamente a’ paesi nostri, vedete o Lettori, come la nuova scuola senta bene avanti in quella che chiamano psicologia, della quale reputa e dice a tutte l’ore se stessa maestra e regina, e noi altri ignoranti. Imperocchè, non vi par egli? è chiaro che l’immagine d’un oggetto a chi non l’ha visto mai, o solamente una o due volte in sua vita, o anche non ha pure un barlume del come è fatto, per qualche parola che gliene dica il poeta, gli deve alla bella prima sorgere nella fantasia spiccatissima e intera. È manifesto che chi non ha mai veduto nè anche dipinta una Giraffa un vitello marino una Diomedea una palma una meschita o cose simili, o quando pure n’abbia veduto qualch’effigie, non ne serba nessuna o quasi nessuna traccia nella fantasia, letti quattro versi d’un romantico, crederà subito di vederle. Il poeta ordinariamente non dipinge nè può dipingere tutta la figura, ma dà poche botte di pennello, e dipinge e più spesso accenna qualche parte, o sgrossa il contorno con entrovi alcuni tratti senza più: la fantasia, quando conosce l’oggetto, supplisce convenientemente le altre parti, o aggiunge i colori e le ombre e i lumi, e compie la figura. Così quando noi vediamo quei ritagli d’oggetti che i pittori figurano in sull’estremo de’ quadri, o fingendo che la vista del rimanente sia parata da altri oggetti, come nel vedere il davanti o il di dietro o il profilo, per esempio, di persona dipinta, c’immaginiamo tutta la persona, similmente allora, purchè conosciamo quei tali oggetti, sapendo com’è fatta a un di presso quella parte che non vediamo, e supponendo che non manchi, ci formiamo bene e convenientemente nella fantasia la figura intiera. Così quando vediamo una faccia umana disegnata o incisa a chiariscuri, o anche semplicemente delineata, la fantasia ci aggiunge i colori naturali, e se bisogna la ombreggia e lumeggia. Ma se noi non conosciamo gli oggetti imitati dal poeta, e questi ce ne mostra solamente alcune parti o vero i contorni, non può fare che non succeda l’una di queste tre cose; o che la fantasia nostra vedendo chiaramente secondo la sua maniera di vedere le parti mostrate dal poeta, non ci aggiunga niente, e le dovrà essere molto dilettevole il vedere quelle teste o mezze teste, e quelle code, e quei pezzi di strumenti o di arnesi forestieri o mal noti, sospesi in aria così per miracolo: (ma questo non può succedere, perchè noi nel vedere, per esempio, una testa dipinta, non ce la immaginiamo sola e staccata, se non quando il pittore non ha finto di nascondere il resto del corpo, ma l’ha dintornata e terminata in maniera da farla stare isolata e da se, giacchè allora non possiamo supporre che quello che non vediamo, contuttociò non manchi, quantunque non apparisca, ma conosciamo intieramente che non c’è altro fuori di quello che vediamo); o che aggiunga il rimanente a capriccio e a ventura, facendo tanti ippogrifi e tanti ircocervi e tanti innesti chimerici con quel diletto che può scaturire dal mostruoso; o che non veda nè aggiunga nulla, o se pur vede, aggiunga oscuramente e confusamente, come se un pittore ci mostrasse soltanto le zampe o le corna di una bestia sconosciuta, o ce ne sbozzasse il dintorno; e questo appunto è quello che avviene. E posto pure ch’il poeta disegni e colorisca per minuto tutta quanta la figura, il che non può quasi mai; e quelle stesse parti che può dipingere, come non dev’esser difficilissimo che le rappresenti evidentemente alle fantasie quando l’oggetto non è conosciuto, e quasi impossibile quando questo ha poco che fare con quelli che conosciamo, o vero ha certe qualità o parti che la fantasia non si può giovar molto degli oggetti che conosce per congetturarle a dovere; mentre vediamo quanto sia raro che altri ci svegli la vera idea di questi tali oggetti, favellando e gestendo, e figurando cogli atti e coi moti quello che descrive colle parole, e aiutando la favella il meglio che può con cose visibili, e mentre non ce la svegliano gli scrittori più accurati con molte pagine di prosa, se finalmente non ci pongono quegli oggetti sotto gli occhi, effigiati in qualche maniera? Ed ecco l’efficacia di questa singolarità, ecco la grande scienza psicologica della nuova scuola, che sapendo come ha molta forza nella poesia la novità o la rarità, non mette differenza tra quella ch’è propria dell’imitazione e quella ch’è propria degli oggetti i quali per l’opposto vorrebbero esser comuni. E non parlo qui del maraviglioso, il quale so che richiede cose straordinarie e queste non dico di qual fatta debbano essere; parlo in ge[ne]re di tutta la poesia, parlo delle similitudini dei traslati delle immagini usuali, del linguaggio poetico del magazzino de’ romantici, il quale non so di che altri oggetti propri sia corredato, fuorchè parte comuni ma fin qui o rigettati o poco amati dalla poesia, parte singolari e stravaganti. Anche noi veramente vogliamo, o più tosto la condizione de’ tempi vuole ch’il poeta imiti molte cose presentemente non comuni, dico le primitive; ma queste non possono essere strane se non a quello a cui sia strana la natura; ne abbiamo tutti come i germi in noi stessi, e le idee se non chiare almeno confuse, e la inclinazione verso loro naturale e concreata; siamo stati tutti fanciulli, e partecipi formalmente delle cose primitive, e sudditi alla natura primitiva; non è finita nel mondo la vita campagnuola, nè finirà, perchè insieme finirebbe la vita cittadinesca, ma è diffusa necessariamente per tutta la terra e poco meno che avanti agli occhi di tutti gl’inciviliti, e conserva una gran parte di quei costumi che sono spariti dalle città; appena si può dire che le cose primitive non sieno comuni: contuttociò non neghiamo che la condizione de’ poeti nostri non sia per rispetto a questo inferiore a quella degli antichi, riputiamo e chiamiamo svantaggio e disastro della poesia, che tanti soggetti propri della imitazione poetica sieno diventati meno comuni, affermiamo che il poeta bisogna ch’abbia gran riguardo alle cose presenti, che ha mestieri adesso di molto più arte che non un tempo. E i romantici che condannano come lontane quelle cose che o lontane o no che sieno quanto alla realtà, saranno sempre vicine e all’immaginativa e al desiderio nostro, essi medesimi non forzati dalla necessità, non dall’indole propria della poesia, non dalla condizione de’ tempi, nè anche per un capriccio passeggero, ma per proposito certo e costante s’affaticano e s’ingegnano a tutto potere di trovar cose lontanissime o singolarissime (che, facciamo conto, è tutt’uno, se non peggio); e mentre non consentono che si pigli materia di poesia dall’antichità nostra, la pigliano dall’Asia e dall’Affrica e dall’America; e mentre non vogliono che si canti ai bisavoli, cantano agli antipodi (lascio che di costoro non cantano solo il presente ma eziandio l’antichissimo): e poi si gloriano che l’Asia e l’Affrica e l’America e tutto il mondo è tributario de’ versi loro; e poi riprendono e scherniscono i poeti nostri dicendo che scrivono a pochi, mentrechè tanta parte de’ loro versi per fare l’effetto suo, vorrebbe un uomo che, fra le altre cose, avesse veduto tutto il mondo, e non basterebbe, giacchè nè meno a costui potrebbero esser comuni e familiari gli oggetti di tutto il mondo. In somma contraddizioni e poi contraddizioni, in somma errori, assurdi, stravaganze, fanciullaggini, in somma nessuna candidezza nessuna realtà, in somma un ammasso un caos di sofisticherie di frenesie di mostruosità di ridicoli, è il dono, o mia patria, che t’offeriscono non dico i nemici non gli stranieri, ma i figli. Taluno dirà: non affermavi tu poco sopra che la poesia romantica è molto efficace? Efficace ho chiamata quella parte della poesia romantica la quale imita oggetti comuni o non singolari; efficace in tutti, anche nelle persone di buon gusto, quantunque non altrimenti che il puzzo in chiunque ha odorato, e massime in chi l’ha buono. Efficace ho detto altresì quella parte che imita oggetti singolari, ma efficace nelle persone di fantasia dura e torpida, per le quali ci vogliono cose o presentissime o lontanissime; non già che le immagini di queste seconde, figurate dal poeta, le vedano costoro meglio degli altri; anzi le vedono oscuramente e senza paragone più nebbiose e più slavate che altri non vede le immagini di cose nè presentissime nè troppo lontane, le quali essi non arrivano a vedere, perchè nè s’adattano alla inerzia della fantasia loro, rappresentando cose fra le quali ei s’aggirino continuamente, nè la vincono col fracasso e coll’urto della novità della stravaganza della maraviglia. Questi tali dunque fra il poco e il niente, scelgono senza nessuna dubitazione il poco, attoniti che la poesia li faccia pur finalmente vedere qualche cosa; e parendo loro un gran che, quello che ad altri pare una gran miseria, preferiscono di gran lunga i romantici che li fanno veder poco e male, ai nostri che fanno veder molto e bene altre fantasie ma non le loro. In questo modo le stravaganze delle poesia romantica sono, come ho detto, efficaci in costoro, non assolutamente, ma rispetto alla poesia nostra. La qual efficacia chi non conosce quanto agevolmente e con quanto poco d’ingegno e di costo si provveda? Chi non sa che si coglie più facilmente nel vero imitando lo straordinario che l’ordinario? che in tutte le arti belle regolarmente è molto più facile a imitare le cose eccessive che le mezzane? Lascio quando non s’imita ma s’inventa; lascio che a qualunque o pittore o scultore o altro tale artefice è molto più agevole il figurare di suo capo un demonio orribilissimo, che non il ritrarre una persona non deforme; lascio che se, posto un oggetto da imitare, è più facile il contraffarlo migliore ch’ei non è, di quello che tale qual è, molto più sarà facile il contraffarlo peggiore. Mi vergogno, o Lettori miei, di scriver cose che al presente, non dico voi, ma le sanno per poco i fanciulli, il che non fo solamente adesso, ma ho fatto già più volte in questo discorso, e per avventura farò; se non che penso come la colpa non è tanto mia che ricordo cose note, quanto di quelli che mostrano d’ignorarle. Certo, o Italiani, che se quella gente dura che dicevamo, vi paresse e molta fra voi, e degna della poesia, se credeste che il poeta dovesse cantare a quelli che la natura non ha fatti per ascoltarlo, se non giudicaste che in vece che la poesia debba infracidire per amor loro, questi tali debbano lasciarla da canto, e badare a cose alle quali sieno meglio adattati, giacchè si vive in questo mondo anche senza poesia, brevemente se per qualunque o ragione o ghiribizzo vi piacesse di tener dietro ai poeti inglesi e tedeschi, vi mancherebbe la lena, e non sareste da tanto da dipingere in luoghi deserti e nascosti e favorevoli all’assassinio, quarti di masnadieri, fumanti grondanti marciosi, pendenti da alberi insanguinati, braccia gambe con parti di schiena e di ventre orlate di strambelli; da mostrare uomini scelleratissimi, disperati urlanti, che si sbalzassero giù da rupi alte quant’è un’occhiata, notare lo schiacciamento del cranio e lo sprazzo delle cervella e lo spaccamento e lo sfracellamento di tutto il corpo, e le interiora tutte nudate e sparpagliate, e ogni cosa affogata in un pantano di sangue nero e gorgogliante; da introdurre di notte in camere buie, rischiarate a poco a poco da un barlume pallido e sommesso, scheletri o cadaveri che fiottando e scrollando catene, s’incurvassero sul letto e accostassero la faccia gialla e sudata alla faccia di persona viva, giacente senza voce senza respiro, assiderata dallo spavento. E non più tosto il far cose di questa lega sarebbe un giuoco per voi, e se ricusate di poetare e di applaudire a chi poeta in questa forma, se non mettete la gloria vostra, compatriotti dei primi poeti del mondo rinato agli studi, nel seguitare i poeti inglesi e tedeschi, se vi stomacate, se v’irritate con me, se appena vi tenete di stracciare questa carta dove ho solamente accennato quello che a voi converrebbe dipingere, viene che non credete degno della poesia quello ch’è indegno della scrittura pedestre e del ragionamento familiare; viene che se non siete effemminati e superstiziosi nel conservare la dignità e la venustà degli scritti vostri come una nazione vostra vicina, che si spaventa della proprietà delle parole e delle cose, e fugge l’efficacia, e condanna ogni bell’ardimento, e snerva e snatura poco meno che tutta la poesia e tutto lo scrivere, nè anche perciò siete vaghi dell’abbietto nè del vergognoso nè dell’infame, nè di sozzurre nè di marciumi nè d’orrori nè di mostri, nè riputate che l’oggetto della poesia che molti dicono essere il bello, sia principalmente il brutto; viene che siete figli de’ romani, allievi de’ greci e non de’ barbari, che siete italiani e non tedeschi nè inglesi. Confesso il vero, che quanto più riguardo agl’insegnamenti della nuova scuola e ai frutti che danno, tanto più mi par dispregevole quello che m’era paruto notabile, tanto meno temo che questa peste possa prender piede in Italia, tanto più voglia mi viene di ridere, come s’è costumato finora, in cambio di discorrere, tanto più conosco e lodo il senno di quei gravissimi letterati che per quanto il silenzio loro dovesse dare alterigia e baldanza di vittoriosi ai nuovi settari, non hanno stimato che questi potessero guadagnare contro di loro altra vittoria che di condurgli a metter mano alle armi.

Giacomo Leopardi

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