Giacomo Leopardi – Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica – III


Giacomo Leopardi.
Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
Capitolo III.

Note
Diritti d’Autore: no
Edizione di riferimento
Giacomo Leopardi, Poesie e prose, vol. secondo, a cura di Rolando Damiani, Arnoldo Mondadori editore, collana I Meridiani, Milano 1988.

Leopardi. Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica

III.

Ma per recare in poco quello che fin qui s’è disputato largamente, abbiamo veduto come s’ingannino coloro i quali negando che le illusioni poetiche antiche possano stare colla scienza presente, non pare che avvertano che il poeta già da tempi remotissimi non inganna l’intelletto, ma solamente la immaginazione degli uomini; la quale potendo egli anche oggidì, mantenuta l’osservanza del verisimile e gli altri dovuti rispetti, ingannare nel modo che vuole, dee scegliere le illusioni meglio conducenti al diletto derivato dalla imitazione della natura, ch’è il fine della poesia; di maniera che non essendo la natura cambiata da quella ch’era anticamente, anzi non potendo variare, seguita che la poesia la quale è imitatrice della natura, sia parimente invariabile, e non si possa la poesia nostra ne’ suoi caratteri principali differenziare dall’antica, atteso eziandio sommamente che la natura, come non è variata, così nè anche ha perduto quella immensa e divina facoltà di dilettare chiunque la contempli da spettatore naturale, cioè primitivo, nel quale stato ci ritorna il poeta artefice d’illusioni; e che in questo medesimo stato nostro è manifestissimo e potentissimo in noi il desiderio di questi diletti e la inclinazione alle cose primitive: nè la poesia ci può recare altri diletti così veri nè puri nè sodi nè grandi, e se qualche diletto è partorito anche dalla poesia romantica, s’è veduto da quali cagioni proceda singolarmente, e come questi diletti sieno miseri e vani appresso quelli che recano o possono recare i poeti nostri, e come impropri della poesia.

Ora da tutto questo e dalle altre cose che si son dette, agevolmente si comprende che la poesia dovette essere agli antichi oltremisura più facile e spontanea che non può essere presentemente a nessuno, e che a’ tempi nostri per imitare poetando la natura vergine e primitiva, e parlare il linguaggio della natura (lo dirò con dolore della condizione nostra, con disprezzo delle risa dei romantici) è pressochè necessario lo studio lungo e profondo de’ poeti antichi. Imperocchè non basta ora al poeta che sappia imitar la natura; bisogna che la sappia trovare, non solamente aguzzando gli occhi per iscorgere quello che mentre abbiamo tuttora presente, non sogliamo vedere, impediti dall’uso, la quale è stata sempre necessarissima opera del poeta, ma rimovendo gli oggetti che la occultano, e scoprendola, e diseppellendo e spostando e nettando dalla mota dell’incivilimento e della corruzione umana quei celesti esemplari che si assume di ritrarre. A noi l’immaginazione è liberata dalla tirannia dell’intelletto, sgombrata dalle idee nemiche alle naturali, rimessa nello stato primitivo o in tale che non sia molto discosto dal primitivo, rifatta capace dei diletti soprumani della natura, dal poeta; al poeta da chi sarà? o da che cosa? Dalla natura? Certamente, in grosso, ma non a parte a parte, nè da principio; vale a dire appena mi si lascia credere che in questi tempi altri possa cogliere il linguaggio della natura, e diventare vero poeta senza il sussidio di coloro che vedendo tutto il dì la natura scopertamente e udendola parlare, non ebbero per esser poeti, bisogno di sussidio. Ma noi cogli orecchi così pieni d’altre favelle, adombrate inviluppate nascoste oppresse soffocate tante parti della natura, spettatori e partecipi di costumi lontanissimi o contrari ai naturali, in mezzo a tanta snaturatezza e così radicata non solamente in altri ma in noi medesimi, vedendo sentendo parlando operando tutto giorno cose non naturali, come, se non mediante l’uso e la familiarità degli antichi, ripiglieremo per rispetto alla poesia la maniera naturale di favellare, rivedremo quelle parti della natura che a noi sono nascoste, agli antichi non furono, ci svezzeremo di tante consuetudini, ci scorderemo di tante cose, ne impareremo o ci ricorderemo o ci riavvezzeremo a tante altre, e in somma nel mondo incivilito vedremo e abiteremo e conosceremo intimamente il mondo primitivo, e nel mondo snaturato la natura? E in tanta offuscazione delle cose naturali, quale sarà se non saranno gli antichi, specialmente alle parti minute della poesia, la pietra paragone che approvi quello ch’è secondo la natura, e accusi quello che non è? La stessa natura? Ma come? quando dubiteremo appunto di questo, se avremo saputo vederla e intenderla bene? L’indole e l’ingegno? Non nego che ci possano essere un’indole e un ingegno tanto espressamente fatti per le arti belle, tanto felici tanto singolari tanto divini, che volgendosi spontaneamente alla natura come l’ago alla stella, non sieno impediti di scoprirla dove e come ch’ella si trovi, e di vederla e sentirla e goderla e seguitarla e considerarla e conoscerla, nè da incivilimento nè da corruttela nè da forza nè da ostacolo di nessuna sorta; e sappiano per se medesimi distinguere e sceverare accuratamente le qualità e gli effetti veri della natura da tante altre qualità ed effetti che al presente o sono collegati e misti con quelli in guisa che a mala pena se ne discernono, o per altre cagioni paiono quasi e senza quasi naturali; e in somma arrivino senza l’aiuto degli antichi a imitar la natura come gli antichi facevano. Non nego che questo sia possibile, nego che sia probabile, dico che l’aiuto degli antichi è tanto grande tanto utile tanto quasi necessario, che appena ci sarà chi ne possa far senza, nessuno dovrà presumere di potere. Non mancherà mai l’amore degli uomini alla natura, non il desiderio delle cose primitive, non cuori e fantasie pronte a secondare gl’impulsi del vero poeta, ma la facoltà d’imitar la natura, e scuotere e concitare negli uomini questo amore, e pascere questo desiderio, e muovere ne’ cuori e nelle fantasie diletti sostanziosi e celesti, languirà ne’ poeti, come già langue da molto tempo. E qui non voglio compiangere l’età nostra, nè dire come sia svantaggioso, quello che tuttavia, così per la ragione che ho mentovata, come per altre molte, è, almeno generalmente parlando, necessarissimo, nè pronosticare dei tempi che verranno quello che l’esperienza dei passati e del presente dimostra pur troppo chiaro, che qualunque sarà poeta eccellente somiglierà Virgilio e il Tasso, non dico in ispecie ma in genere; un Omero un Anacreonte un Pindaro un Dante un Petrarca un Ariosto appena è credibile che rinasca.

Ma omettendo di buona voglia questi presagi dolorosi, e pregando che sieno falsi, non voglio lasciar di ammonire i romantici, che oramai si riposino da quelle vane decrepite inette declamazioni contro l’uso delle favole greche. Non ricordo qui le favole orientali e settentrionali, amori e delizie loro; non metto in campo le disonestà le scelleraggini che sono, non pure incidenti, ma soggetti principali delle poesie di quelli che ci rinfacciano tutto giorno, che abbrividiscono che impallidiscono in ridursi a memoria i delitti favoleggiati dagli antichi. Già le contraddizioni nelle cose della nuova setta non vanno più notate. Sia concesso alle opinioni ai detti ai fatti dei romantici, poeti e filosofi sommi, quello che non si sopporta negli uomicciattoli; che sieno incoerenti e contraddittori. Sappiano che quando noi disputiamo che la poesia moderna non si dee nè si può diversificare dall’antica, non difendiamo l’abuso nè l’uso delle favole de’ Gentili. Vogliamo che sieno essenzialmente comuni alla poesia greca e latina colla presente e con quella di tutti i tempi, le cose naturali necessarie universali perpetue, non le passeggere, non le invenzioni arbitrarie degli uomini, non le credenze non i costumi particolari di questo o di quel popolo, non i caratteri non le forme speciali di questo o di quel poeta: le favole greche sono ritrovamenti arbitrari, per la più parte bellissime dolcissime squisitissime, fabbricate sulla natura, come forse accennerò nel progresso, ma fabbricate da altri non da noi, fabbricate, come ho detto, sulla natura, non naturali; perciò non sono comuni agli antichi con noi, ma proprie loro: non dobbiamo usurpare le immaginazioni altrui, quando o non le facciamo nostre in qualche maniera, o non ce ne serviamo parcamente come di cose poeticissime, notissime a tutti, usitatissime appresso quei poeti che tutto il mondo legge ed esalta, fonti di ricchezza alla elocuzione poetica, utilissime alla speditezza e alla nobiltà del dire, in generale, alla lontana, come di fondamenti alle invenzioni nostre, adoperando la religione degli antichi, come opportuna alle finzioni, amica de’ sensi, e più naturale che ragionevole non altrimenti che la poesia. Quindi, non solamente l’abuso delle favole greche, non solamente le oscenità e le brutture, ma l’uso o smoderato o sol tanto non parco, si sconsiglia e biasima e rigetta da qualunque de’ nostri ha senno e sapere; perchè noi non vogliamo che il poeta imiti altri poeti, ma la natura, nè che vada accattando e cucendo insieme ritagli di roba altrui; non vogliamo che il poeta non sia poeta; vogliamo che pensi e immagini e trovi, vogliamo ch’avvampi, ch’abbia mente divina, che abbia impeto e forza e grandezza di affetti e di pensieri, vogliamo che i poeti dell’età presente e delle passate e avvenire sieno simili quanto è forza che sieno gl’imitatori di una sola e stessa natura, ma diversi quanto conviene agl’imitatori di una natura infinitamente varia e doviziosa. L’osservanza cieca e servile delle regole e dei precetti, l’imitazione esangue e sofistica, in somma la schiavitù e l’ignavia del poeta, sono queste le cose che noi vogliamo? sono queste le cose che si vedono e s’ammirano in Dante nel Petrarca nell’Ariosto nel Tasso? dei quali, e massimamente dei tre primi, è stato detto mille volte che sono e similissimi agli antichi, e diversissimi. Che secolo è questo? a che si grida e si strepita? dove sono i nemici? chi loda più la Sofonisba del Trissino perch’è modellata secondo le regole di Aristotele, e l’esempio dei tragici greci? chi legge l’Avarchide dell’Alamanni perch’è un’immagine fedelissima dell’Iliade? Ma l’avere queste cose in dispregio, e il ricercare quelle che ho dette più sopra, non ce l’hanno insegnato i romantici. Non hanno insegnato i romantici al Parini che si aprisse una nuova strada, al Metastasio e all’Alfieri che non somigliassero il Rucellai lo Speroni il Giraldi il Gravina, al Monti che non imitasse Dante ma l’emulasse. Sappiano i nuovi filosofi che oramai lo scagliarsi contro i pedanti è verissima e formale pedanteria, che o non essendoci più pedanti, o se ci sono non potendo più nulla, e il tartassargli essendo vano, perchè ad essi non giova, agli altri non occorre, o le voci o le risa dei savi si volgeranno contro i successori de’ pedanti che sono i romantici, non per giovare a loro, che anche questo è impossibile, ma per rispetto degli altri, quantunque il bisogno sia poco; sappiano che la pedanteria non ha per natura d’essere quanto agli oggetti del suo culto o greca o latina o italiana sol tanto, ma può essere, come in fatti è presentemente, inglese tedesca europea mondiale; ch’è del pari pedantesco l’abborrire ciecamente uno scrittore, e l’amarlo ciecamente; ch’è molto più pazzo e intollerabile il dispregiare uno scrittore insigne e venerato da tutto il mondo, che non l’adorarlo; si vergognino d’esser pronti a lodare chiunque citi in materia di poesia lo Schlegel il Lessing la Staël, e di schernire chi cita Aristotele Orazio Quintiliano; avvertano che se altri ride e se essi ridono di amplificazione di prosopopea di metonimia di protasi di epitasi e cose tali, non si sa perchè non s’abbia da ridere di analogia di […] e di idee che armonizzano insieme, e d’altre inarmoniche, e d’altre che simpatizzano; e chi vuole andar dietro a contare i vocaboli o i modi o le cose pedantesche e ridicole de’ libri romantici? i quali non va messo in dubbio che non sia più ristretto assunto il confutare che il deridere. Ma lasciamo queste inezie. Quanto debba o possa concedere il poeta alle credenze e ai costumi presenti, è un soggetto che ha mestieri d’essere trattato da altri filosofi, o chiarito da altri poeti che non sono i romantici e non sono io. Però non ci pongo bocca. E queste pochissime cose sieno dette intorno allo studio degli antichi; la qual materia vastissima e rilevantissima, non nego, anzi confesso e affermo spontaneamente che, non a caso, ma a bello studio, perchè questo discorso non si trasmuti in un libro, lascio poco meno che intatta.

Ma i romantici e fra i romantici il Cavaliere s’appoggiano forte a quello che il Cavaliere chiama patetico, distinguendolo con ragione dal tristo e lugubre o sia dal malinconico proprio, quantunque esso patetico abbia ordinariamente o sempre un colore di malinconia; e volendo che consista nel profondo e nella vastità del sentimento, e descrivendolo in guisa che non ci vuol molto a comprendere com’egli in sostanza col nome di patetico vuol dinotare quello che comunemente con voce moderna se guardiamo al tempo, se all’uso, antichissima, (tanto s’è adoperata e s’adopera ai tempi nostri), si chiama sentimentale. Ora parendo al Cavaliere che in quella parte della poesia che costumiamo di significare con questa voce, regnino assolutamente i romantici, o perchè sia propria loro, o perchè in essa avanzino di gran lunga gli altri poeti, perciò non dubita di anteporre i poeti romantici ai nostri e segnatamente agli antichi. E che quella che ho detto, sia veramente una parte e non tutta nè quasi tutta la poesia, come pensano il Breme e i romantici con opinione maravigliosa in qualunque ha intelletto, incredibile in chi si chiama filosofo, lo dirò poi. Non ignoro dunque che in certo modo qui sta il nerbo delle forze nemiche; so che per giudizio d’alcuni, in questo differiscono capitalmente i poeti romantici e i nostri, che quelli mirano al cuore e questi alla fantasia; vedo la vastità e la scabrosità e se volete l’importanza della materia: tuttavia tra perchè quanto il peso è maggiore, tanto meno io mi ci debbo stimare adattato, e perchè credo che questo nerbo venga a essere sgagliardito notabilmente dalle cose dette di sopra, e perchè finora sono stato più diffuso che non era mio proponimento, non farò altro che sfiorare il soggetto, ed essendo stato nelle cose precedenti più lungo, in questa sarò più breve ch’io non voleva.

Primieramente, dicendo il Cavaliere che il patetico ha questo di proprio e di distintivo, che da una circostanza fisica qualunque egli prende occasione di più e più indentrarsi in tutta la profondità di quel sentimento morale, che armonizza meglio coll’originaria sensazione; e del resto essendo certo che il poeta è imitatore della natura, domando se le cose naturali sveglino in noi questi moti o altrimenti che li vogliamo chiamare. Diranno che infiniti e vivissimi. Ridomando se per forza loro, aiutata solamente dalle disposizioni e dalle qualità dell’animo di ciascheduno; e se anticamente quando per iscarsezza di quest’aiuto ch’io dico, non soleano fare gli effetti di cui parliamo, contuttociò fossero nè più nè meno tali quali sono, e avessero quella stessa forza che hanno presentemente. Risponderanno che sì. Ora che cosa faceano i poeti antichi? Imitavano la natura, e l’imitavano in modo ch’ella non pare già imitata ma trasportata nei versi loro, in modo che nessuno o quasi nessun altro poeta ha saputo poi ritrarla così al vivo, in modo che noi nel leggerli vediamo e sentiamo le cose che hanno imitate, in somma in quel modo che è conosciuto e ammirato e celebrato in tutta la terra. Quegli effetti dunque che fanno negli animi nostri le cose della natura quando sono reali, perchè non li dovranno fare quando sono imitate? massimamente nel modo che ho detto. Anzi è manifesto che le cose ordinarissimamente, e in ispecie quando sono comuni, fanno al pensiero e alla fantasia nostra molto più forza imitate che reali, perchè l’attenzione così al tutto come singolarmente alle parti della cosa, la quale non è più che tanta, e spesso è poca o nessuna quando questa si vede o si sente in maniera ordinaria, voglio dire nella realtà, è molta e gagliarda quando la cosa si vede o si sente in maniera straordinaria e maravigliosa, come nella imitazione. Aggiungete che lasciando stare quanta sia l’efficacia delle cose, l’uomo nel leggere i poeti è meglio disposto che non suole a sentirla qualunque ella è. Ora quella natura ch’essendo tale al presente qual era al tempo di Omero, fa in noi per forza sua quelle impressioni sentimentali che vediamo e proviamo, trasportata nei versi d’Omero e quindi aiutata dalla imitazione e da quella imitazione che non ha uguale, non ne farà? E nomino Omero più tosto che verun altro, parte perch’egli è quasi un’altra natura, tanto per la qualità come per la copia e la varietà delle cose, parte perchè s’ha per l’uno de’ poeti meno sentimentali che si leggano oggidì. Una notte serena e chiara e silenziosa, illuminata dalla luna, non è uno spettacolo sentimentale? Senza fallo. Ora leggete questa similitudine di Omero:

Sì come quando graziosi in cielo
Rifulgon gli astri intorno della luna,
E l’aere è senza vento, e si discopre
Ogni cima de’ monti ed ogni selva
Ed ogni torre; allor che su nell’alto
Tutto quanto l’immenso etra si schiude,
E vedesi ogni stella, e ne gioisce
Il pastor dentro all’alma.

Un veleggiamento notturno e tranquillo non lontano dalle rive, non è oltremodo sentimentale? Chi ne dubita? Ora considerate o Lettori, questi versi di Virgilio:

Adspirant aurae in noctem, nec candida cursus
Luna negat, splendet tremulo sub lumine pontus.
Proxima Circaeae raduntur litora terrae,
Dives inaccessos ubi Solis filia lucos
Adsiduo resonat cantu, tectisque superbis
Urit odoratam nocturna in lumina cedrum,
Arguto tenues percurrens pectine telas.
Hinc exaudiri gemitus iraeque leonum
Vincla recusantum et sera sub nocte rudentum.

Che ve ne pare? Quelle cose che sono sentimentali in natura, non sono parimente e forse da vantaggio in queste imitazioni? Come dunque diranno che i poeti antichi non sono sentimentali, quando e la natura è sentimentale, e questi imitano [e] per poco non contraffanno la natura?
Ma io so bene che questo per li romantici è un nulla: vogliono che il poeta a bella posta scelga, inventi, modelli, combini, disponga, per fare impressioni sentimentali, che ne’ suoi poemi non sol tanto le cose ma le maniere sieno sentimentali, che prepari e conformi gli animi de’ lettori espressamente ai moti sentimentali, che ce li svegli pensatamente e di sua mano, che in somma e il poeta sia sentimentale saputamente e volutamente, e non quasi per ventura come d’ordinario gli antichi, e ne’ poemi il colore sentimentale sia risoluto ed evidente e profondo. Ora io non dirò di questo sentimentale o patetico quelle cose che tutti sanno; che poco o niente se ne può ritrovare non solo appresso i barbari, ma appresso i nostri campagnuoli; ch’è tenuta per la più sensitiva del mondo la nazione francese, la quale oggidì è parimente la più corrotta del mondo e la più lontana dalla natura; che una sterminata quantità di persone tanto dell’un sesso come dell’altro, non è sensitiva se non perc’ha letto o legge romanzi e altre fole di questa lega, o viene udendo alla giornata sospiri e ciarle sentimentali; di maniera che la sensibilità in costoro non è altro che un mescuglio o una filza di rimembranze di storie di novelle di massime di sentenze di detti di frasi lette o sentite; e mancata o illanguidita la ricordanza, manca la sensibilità, o ne resta solamente qualche rimasuglio, in quanto altri di quando in quando è mosso da questo o da quell’oggetto o accidentuzzo a rammemorarsi delle cose che lesse o intese, e di quello che si stimò, sì come io ho veduto effettivamente, e non presumo che infiniti altri non abbiano del pari veduto o notato. Già se non ci avesse altra sensibilità che questa o simili a questa, non sarebbe oscuro se il sentimentale fosse materia conveniente d’altra poesia che di commedie o satire o scherzi di questa sorta. Ma quello ch’io dirò non si deve intendere di questa sensibilità impurissima e snaturatissima. Imperocchè io voglio parlare di quella intima e spontanea, modestissima anzi ritrosa, pura dolcissima sublimissima, soprumana e fanciullesca, madre di gran diletti e di grandi affanni, cara e dolorosa come l’amore, ineffabile inesplicabile, donata dalla natura a pochi, ne’ quali dove non sia viziata e corrotta, dove non sia malmenata e soppressata e pesta, tenerissima com’ella è, dove non sia soffocata e sterminata, dove in somma vinca pienamente i fierissimi e gagliardissimi nemici che la contrariano, al che riesce oh quanto di rado! e oltracciò non sia scompagnata da altre nobili e insigni qualità, produce cose che durano, certo son degne di durare nella memoria degli uomini. Questa sensibilità non confesso ma predico e grido ch’è fonte copiosissimo di materia non solo conveniente ma propria della poesia. E se concedo al Cavaliere, ch’ella sia meglio efficace in noi che non fu negli antichi, non per questo vengo a dire che non sia naturalissima e, salvo in quanto ad alcuni accidenti, primitiva, giacch’ella sì com’è in noi, così fu naturalmente negli antichi, ed è parimente adesso ne’ campagnuoli, ma impedita di mostrare gli effetti suoi; laonde qualora gl’impedimenti furono più pochi o più deboli, o ella più forte, si sviluppò e manifestossi, e alle volte diede frutti che il mondo per anche ammira ed esalta, come accadde in Omero medesimo; appresso al quale chi non sente come sia patetico quello scendere di Penelope dalle sue stanze solamente perch’ha udito il canto di Femio, a pregarlo acciocchè lasci quella canzone che racconta il ritorno de’ Greci da Troia, dicendo com’ella incessantemente l’affanna per la rimembranza e il desiderio del marito, famoso in Grecia ed in Argo; e le lagrime di Ulisse udendo a cantare i suoi casi, che volendole occultare, si cuopre la faccia, e così va piangendo sotto il lembo della veste finattanto ch’il cantore non fa pausa, e allora asciugandosi gli occhi, sempre che il canto ricomincia, si ricuopre e ripiange; e cento altre cose di questa fatta? Che bisogno c’è ch’io ricordi l’abboccamento e la separazione di Ettore dalla sposa, e il compianto di questa e di Ecuba e di Elena sopra il cadavere dell’eroe, mercè del quale, se mi è lecito far parola di me, non ho finito mai di legger l’Iliade, ch’io non abbia pianto insieme con quelle donne; e soprattutto il divino colloquio di Priamo e di Achille? il quale non mi maraviglio che sia conteso ad Omero da qualche filologo: mi maraviglierei, se non sapessi che i romantici non fanno caso d’incongruenze, che il Cavaliere tanto infervorato contro ai pedanti abbia dato orecchio a questa razza di filologi. Che dirò di Ossian, e dei costumi e delle opinioni così di lui come dei personaggi de’ suoi poemi, e della sua nazione a quei tempi? Ognuno vede senza ch’io parli, com’egli per essere e per parere al Breme oltremodo patetico sì nella situazione e sì nell’espressione, non ebbe mestieri di molto incivilimento. Ma il Petrarca, al quale il Breme non conosce poeta che nel genere sentimentale meriti di essere anteposto, quel miracolo d’ineffabile sensibilità, non visse in un tempo che non c’era nè psicologia nè analisi nè scienza altro che misera e tenebrosa, quando la stampa era ignota, ignoto il nuovo mondo, il commercio scambievole delle nazioni e delle province ristretto e scarso e difficile, l’industria degli uomini addormentata da più secoli in poi, le credenze peggio che puerili, i costumi aspri, quasi tutta l’Europa o barbara o poco meno? Certo la mente dell’uomo non si era per anche ripiegata sul cuore, non ne aveva notato i lamenti, non ascoltato la lunga istoria; l’animo umano non avea raccontato le migliaia cose alla immaginazione ritornando sulle diverse sue epoche e svolgendo le diverse sue Epopeie naturali, giudaiche, pagane, cristiane, selvagge, barbare, maomettane, cavalleresche, filosofiche quando quello stesso secolo che produsse in Dante il secondo Omero, produsse nel Petrarca il maraviglioso l’incomparabile il sovrano poeta sentimentale, chiamato così non dico dai nostri ma dai romantici. E già che vale cercare esempi, e riandare le età passate? Non vediamo in questo medesimo tempo che la sensibilità in altri è vivacissima, in altri più rimessa, in altri languida, in altri nessuna, secondochè piace alla natura? nè quello che la natura ha fatto si può cambiare? nè può meglio chi non è nato sensitivo divenir tale, con tutta la civiltà e la scienza presente, di quello che possa diventar poeta chi non è nato alla poesia? Non vediamo come la sensibilità si manifesti e diffonda, singolarmente efficace e pura e bella, ne’ giovanetti, e ordinarissimamente si vada poi ritirando e nascondendo, o magagnando e sfigurando, a proporzione che l’uomo col crescere in età perde la prima candidezza, e s’allontana dalla natura? Che più? Di quanto crediamo che sia tenuta all’incivilimento quella qualità umana che ogni volta ch’è schietta ed intensa, le leggi di questo incivilimento vogliono che, dimostrandosi, venga burlata come cosa da collegiali; e perchè, secondo l’assioma antichissimo di quella nazione che è capo e mente delle nazioni incivilite, il ridicolo è il maggior male che possa intervenire alle persone gentili, perciò vogliono che chiunque ha vera sensibilità guardi bene di non dimostrarla? tanto che si lasciano in pace e si lodano solamente quelli che quando si mostrano sensitivi, apparisce o vero è noto che o fingono, o la sensibilità negli animi loro ha poco fondo, o è guasta e scontraffatta. Dei quali costumi scellerati e omicidi che dirò io? Non caperebbero queste carte, non soffrirebbero gli occhi vostri, o Lettori, le esecrazioni ch’io spargerei, se dessi sfogo allo sdegno, contro questo iniquo soffocamento strage devastazione di cosa veneranda e santissima, conforto di queste miserie, cagione e premio di fatti magnanimi, seconda vita più cara della comune, e quantunque aspersa di molte lagrime, tuttavia meno dissimile a quella degl’Immortali. E qui mi avvedo com’è soverchio tutto questo discorso. Imperocchè chi può dubitare che non sia naturalissima quella qualità ch’è quasi divina? Chi può credere che una vena così larga di moti così vivi, che una qualità così pura così profonda così beata così maravigliosa arcana ineffabile, sia nata dall’esperienza e dagli studi umani? Forsechè non vediamo di che diversa natura sieno quelle derivate da questi principii, o vero da questi massimamente aiutate a sorgere e fomentate e corroborate? come esili come stentate come misere come secche come tutte in certo modo impure, come inette ad allagare e sommergere gli animi nostri, rispetto a questa? alla quale non rassomigliano altrimenti che gli arboscelli educati ne’ giardini dall’arte agli alberi cresciuti nelle campagne e ne’ monti dalla natura. In somma chi non vede in quelle la mano degli uomini, in questa la mano di Dio? Chi ha mai provato veruno effetto di sensibilità pura e bene interna, che non sappia come questi effetti sono spontanei, come sgorgano mollemente, come non da scaturigine artifiziale ma ingenita? Non sono di questa specie le fatture nostre, nè l’incivilimento è legno da tali frutti: non facciamo a noi tant’onore nè tanto aggravio; non ci arroghiamo di aver potuto quello che non potè nè potrà mai nessuno fuori che Dio, non ci abbassiamo oltre al dovere, giudicando terreno in noi quello ch’è celeste.

Ora non negando, conforme ho detto, che la sensibilità, comunque naturalissima, tuttavia dimostri meglio oggidì gli effetti suoi che non fece anticamente, dico che nell’esprimere questi medesimi effetti, e gli antichi furono in quanto alla maniera, divini come nelle altre parti della poesia, qualora n’espressero alcuno, e i moderni non s’hanno a discostare un capello dalla maniera antica, e coloro che se ne scostano, vale a dire e quelli che portano il nome di romantici, e quelli che per rispetto alle loro o prose o versi sentimentali, sono in certa guisa del bel numero, contuttoch’il nome non lo portino, e anche l’odino e lo rifiutino, vanno errati di grandissima lunga, e offendono scelleratamente, non isperino ch’io dica nè Aristotele nè Orazio, dico la natura. Imperocchè non basta ch’il poeta imiti essa natura, ma si ricerca eziandio che la imiti con naturalezza; o più tosto non imita veramente la natura chi non la imita con naturalezza. Anche il Marini imitò la natura, anche i seguaci del Marini, anche i più barbari poetastri del seicento; e per proporre un esempio determinato e piano, imitò la natura Ovidio; chi ne dubita? e le imitazioni sue paiono quadri, paiono cose vive e vere. Ma in che modo la imitò? Mostrando prima una parte e poi un’altra e dopo un’altra, disegnando colorando ritoccando, lasciando vedere molto agevolmente e chiaramente com’egli facea colle parole quella cosa difficile e non ordinaria nè propria di esse, ch’è il dipingere, manifestando l’arte e la diligenza e il proposito, che scoperto, fa tanto guasto; brevemente imitò la natura con poca naturalezza, parte per quel tristissimo vizio della intemperanza, parte perchè non seppe far molto con poco, nè sarebbe evidente se non fosse lungo e minuto. Con questa non efficacia ma pertinacia finalmente viene a capo di farci vedere e sentire e toccare, e forse talvolta meglio che non fanno Omero e Virgilio e Dante. Contuttociò qual uomo savio antepone Ovidio a questi poeti? anzi chi non lo pospone di lungo tratto? Chi non lo pospone a Dante? il quale è giusto il contrario d’Ovidio, in quanto con due pennellate vi fa una figura spiccatissima, così franco e bellamente trascurato che appena pare che si serva delle parole ad altro che a raccontare o a simili usi ordinari, mentrechè dipinge superbamente, e il suo poema è pieno d’immagini vivacissime, ma figurate con quella naturalezza della quale Ovidio scarseggiando, sazia in poco d’ora, e non ostante la molta evidenza, non diletta più che tanto, perchè non è bene imitato quello ch’è imitato con poca naturalezza, e l’affettazione disgusta, e la maraviglia è molto minore. E similmente si riprendono quelle tante pitture per lo più di mani oltramontane e oltramarine, dove la imitazione del vero è, se così vogliamo dire, molto acconcia e sottile, ma trasparisce la cura e l’artifizio, nè i tocchi sono così risoluti e sicuri e in apparenza negletti come dovrebbero, di modo che il vero non è imitato veramente, nè la natura naturalmente. Venendo dunque da questi esempi al proposito mio, dico che gli effetti della sensibilità, come gl’imitavano gli antichi naturalmente, così gl’imitano i romantici e i pari loro snaturatissimamente. Imitavano gli antichi non altrimenti queste che le altre cose naturali, con una divina sprezzatura, ingenuamente, schiettamente e, possiamo dire, innocentemente, scrivendo non come chi si contempla e rivolge e tasta e fruga e spreme e penetra il cuore, ma come chi riceve il dettato di esso cuore, e così lo pone in carta senza molto o punto considerarlo; di maniera che ne’ versi loro o non parlava o non parea che parlasse l’uomo perito delle qualità e degli affetti e delle vicende comunque oscure e segrete dell’animo nostro, non lo scienziato non il filosofo non il poeta, ma il cuore del poeta, non il conoscitore della sensibilità, ma la sensibilità in persona; e quindi si mostravano come inconsapevoli d’essere sensitivi e di parlare da sensitivi, e il sentimentale era appresso loro qual è il verace e puro sentimentale, spontaneo modesto verecondo semplice ignaro di se medesimo: e in questo modo gli antichi imitavano gli effetti della sensibilità con naturalezza. Che dirò dei romantici e del gran nuvolo di scrittori sentimentali, ornamento e gloria de’ tempi nostri? Che altro occorre dire se non che fanno tutto l’opposto delle cose specificate qui sopra? laonde appresso loro parla instancabilmente il poeta, parla il filosofo, parla il conoscitore profondo e sottile dell’animo umano, parla l’uomo che sa o crede per certo d’essere sensitivo, è manifesto il proposito d’apparir tale, manifesto il proposito di descrivere, manifesto il congegnamento studiato di cose formanti il composto sentimentale, e il prospetto e la situazione romantica, e che so io, manifesta la scienza, manifestissima l’arte per cagione ch’è pochissima: e in questo modo che naturalezza può essere in quelle imitazioni dove il patetico non ha nessuna sembianza di casuale nè di negletto nè di spontaneo, ma è nudo e palese l’intendimento risoluto dello scrittore, di fare un libro o una novella o una canzone o un passo sentimentale: e ometto come il patetico sia sparso e gittato e versato per tutto, entri o non entri, e fatti sensitivi, sto per dire, fino i cani o cose simili, con difetto non solo di naturalezza nella maniera, ma di convenienza nelle cose, e di giudizio e di buon senno nello scrittore. Non parlo già sol tanto di quegli scritti che per la intollerabile affettazione soprastando agli altri, sono riprovati e disprezzati universalmente; parlo anche, da pochissimi in fuori, di tutti quelli che il gusto fracido e sciagurato di una infinità di gente ha per isquisiti e preziosissimi; parlo di tutti quelli dove il sentimentale è manifestamente voluto, e molto bene consapevole e intelligente di se stesso, e amante della luce e vanaglorioso e sfacciato; le quali proprietà quanto sieno lontane e opposte a quelle della vera e incorrotta sensibilità, lo dica chiunque l’ha provata pure un istante. Non che sia sfacciata, ma è timida e poco meno che vergognosa; tanto non ama la luce, che quasi l’abborre, e d’ordinario la fugge, e cerca le tenebre, e in queste si diletta: nè se l’ambizione umana e altre qualità che non hanno che fare con lei, la scrutinano e se ne pregiano e la mettono in luce, per questo si deve attribuire alla sensibilità quello ch’è proprio di tutt’altro: ma se il poeta la vuol dipingere e farla parlare, contuttoch’egli la conosca ben dentro, contuttochè se ne stimi, e sia vago di farne mostra, non la dee perciò dipingere nè indurre a favellare in modo come se queste qualità del poeta fossero sue: nè certamente parla appresso i romantici la sensibilità vera, e non istravolta nè sformata e sconciata da forze estranie, o vogliamo dire contaminata e corrotta. La quale essendo di quella natura che ho detto, possiamo vedere non so s’io dica senza pianto o senza riso o senza sdegno, scialacquarsi il sentimentale così disperatamente come s’usa ai tempi nostri, gittarsi a manate, vendersi a staia; persone e libri innumerevoli far professione aperta di sensibilità; ridondare le botteghe di Lettere sentimentali, e Drammi sentimentali, e Romanzi sentimentali e Biblioteche sentimentali intitolate così, risplendere questi titoli nelle piazze; tanta pudicizia strascinata a civettare sulla stessa fronte de’ libri; fatta verissima baldracca quella celeste e divina vergine, bellezza degli animi che l’albergano; e queste cose lodate e celebrate, non dico dalla feccia degli uomini, ma da’ savi e da’ sapienti, e quando svergognano il genere umano, chiamate gloria dell’età nostra; e perchè in italia tanta sfacciataggine ancora, mercè di Dio, non è volgare, e i libri sentimentali per professione, son pochi, e questi pochi non sono suoi (no, italiani, ma derivati a dirittura e più spesso attinti dalle paludi verminose degli stranieri: non gli adduciamo vigliaccamente e stoltamente in difesa nostra, ma doniamogli, o più veramente rendiamogli a coloro che ci accusano: sieno stranieri essi, e con essi quegli scrittori ai quali, essendo per natura italiani, parve meglio di mostrarsi nello scrivere figliuoli d’altra terra) l’italia per questo chiamata infingarda e ignorante e rozza e da poco, disprezzata villaneggiata schernita sputacchiata calpestata? Ed è chiaro che i romantici e l’altra turba sentimentale, non solamente coll’imitare senza naturalezza, ma scientemente e studiosamente e di proposito, imita con grande amore quella sensibilità che comunque forte e profonda, è sfigurata e snaturata dall’ambizione e dalla scienza e dal troppo incivilimento, o vero quelle altre da commedia che dicevamo alquanto sopra. Ora seguiti pure innanzi da valorosa, e beatifichi il mondo, e a se medesima acquisti gloria incomparabile e, se tutte le età future somiglieranno alla presente, immortale: io non ho più cuore di menarmi per bocca questa materia schifosissima che solamente a pensarne mi fa stomacare.

Frattanto vadano e insuperbiscano della scienza dell’animo umano la quale col tempo è dovuta prosperare, e vantandosi di questa, disprezzino gli antichi, e si credano da molto più di loro nella poesia. Non ignoro ch’essi antichi per conto di questa scienza sottostanno ai moderni, meno certamente, che altri non va spacciando; imperocchè appresso loro, sì come per esempio nei tragici greci, riscontriamo a ogni poco manifestissimi argomenti di cognizione così squisita e sottile da farci maravigliare, e quasi talvolta credere che in cambio di sottostare ci soprastieno: contuttociò prevalgono indubitatamente i moderni. Ma che giova che per rispetto alla cognizione di noi medesimi siamo più ricchi di quello che fossero i poeti antichi, se di queste ricchezze maggiori non sappiamo far uso che si possa pur mettere in paragone con quello che faceano gli antichi di ricchezze minori? E tuttavia, se questo difetto non venisse naturalmente insieme colla copia delle ricchezze, mi rallegrerei coll’età nostra, e non crederei troppo difficile che quando che sia dovesse sorgere qualche poeta il quale dipingendo la natura umana, trapassasse notabilmente gli antichi. Ora appunto la molta scienza ci toglie la naturalezza e l’imitare non da filosofi ma da poeti, come faceano gli antichi, dove noi dimostriamo da per tutto il sapere, ch’essendo troppo, è difficilissimo a ricoprirlo, e scriviamo trattati in versi, nei quali non parlano le cose ma noi, non la natura ma la scienza; e così la finezza e squisitezza delle pitture, e le sentenze frequentissime e acutissime e recondite, di rado nascoste e contenute e nascenti da se quantunque non espresse, ma per lo più rilevate e scolpite, e brevemente ogni cosa manifesta la decrepitezza del mondo, la quale com’è orribile a vedere nella poesia, così vogliono i romantici e i pari loro, acciò colla maraviglia del rimanente si spenga tra gli uomini anche quella delle opinioni portentose, che s’imprima altamente nelle poesie moderne come carattere e distintivo, in maniera che apparisca e dia negli occhi a prima giunta. Chi nega che poetando non ci dobbiamo giovare della cognizione di noi medesimi, nella quale siamo tanto avanti? Gioviamocene pure, e poichè ci conosciamo bene, dipingiamoci al vivo; ma per Dio non mostriamo di conoscerci, se non vogliamo ammazzare la poesia. Lo schivare il qual male compiutamente, è difficilissimo, non impossibile: ben ci bisogna grandissimo studio di quei poeti che di scienza più scarsa fecero quell’uso, senza del quale è inutile ai poeti moderni la scienza più larga.

          E per esempio di quella celeste naturalezza colla quale ho detto che gli antichi esprimevano il patetico, può veramente bastare il solo Petrarca ch’io metto qui fra gli antichi, nè senza ragione, perch’è loro uguale, oltrechè fu l’uno dei primi poeti nel mondo appresso al gran silenzio dell’età media; e tuttavia, potendo anche addurre altri esempi innumerabili, mi piace di portare questi versi di Mosco presi dal Canto funebre in morte di Bione bifolco amoroso:

Ahi ahi, quando le malve o l’appio verde
O il crespo aneto negli orti perio,
Si ravviva un altr’anno e rifiorisce.
Ma noi que’ grandi e forti uomini o saggi,
Come prima siam morti, in cava fossa
Lungo infinito ineccitabil sonno
Dormiam, dov’altri mai voce non ode:
E tu starai sotterra ascoso e muto,
Quando parve alle ninfe eterno canto
Dare alla rana: a cui però non porto
Invidia, che canzon dolce non canta.

Altro splendidissimo esempio di quella immortale naturalezza è Virgilio, nel qual poeta fu per certo una sensibilità così viva e bella quanto presentemente in pochissimi. De’ cui molti e divini luoghi sentimentali non posso fare ch’io non ricordi la favola d’Orfeo ch’è nel fine delle Georgiche, e di questa non reciti quella similitudine:

Qualis populea maerens Philomela sub umbra
Amissos queritur foetus, quos durus arator
Observans, nido implumes detraxit: at illa
Flet noctem, ramoque sedens miserabile carmen
Integrat, et moestis late loca questibus implet.

Che è? Non dubito che a moltissimi il sentimentale di Virgilio e del Petrarca e degli altri tali non paia appresso a poco tutt’una cosa con quello per lo meno di una gran parte dei moderni. Anzi vedo che non pochi di costoro mentrechè lodano mentrech’esaltano mentrechè scrivono cose delle quali è da credere che i posteri qualche volta arrossiranno e stomacheranno, ardiscono di rammentare quei poeti soprumani in modo come se fossero della schiatta loro, e partecipi della stessa corona, e familiari e compagni, quando però non li fanno inferiori, come sovente, alle ignominie del tempo nostro e delle nazioni che le producono e le ammirano. Questi tali e chiunque non discerne a prima vista la differenza che corre fra il sentimentale degli antichi e nominatamente dei due che si son detti e quello dei moderni, forsech’io debbo credere che possano arrivare a discernerla mai? temere che non mi dieno per vinto e non mi deridano e non mi disprezzino? e non più tosto desiderarlo? Desidero, o Lettori, focosamente, e domando al cielo, non dico il biasimo nè le ingiurie nè l’odio che a molti suol essere meno gravoso, ma il disprezzo di costoro, sapendo che se bene questo può cadere alle volte in persone da poco, certamente non è da molto colui nel quale egli non cade.

Giacomo Leopardi

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