Giovanni Pascoli – Una sagra


Giovanni Pascoli
Una sagra

1914

Nei discorsi messinesi — in cui c’è l’esperienza del problema meridionale, dell’emigrazione etc. — Pascoli vede un’Italia «divisa ed errante e faticante e schiava». In Una sagra (1900) si parla di «socialismo patriottico», dell’«Italia pensante» che «ha tradito la sua sorella povera: l’Italia lavorante», della «riconquista dell’Italia nomade». Tradimenti degli intellettuali ma, soprattutto, sfruttamento del lavoro italiano da parte delle nazioni ricche: la lotta fra le nazioni sostituisce quella fra le classi poiché Pascoli vede un’Italia interamente proletaria (sia borghesi sia contadini).

Note
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Pensieri e discorsi di Giovanni Pascoli, 1895-1906, Bologna, Zanichelli, 1914. Fonte: Internet Archive.

Link esterni 
Biografia di Giovanni Pascoli – Da Treccani Enciclopedia Italiana (1935)
Il «fanciullino» e la novità lirica di Giovanni Pascoli – Da storiadellaletteratura.it
Fondazione Giovanni Pascoli

Giovanni Pascoli. Una sagra

Monumento a Giovanni Pascoli. Casa-museo di San Mauro (FC)

Giovanni Pascoli
Una sagra

In mezzo a una settimana di lotta e di passione [La settimana elettorale del giugno 1900. Ndr] cominciano, o giovani dell’Ateneo Messinese, le vostre feste. Tra il fragore della battaglia, che si combatte per tutta l’Italia, nessuno forse bada al vostro inno sommesso, che s’inalza in disparte. Forse v’è a chi spiace questo remoto scampanio che festeggia una sagra mentre intorno imperversa la mischia. È una chiesa, per così dire, che non sembra accorgersi d’essere in un grande campo di battaglia, e manda, tra le grida e i gemiti e gli scoppi e gli squilli, il suono della sua modesta e segreta esultanza. O forse ad alcuno tocca il cuore, quel suono, e riconduce il suo spirito convulso e irritato alle placide memorie della prima giovinezza. Oh! anni senz’odio! oh! ingenui fremiti di guerra contro nemici che non si vedevano e non si credevano e non si volevano! oh! sogni di vittorie, in cui fosse il vincitore, sì, cinto di fiori e di luce, e il vinto non fosse! Ché questa del giovane è la divina, o diciamo, umana contradizione: dominare, ma che nessuno sia servo! godere, ma che nessuno pianga per la sua gioia! A qualcuno dunque può giungere con un senso di dispetto la vostra appartata esultanza; a qualcuno, forse, con una punta di rammarico. A me fa l’effetto… perdonate l’umile paragone… del lume che brilla, in una sera di temporale, all’impannata d’una casipola di pescatori. Scrosciano i tuoni, mugge il vento, infuria il mare: in quel tugurio brilla quel lume. Per il temporale non si pesca. E i pescatori racconciano là dentro, conversando tranquillamente tra le convulsioni del cielo e del mare, le reti per la pesca del domani.

Chè del domani, o giovani, io voglio parlarvi. Della nostra Università nobili ingegni hanno scritta la storia e la cronaca. Voi la sapete, questa cronaca e storia, che non è senza glorie, ma conta certo più traversie che glorie. Una bolla papale fondava lo studio nel 10 novembre 1548, un bando nel 29 aprile del 1550 (tre secoli e mezzo fa) ne annunziava l’apertura.
Così fu accesa la fiaccola che languì sulle prime, combattuta da venti contrari, e poi divampò risoluta nel secolo decimosettimo, e parve spenta nell’ultimo quarto di quel secolo, e a metà del secolo seguente diede qualche guizzo, mostrando di non essere ancora spenta del tutto, e ricominciava nel 1829 una nuova vita, e il 19 marzo 1885 brillava come non mai, preparandosi a gettar la luce nel remoto avvenire. Tra ottantacinque anni, o giovani, pensate (io non voglio essere profeta malauguroso), qualcuno tra voi berrà ancora il dolce lume: lo berrà in un calice tremulo, ne verserà molto, ma qualche stilla pur ne berrà. Questo, forse unico, avanzato alla commemorazione nostra secolare, questo vecchione, questo patriarca, il quale ora da non so qual angolo sgrana su me i suoi occhioni di fanciullo destato all’improvviso, ebbene, assisterà, questo decrepito, tremolante nel capo e nel viso di piume candidissime, a quello che allora si chiamerà il primo centenario della vera fondazione dell’Ateneo.

L’Ateneo, o giovani, è ancor più giovane di voi! Quel patriarca udrà in quella lontana celebrazione, udrà appena con l’orecchio illanguidito, pronunziare qualcuno de’ nostri nomi; e, oda o non oda, sembrerà con lo scrollio continuo del capo antichissimo assentire a tutti quei nomi, con un cenno benevolo di ricordo e riconoscimento e forse lode o forse pietà. E il cenno così benevolo lo farà certo per il nome del vindice, per il nome di Giuseppe Oliva (allora non si dirà più commendatore), di Giuseppe Oliva che propugnò e ottenne quel mirabile concorso del Comune, della Provincia e della Camera di Commercio, per il quale il nostro Ateneo nacque piuttosto che rinacque. Ché l’Ateneo sorse, o risorse, (non dimentichiamo!) da un impeto d’amore e d’orgoglio e di fede cittadina. E noi, lettori e studenti, non dobbiamo dimenticarlo mai; e giustificare quell’impeto e assecondare quell’orgoglio e rispondere a quella fede, sì che, in quel primo centenario della risurrezione, quel bianchissimo vecchio, che ora freme tra voi del brivido della vita nuova, senta passare sul capo, già sacro alla morte, il soffio delle cose immortali.
Pensiamo all’avvenire. Il nocciolo d’olivo è deposto nella terra. Pensiamo al molle liquore di pace che si spremerà dall’ albero, quando anche esso non debba che governare la nostra lampada sepolcrale. Secondo l’ingiuria che spesso mi si fa, di chiamare “poeta„ me lettore, che torna a dir buon musico un condottiere d’esercito, secondo questa ingiuria, che io tollero in pace, perché ve n’è di peggiori; per esempio, quella di chiamarlo carnefice, un condottiero, e pedante, un lettore; secondo quella placida ingiuria, io sarei dunque, o giovani, molto idoneo a quest’uffizio di indovino. In verità il poeta è o dev’essere l’uomo che non vive se non nel futuro, il cui mietere è il seminare stesso, e che gode il rezzo degli alberi che pianta e che non adombreranno se non la sua tomba. Oltre tomba è la sua vita e la sua ricchezza e la sua gioia, se il poeta è poeta, e non modista, non cercatore di plausi e lusingatore di passioni; s’egli è la voce nuova che cerca i cuori dove echeggiare; i quali non sempre o non mai trova nel suo tempo; e non è l’eco, moltiplicata e compiacente e artifiziosa delle grida che già sono nelle bocche, e che sono le solite, e non sono sempre le buone e le vere. Io sarei dunque, se fossi un vero poeta, idoneo all’uffizio di esploratore e narratore dell’avvenire. Proviamoci, a ogni modo.

Ecco: prima di tutto, e qui la poesia non c’entra, il presente mi spaura. In questi giorni due Stati europei in Africa danno gli ultimi tratti, e sono per spirare dopo una lunga guerra. Chi li uccide? Chi usa sino all’ultime conseguenze il diritto del vincitore? Il popolo sino ad ora vindice di tutte le libertà, assertore di tutti i diritti. Pure, si dirà, al vinto rimarrà la sua autonomia amministrativa, rimarranno le sue tradizioni nazionali, rimarrà quel vero fuoco di Vesta, che è la lingua. Il popolo inglese, si dirà, non conquista all’usanza d’un altro, non dirò popolo, ma impero, che ai popoli che, non dirò vince, ma soggioga e opprime e calpesta, confisca e la lingua e la religione e il nome. Giova sperarlo. Ma un fatto che sembra piccolo e che s’avvera vicino a noi e a spese nostre, limita la mia e la vostra speranza. Eccolo. Nell’isola di Malta tra quindici anni (e magari si promette di prorogare questa data) la lingua ufficiale sarà quella del popolo (ma è bell’ora di dire impero anche qui), quella dell’impero che occupa l’isola.

M’ingannerò; ma s’è aperta nel mondo una lotta, oltre le tante altre che già ci sono, una lotta presso cui le già antiche degli imperi orientali, e poi di Roma latina e poi di Roma, per così dire, germanica, sono un nulla. Si stanno edificando delle Ninivi e Babilonie e delle Cartagini e Rome, mostruose, enormi, infinite. Esse conquisteranno, assoggetteranno, cancelleranno, annulleranno, intorno a sè, tutto, e poi si getteranno le une contro le altre con la gravitazione di meteore fuorviate. Che sarà di noi? Perché ciò a me sembra fatale e necessario; come, in un altro ordine di cose, altro fato e altra necessità mi apparisce. Questa. Le ricchezze gravitano a trovarsi insieme nel medesimo tesoro. Il campicello è assorbito dal campo, il campo dalla tenuta, la tenuta dal latifondo, e via via. Intere nazioni, sto per dire, sono espropriate della loro proprietà fondiaria. Ahimè chi possiede i campi della terra Saturnia madre di biade e madre d’eroi? Li possiede il credito ipotecario. E questo chi è? È generalmente anonimo, ed è un creditore collettivo. Ma poco a poco, questa collettività si riduce e semplifica; i più forti ingoiano i più deboli: verrà tempo, in cui si potrà dinotare per nome l’unico possessore di tutto il mondo: un tiranno al cui servizio sia un genere umano di schiavi.

Verrà tempo… Verrà davvero? Oh! non è possibile! Eppure sembra fatale e necessario, come la progressione geometrica. Ma sarebbe inconcepibile! E sì. E perciò il genere umano, quello almeno che intravede se non prevede, rilutta disperatamente, come chi precipita per un pendio ancor dolce verso un abisso infinito, e si aggrappa a ogni cespuglio che incontra.
Il genere umano precipita verso l’abisso della monarchia unica e del possessore unico. Si presenta ai nostri occhi l’orribile visione della galera terracquea in cui tutti gli uomini lavoreranno meccanicamente, parlando, o a dir meglio tacendo, in una sola lingua, ubbidendo al cenno invisibile del solo despota che impera nella unica Babilonia. Ma il genere umano rilutta, in ogni modo, con ogni sforzo. Lo sforzo più grande è di coloro che dicono: Se le ricchezze tendono ad accentrarsi, lasciamole accentrare e mettiamole a disposizione di tutti. A parer mio, il loro programma è ben semplice. Il mondo (o diremo, il capitale) tende, pende, scende a essere d’uno? Sia di niuno, cioè di tutti. Bene. Ma è possibile scindere questo problema dall’altro? L’un problema è evitare che le ricchezze si accentrino in pochi sin che vadano a finire in un solo Moloch. L’altro è evitare che i singoli popoli siano assorbiti dai più forti sin che vadano a finire in un solo impero. E lascio qui di trattenermi in questo campo estraneo ai miei studii, se non alle mie angoscie, per dire e dire alto, che logicamente quelli che repugnano a che la ricchezza sia di pochi, devono repugnare a che i popoli più piccoli e più deboli siano preda dei più grandi e dei più forti; e perciò, come nella lotta economica, sostengono gli operai contro i padroni, e i meno ricchi de’ padroni contro i più ricchi, così nella lotta politica devono sostenere le nazioni contro gl’imperi, e le idealità e tradizioni singole e particolari contro le assorbenti ambizioni che già si mostrano come le prime nuvole di un uragano, che livella, perché distrugge. In due parole semplici, e facilmente intelligibili a tutti, io, per non concludere con un enigma, dico che io auguro come uomo all’umanità, e come italiano e come tale che, secondo il suo dovere di insegnante, ha compito la catarsi d’ogni passione politica, all’Italia, l’avvento del “socialismo patriottico„; d’una religione, dico io (vecchia o nuova? In queste cose l’umanità fa da sé!), d’una religione che si annunzi più e meglio con una lunga serie di fatti, di sacrifizi e di martirii intimi, che con una fila, più o meno lunga, d’articoli di fede o di scienza, d’una religione che abbia la sua ara massima per tutta l’umanità, e le are minori per tutti i popoli, e le are anche più piccole e forse più dilette, per ogni casa: are in cui non arda che un fuoco: fuoco inconsumabile acceso da un amor solo.
In quest’attesa e speranza, qual destino sarà delle Università nell’avvenire? della nostra in ispecie?

È fuor di dubbio ch’elle saranno autonome, o non saranno. L’Università che emana dallo Stato, e dallo Stato è retta e diretta, è un meccanismo dispendioso per fare avvocati e medici e professori uniformi, come spilli e aghi, non è il grande e libero laboratorio del pensiero. La autonomia non consisterà nella sola facoltà di amministrare da sè le sue scarse rendite; ma si estenderà a ciò che tocca più da vicino l’essenza stessa dell’Università: alla nomina, per esempio, degl’insegnanti. Sarà la città e la regione, saranno gli studenti stessi, che nell’interesse loro faranno la scelta migliore. E la faranno perché di qui innanzi “non si farà di nòccioli„; non basterà, voglio dire, agli studenti avere strappata una laurea a professori indulgenti e compiacenti: occorrerà che da maestri seri e severi derivino un’arte che valga alla vita e al decoro e all’onore.

Non saranno giudici dei meriti d’uno scienziato quelli che professano la stessa scienza. Vi sembra forse assurda questa previsione? vi sembra strano il dire che ciò sarà bene? Rispondo interrogando: Vi sembra così giusto e così naturale che il vasaio giudichi del vasaio e il fabbro del fabbro e il poeta del poeta? Sin dai tempi remotissimi si riconobbe questo fatto di debolezza umana :

Figulo a figulo è contro, col fabbro ha ruggine il fabbro,
L’ ha col pitocco il pitocco, ce l’ha con l’aedo l’aedo.

Sono debolezze umane, ripeto; e tutti, se vogliono un consiglio sul medico da chiamare, per un esempio, sentono che è meglio che consultino un malato che sia tornato a salute, di quello che un altro medico. Noi siamo abbastanza equanimi quando si tratta di portare avanti e magari di glorificare quelli che sappiamo o crediamo nostri inferiori; ma quando si tratta di pari? quando si tratta di superiori? Eh! via: allora non ci sentiamo provvisti di tanta virtù, e ci sentiamo propensi con tutto il cuore, tanto da essere ingannati sulla vera natura del nostro sentimento, ci sentiamo propensi per il discreto ingegno e per l’attività discreta. Ma si dirà: Codesto caso, di giudici che debbano giudicare ingegni superiori ad essi, è raro… Oh! io vi dico che, sia o non sia raro, raro non deve essere. Sempre, in materia di scienza, deve darsi questo caso! Noi vediamo che il mondo progredisce. E il mondo non sarebbe progredito, se a mano a mano gli scolari non fossero stati migliori dei maestri. E non progredirà più, se questo fatto non continuerà. Così è. Noi insegnanti, noi scienziati e noi scrittori, nello stato presente delle cose, dobbiamo al progresso dell’umanità due contributi: la nostra attività e studio e ingegno: uno; la virtù di ravvisare e segnalare i migliori di noi, ai quali consegnare la fiaccola accesa: e due. Non è troppo pretendere? Basti l’attività e studio e ingegno; quanto a quella virtù, risparmiateci. I migliori di noi, ravvisateli e sceglieteli da voi. Ché in fin dei conti, a voi sarà più facile che a noi anche il ravvisarli. Noi abbiamo per lo più la catalessi dello scienziato o dell’artista: malattia originata dal guardare, fisso e sempre, un punto solo… E poi, da codesto sistema di concorsi, possono venire altri guai. Già di per sé la contenzione, la lotta, la guerra, che in tal modo si suscita ed eccita, è un guaio tanto maggiore in quanto ella è, così, proclamata necessaria in fatto e diritto. E no: nessuna guerra, nemmeno questa così piccina, è necessaria, se non perché necessaria la gridiamo noi. Dacché il genere umano s’é accorto d’essere trascinato da questa forza, che è la lotta per l’esistenza, essa lotta ha cessato d’essere ineluttabile. Può, sì, uno che è portato via da una forte corrente, esserne perduto, anche dopo che se n’è accorto, d’esserne portato e perduto; ma ella non è veramente fatale se non per chi non se n’accorge né prima né dopo né mai. A ogni modo, o voi dalla riva, siete o crudeli o stolti quando gridate ai notatori: Non giova volere e contrastare: lasciatevi andare! Il fatto è che il genere umano fa da secoli e secoli (da assai prima che quella legge fosse bandita e chiarita) sforzi sovrumani contro questo fato ch’esso pretende sia bestiale e non umano. Col promuovere e incoraggiare siffatte perpetue risse tra gli uomini di studio e di pace, lo Stato gode a provarsi di far arretrare verso la bestialità quelli che sono più risolutamente avviati verso l’umanità.

Ma via: si attenui col nome d’emulazione codesta gara; si affermi ch’essa è per una ghirlanda di gattice, così poca cosa e grande onore: io temo che il sistema dei concorsi porti ad annullare nel mondo della scienza quella virtù che è sommamente necessaria, se non alla salvazione eterna degli scienziati, alla vita e alla prosperità della scienza: la virtù della modestia. Sto per dire che in un concorso a tali alti uffizi, bisognerebbe nominare chi non ha concorso; chi s’è tratto in disparte invece di mettersi avanti e dire: Io mi sobbarco; chi si lascia pregare e ripregare per mostrare ai giudici il poco o punto che ha fatto e che fa meravigliare altrui e arrossir lui.

Ma vi pare? Un lettore d’Università a qualunque facoltà appartenga, deve essere già filosofo: deve, cioè, già coordinare i suoi particolari particolarissimi studi a un tutto organico. Chi esamina con la lente la graffiatura d’un codice o scruta al microscopio l’intestino d’ una zanzara, deve già sapere in qual celletta della grande arnia esso, come ape, ha da deporre il suo granellino di polline. Anzi no; l’ape sa che a questa o quella celletta il suo granellino è buono. Non è simile all’ape lo scienziato, e nemmeno allo scalpellino, che picchia, sì, in disparte dagli altri sur una pietra che deve essere parte del comune edifizio, ma ha da altri la misura e la forma. Lo scienziato è come un lavoratore alla grande torre, che Nembrod lasciò a mezzo, e che ora l’umanità continua a edificare verso, non contro, il cielo: egli non può intendersela, sapete, con gli altri lavoratori: perché il suo lavoro sia utile, bisogna che, prima di cominciare, vada a veder da sè l’opera tutta di tanti secoli e di tante mani e ingegni. La torre di Babele?! direte voi. Sì; torre di Babele e di confusione, se ci contentiamo di parole e se ci affidiamo ai discorsi, invece di andare a riconoscere de visu il pensiero, il quale, non si vede se non dall’opera stessa, al punto in cui ora ella è.

Ora si rischia, coi nostri concorsi, di far perdere ai giovani la conoscenza di tanta difficoltà e importanza d’uffizio, e la coscienza della loro inferiorità al sublime compito. Si daranno essi a produrre, prima d’aver cominciato o, almeno, prima d’aver finito di studiare. Non faranno più studi, ma saggi, non più libri, ma titoli, non più opere, ma contributi: soltanto saggi, titoli, contributi. O api operaie, senz’arnia! O scalpellini rumorosi, senza fabbrica! E, guai, se sia per venir tempo in cui sembri più idoneo a insegnare e propagare una scienza, chi vuol prevenirla e preoccuparla, che chi intende farsene prima servo e poi padrone! Guai, se noi lasceremo che i giovani s’innamorino prima della cattedra che dell’arte! Guai! Guai! Per ora, non c’è che dire, tutto è andato bene; ma non bisogna, credo, conservare un istituto che può finir male. A ogni modo il sistema non sarà abbandonato per gl’inconvenienti che abbia presentati esso (non se ne può, credo raccontare alcuno), quanto per i vantaggi che dà a sperare l’altro: sistema d’origine. Qui, come in tante altre cose, sembra fatale il ritorno alle sorgenti.

Si tornerà dunque al sistema di origine. Quale e quanto ne sarà il benefizio! Accennerò il principale.

Gl’insegnanti non voleranno, come ora è necessità per loro, a guisa di spole, su e giù per l’Italia, ma si fermeranno nel luogo dove tanto onore fu lor fatto, e ivi formeranno la loro scuola e stabiliranno una tradizione. Di più si creerà un magnifico collegio di dottori, stretti alla studentesca e alla regione e alla città; che si identificheranno, per così dire, con la natura e con l’anima di quelle. Essi descriveranno la fauna e la flora del paese, misureranno e narreranno il loro mare e il loro suolo, studieranno il corpo e la psiche del loro popolo, racconteranno di questo le glorie e proclameranno le necessità. L’Ateneo sarà la grande officina delle idee, sarà il grande laboratorio delle esperienze, sarà il campo e la peschiera modello, la scuola modello, l’ospedale modello, il… sì, voglio dirlo: il parlamento modello. Lì saranno discussi i pubblici problemi, di lì saranno illuminate le coscienze, di lì verranno, al popolo incerto, al popolo che vagola nel buio, le designazioni politiche, non, come troppo spesso succede, da un’anticamera o da una cassaforte. Arderà lì, o giovani cari, il fuoco immortale che dia luce e calore, non incendio; di lì sgorgherà la corrente calda di amore e di pietà, che feconda al bene tutti i cuori più gelidi e nebbiosi, di lì usciranno i canti soavi o eroici, le persuasive istorie, i libri austeri e gai che ammaestrano e consolano, e migliorano.

Non ne usciranno, credete, soltanto avvocati o professori. Ché nemmeno v’entreranno soltanto quelli che aspirano ad essere professori o avvocati. V’entreranno gli agricoltori per avere il consiglio del miglior concime e del miglior aratro, vi entreranno gli operai a perfezionare la macchina che li aiuta nel loro lavoro, vi entreranno tutti quelli che hanno un dubbio, un cruccio, un odio, per trovare la salute nella grande clinica, che non ha solo medici per il corpo, ma veggenti per l’anima. Tutto il popolo vi entrerà. O a dir meglio, sarà essa che si estenderà a tutto il popolo. Deriveranno da essa tutte le scuole, tutti gli ospedali, tutte le officine, tutte le industrie e coltivazioni del paese, ed essa, nel mezzo della pacifica attività che prese le mosse da un suo impulso, starà sempre aperta e sempre in azione, migliorando e perfezionando sè stessa e i figli suoi.

Questo sarà il frutto della libertà. Ma mi direte, o giovani: Non fu già profetato che le Università minori spariranno, quando saranno lasciate sole alla lotta con le maggiori? Non è delle minori la nostra? minore per età, minore per potenza di denaro? Io vi rispondo con profonda convinzione che la nostra Università non è delle minori. Prima di tutto, che vuol dire minore in fatto d’Università? Quando in Messina insegnava il Maurolyco o il Malpighi, di quale Università era minore la nostra?

Ma sia: meno di denaro porti con sé meno di scienza. Bene: ricordiamoci. Questa Università fu dai maggiori vostri domandata, voluta, litigata, ridomandata, rivoluta, rivendicata, pagata e ripagata, protetta anche con la forza, quasi a furia di popolo, ostinatamente, violentemente: e ciò quando poteva parer ragionevole e paterno consiglio quello che già nel 1752 Carlo di Borbone dava a Messina: “che rivolgesse il pensiero alle industrie e ai commerci ciò quando nella desolante uniformità di principii e di metodi e di fini poteva parere superfluo un Ateneo oltre quindici o sedici altri; poteva anzi parere dannoso, nella esuberante fabbricazione di spostati, che si faceva e fa nella patria nostra. Ebbene, quando l’Università sarà trasmutata in un cuore che governi la circolazione della vita, e dia lumi ai commerci e forze alle industrie, per non dir altro; allora quelli che l’hanno pagata e ripagata senza averne un vantaggio si ritrarranno nel momento che il vantaggio lo possono avere? E poi è troppo ben collocata questa Università, perchè si pensi mai a farla sparire. Questo è il luogo dove si stringono due mani invisibili. E lo stretto e, mi si perdoni il bisticcio, la stretta. Qui la penisola si tende verso l’isola col suo selvoso Aspromonte; qui la Sicilia si protende verso l’Italia col suo candido Faro. La Calabria e la regione Mamertina sono le due mani, che l’Italia e la Sicilia si stringono: sono, se volete meglio, le due labbra con le quali si danno un bacio d’amore indissolubile.
Qui è il ponte, o giovani: e le teste di ponte, per dirla militarmente, si fortificano. Ebbene l’Università è questa fortezza! E non cadrà mai, se prima potrà, per l’autonomia che è inevitabile, e poi se vorrà, e vorrà certamente questa figlia della volontà ostinata de’ vostri maggiori, se vorrà trasformarsi ed estendersi.

O giovani, io sto per dirvi cosa che vi prego di accogliere e meditare nell’anima. È una specie di rimprovero che io dirigo, non a voi, o nuovi della vita, ma a noi, a noi quasi vecchi o già vecchi.

Ecco. L’Università si deve estendere nell’avvenire, ho detto. Ora dico: perché non si è estesa per il passato? E aveva un grande compito da adempiere e non l’ha adempiuto. Essa (io parlo delle università in genere, in genere anzi di tutti gli studi che fanno capo, tutti, all’università), essa, l’Università italiana, ha mancato al suo dovere; ha lasciato commettere un delitto atroce. Voi sapete che l’Italia si è estesa, se non si è estesa l’Università italiana. Migliaia e migliaia di lavoratori ogni anno lasciano la patria. Vanno ad aprire strade, a forar monti, a tagliar istmi per altri popoli, coltivano anche a coloro i campi e badano gli armenti, come gli antichi ergastoli. Altri fanno men nobili arti, non pochi tendono la mano.

In nessun luogo neanche dove sono in gran numero e da gran tempo, sono trattati, oh! no davvero, come meriterebbero i discendenti del più gran popolo dei tempi antichi e i cittadini d’una grande nazione e gli artefici, spesso, della ricchezza di quelle nazioni nuove. C’ è oltre alla nostra Italia, o giovani, un’Italia errante, che è da per tutto e non è in nessun luogo, un’Italia faticante, un’Italia veramente schiava, che spesso riceve oltraggi per giunta al salario, per la quale spesso tace anche la pietà. O Italia divisa ed errante e faticante e schiava e oltraggiata e tiranneggiata e derisa e vilipesa, tu sei il nostro rimorso, perché potevi essere il nostro onore e la nostra ricchezza; e sei, invece, il dolore e persino, qualche volta, la vergogna! Sei il nostro rimorso. E intendo non dell’Italia stato, non della borghesia italiana, ma della Università italiana, prendendo questa parola come complesso di tutto ciò che s’insegna e s’apprende, d’arte e di dottrina. L’Italia pensante ha tradito la sua sorella povera: l’Italia lavorante.

L’ha reietta, l’ha lasciata partir sola, l’ha dimenticata colà, dove la fame la balestrò; l’ha dimenticata colà, dove ella si trovò priva di chi la consigliasse, ammaestrasse, guidasse, difendesse, ornasse! Non dovevamo lasciarli partir soli, i nostri poveri emigranti! E non dobbiamo lasciarli più partir soli, e dimenticarli soli. Ecco la estensione universitaria che l’Italia doveva e deve sperimentare! Giovani ingegneri che qui non avete che costruire, e medici che siete troppi per i malati che nel paese della malaria e della miseria sono pur tanti, e voi eloquenti e generosi intenditori e critici delle leggi e dello stato e della società, e voi maestri di scienze, e voi maestri di lettere ed arti, là oltre i monti e oltre i mari, sono i vostri fratelli che non hanno difesa e non hanno assistenza e non hanno direzione e non hanno spesso più idealità e non hanno qualche volta più rispettabilità, e non ottengono giustizia, e sono privi della parola della patria lontana! Possibile che alle terre vergini la grande colonizzatrice, che fu l’Italia, non abbia saputo dare che i picconi? Io dico queste cose con la coscienza torba. Queste cose non si pre-dicano a parole, ma a fatti. Per queste cose non si dice: Andate, ma: Venite. Io non ho quindi il diritto, di dirlo. Eppure… Eppure quelli infelici che qui erano, se volete, servi, ma là, oltre i monti e oltre i mari, sono Iloti, cioè servi di stranieri, mi sembra che mi accennino e mi chiamino. Anche me. Sì, io, cui s’imputa piuttosto che si riconosca la più inutile delle arti, io che sono considerato qua un disutile, là avrei avuto la mia missione e il mio fine: narrare quei dolori e quegli strazi e quelle ingiurie: sommuovere qua i cuori che obliano, e là consolare quelli che non obliano: e per la mia parte, che può essere la parte d’ognun di voi, o giovani buoni e forti, piantare i termini, là, delle nuove terre saturnie, e fondare le nuove città pelasgiche.

La nostra Università collocata sul mare e fra terre che danno tante vite all’emigrazione, a me par destinata più d’ogni altra a compiere, col mezzo dei suoi alunni, la riconquista dell’Italia nomade. E ciò ha già cominciato. Un medico che di qui parta e vada là ad esercitare la sua arte, è più benemerito del nome italico, che qualunque uomo di stato, sia pure il più energico e il più previdente. Una nave che tra gli emigranti lavoratori abbia qualche giovane laureato, dalla fronte pensosa e dagli occhi pietosi, porta a bordo la fortuna d’Italia. Quella nave s’incammina a ben più umana e più durevole conquista, che le caravelle di Cortez e di Pizzarro! Oh! l’ardente e luminosa Sicilia deve restituire all’Italia i Mille che l’hanno aiutata a redimersi! Salpino, quando che sia; e non importa se tutti insieme, e senz’altre armi che di luce intellettuale, salpino i mille di Sicilia, e vadano a soccorrere, a unire, a redimere l’Italia transoceanica! Chi sa? forse un destino fulgido pende sul nostro Ateneo: egli è forse il lido di Quarto della pacifica spedizione. E chi sa? col tempo egli avrà fondato di là dell’Oceano un istituto filiale e fraterno; e l’uno e l’altro sarà lambito dalla medesima corrente ideale che fa germinare i medesimi prodotti in latitudini diverse. E tra l’uno e l’altro una corrente di giovani generosi andrà e verrà, che qua porti lo spirito del rinnovamento e là rechi lo spirito della tradizione. D’onde s’inalzerà la ideale città del buon vivere su fondamenta solide, perchè ella non crolli al vento come un edifizio fantastico, e in alto in alto s’aderga, dove è l’aria pura d’ogni miasma e d’ogni perverso fermento.
Queste gioconde speranze mi ragionano nell’anima in questo giorno, che ride pacifico in una settimana di lotta e di passione. Sono queste speranze fondate su due facili previsioni: sulla previsione che le Università saranno col tempo, come tante altre cose, lasciate a sé stesse, con tutto ciò che è ragionevole che conservino e che acquistino; sulla previsione, che sempre più salda si farà l’unione delle parti d’Italia. L’una previsione è conseguenza dell’altra. Non c’è bisogno di legare insieme i fratelli, perché si scaldino al medesimo focolare e si assidano alla medesima mensa. Soltanto, brilli nel focolare il fuoco, e fumi sulla mensa la vivanda! L’ unione d’Italia viene da necessità d’amore, non da fato di forza! E qui specialmente si può bandire questa verità, in questa città che si è slanciata più volte verso l’Italia, che ancora non esisteva politicamente, con eroica impazienza; in questa isola, che diede, dalla nobile Palermo, il segno dell’aurora italiana, con le sue campane; in faccia a quel lido Calabro che portò primo quel sacro nome d’Italia, e se ne ricordò sempre e sempre se ne mostrò degno.
E voi giovani calabro-siculi avete pensato a questa verità, quando, in tanta copia di persone più degne di me, tra tanta gloria di miei illustri colleghi e vostri concittadini e maestri, avete scelto, a inaugurare le vostre feste, me, benché, anzi perché non siciliano o calabrese. E avete forse pensato che chi è stato adottato in una famiglia, e, senz’obbligo alcuno da parte di lei, ospitato e amato, non è generalmente quello che ricambia con minor affetto l’affetto della sua madre, benché madre d’elezione.

Cominciate, dunque, le vostre feste. Cominciatele con un pensiero di gratitudine per gli enti locali che conservarono questa sede di studi, predestinata, se il cuore non mi inganna, a più alto avvenire; per coloro che insisterono e insistono al fine che questa sede abbia ciò che le spetta e ciò che le conviene, per i suoi diritti acquisiti e per i suoi destini futuri.
Cominciate le vostre feste, rivolgendo un pensiero di fratellanza ai vostri compagni e ai nostri colleghi delle due altre università siciliane, che sono in ispirito con voi; ai vostri compagni e ai nostri colleghi di tutte le università italiane, che lavorano al medesimo vostro ideale e vedono le vostre medesime visioni, di libertà e di giustizia, di conservazione e difesa patriottica ed umana pace e concordia.
E siate felici, e, ciò che è migliore augurio, fate felici.

Giovanni Pascoli

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