Giuseppe Parini.
Sopra la carità – 1762.
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PROLUSIONE
Savissimamente, o signori, è stato dall’Accademia ordinato che in avvenire non sia più lecito a talento di ciascheduno di noi il comporre per la pubblica recita di questa stagione sopra qualsivoglia suggetto sacro o morale; ma che anzi, come nelle altre pubbliche recite si costuma, così anche in questa tutti quanti cospiriamo a trattare uno stesso determinato argomento.
Ciò si é voluto spezialmente per vostro riguardo, o signori, si perché il concorso de’ varii metri, de’ varii stili e de’ varii pensieri tendenti ad un medesimo scopo venga a render tanto più ingegnosa e vivace e per conseguenza a voi tanto più dilettevole la nostra poetica esercitazione; si, perché, accogliendo insieme diversi lavori sopra una stessa materia, venga questa ad esser più pienamente trattata, onde i nostri versi, a diletto non solo, ma, quanto per noi si può, ancora vi tornino ad utilità, che é quanto, fino dal ristabilimento della nostra Accademia, ci siamo proposti; acciocché non un vano solletico degli orecchi, ma un vantaggioso trattenimento sieno le nostre pubbliche adunanze.
Savissimo consiglio ancora é stato quello dei nostri Conservatori di scegliere per tema della recita di stassera la Carità; conciossiaché ragionevole cosa era che, avendo noi per la prima volta determinato il suggetto della recita sacra e morale, ciò non altro fosse che quella virtù ch’è il fine di tutta la morale, il compendio di tutta la legge ed il precipuo fondamento della religione.
Deh, perché mi é egli così limitato il tempo e lo ingegno, ch’io non possa ragionarvi come e quanto vorrei di una virtù ch’è la cagione d’ogni nostro bene presente e la base di tutte le nostre future speranze? d’una virtù, alla quale non solo spezialmente ne obbliga la Legge, ma la Natura stessa ne invita, e ne conduce e ne sprona il nostro proprio interesse? d’una virtù che, quale altra forza di attrazione, accosta e lega insieme gli animi degli uomini e fa nascere nel mondo formale quella stessa maravigliosa armonia che nel materiale veggiamo? d’una virtù finalmente, che o, secondo la filosofia, con avventuroso equivoco ne conduce ad amar noi stessi negli altri, onde agli uni ed agli altri risulta sicurezza e felicità; o, secondo la religione, ci fa amare nei nostri prossimi il nostro Dio; e, quel ch’è più, solleva noi creature mortali a nobilissimo e delizioso commercio col sommo nostro principio?
Ma io sarei troppo lungo, e nulla direi nondimeno, se io volessi soltanto scorrere i varii capi di questa si nobile e si dolce materia. Permettetemi adunque che le circostanze di questo luogo destinato alle lettere, di questo di scelto per darne pubblico saggio, di voi, o signori, che le amate cotanto e le favorite, mi servan di pretesto per sottrarmi allo smisurato peso dello argomento, e m’invitino a ragionarvi della Carità per quella parte che gli uomini letterati risguarda.
Quanto desiderabile cosa sarebbe mai che tutti coloro che sortito hanno dalla natura uno ingegno adatto alle Lettere, fossero stimolati allo studio ed allo scrivere non da una leggiere curiosità o da un vano amore di gloria; ma dalla carità e de’ suoi prossimi, de’ suoi concittadini, del suo paese! Quanti inconvenienti non si verrebbono a schifare così, e di quanto maggior utile sarebbono le lettere e i letterati nel mondo
L’uomo che dalla semplice curiosità o dal solo amore della gloria é condotto alle lettere, non avviene giammai che non sia accompagnato nella sua carriera da uno stuolo di vizii, che a lui recano danno e notabilmente ostano all’altrui utilità, la quale ogni uomo dabbene dee proporsi per iscopo princi. pale del suo operare.
Se la semplice curiosità é il motivo che lo spinge alle Lettere, necessario é ch’egli non faccia differenza alcuna tra le cose importanti a sapersi e quelle che sono frivole e da nulla imperciocché, non avendo egli altro di mira se non se di scoprire le cose che a lui sono ignote, forza é ch’egli consideri d’egual peso e quelle che, scoperte, possono recargli vantaggio, e le altre che, occulte o rivelate, fieno mai sempre futili e di nessun valore. Da ciò nasce ch’egli, con eguale sollecitudine e con eguale dispendio di tempo, va in traccia delle une e delle altre. Di qui voi potete argomentare, o signori, quanti studii e quanti sudori si debbano perdere vanamente, senza proprio né altrui profitto, da quegl’ingegni che per semplice curiosità si dànno alle Lettere. Avvertite ancora che il letterato di pura curiosità aggiugne il prezzo de’ suoi travagli e delle sue fatiche a quelle vane cognizioni che per tali mezzi acquistò; e a poco a poco se medesimo persuade della verace solidità ed importanza di esse.
Ma non si ferma già qui tutto il male che alla fine consisterebbe soltanto nella illusione che l’uomo di Lettere a se medesimo fa, e nella trascuranza del giovare agli altri per mezzo de’ suoi studii, come gli altri giovano a lui per mille altri mezzi. Il peggio e il più deplorabile si é che, misurando egli la preziosità delle sue merci non già dallo intrinseco valore di esse ma dal caro prezzo che gli sono costate, e venendo egli così perversamente convinto d’un fantastico tesoro che a lui sembra reale, pretende poscia che gli altri ne facciano quel medesimo conto ch’egli ne fa; e quindi, stimolato dall’ambizione e dallo amore di se medesimo, e talor anche da una falsa e perciò inutile carità, procura di vendere altrui i suoi vetri e il suo orpello a quel carissimo prezzo a ch’egli li ha comperato, adoperandosi d’insinuare nella mente degli altri il medesimo concetto che egli ne ha.
Né é da credere che i compratori gli manchino o gli sieno scarsi giammai. Sovvengavi che la scuola di Protagora era assai più frequentata che quella di Socrate; e che gli uomini sono, per corruzione della loro natura, assai più inclinati a ricercar seriamente le frivolezze che la loro verace utilità. L’utile ed il vero, che ordinariamente vanno di compagnia, ci si presentano innanzi alla guisa di due cortesi Genii facili ed ignudi; ma la futilità e l’illusione, che per sostenersi hanno bisogno di mille artificii er ornamenti, ne compaiono innanzi alla foggia di que’ Genii finti che alle volte s’introducono sulle scene adorni di variopinti pennacchi che loro s’innalberano sovra gli argentati cimieri, e fieri e pomposi per iscudi e per aste, rilucenti d’oro e di gemme. Da queste fastose apparenze noi ci lasciamo abbagliar più facilmente, che non ci lasciam lusingare dalle semplici grazie native. Quindi é che noi veggiamo si di frequente correre scapigliati ed affannosi molti uomini di Lettere dietro ad una fatua erudizione, la cui materia, siccome fu di poca o nessuna importanza agli antichi, così non dovrebb’essere di nessun momento a’ nostri tempi; o dietro a molte parti delle scienze astratte, che non possono contribuire giammai nella pratica all’uso ed al vantaggio degli uomini.
La facile gioventù, ch’è priva dell’esperienza, veggendo correre affannati questi antesignani, bene spesso ancora a lei assegnati per condottieri, s’incammina sulle lor orme, e spera d’arrivar con esso loro a possedere la cosa; e allora s’accorge di non essere andata in traccia d’altro che dell’ombra, quando la possa non basta al ritornarsene addietro, e troppo vicina é la sera perché le resti tempo da mettersi sul camino [sic] migliore.
Questa é la ragione per la quale noi compiangiamo la perdita di tanti begl’ingegni e di tanti begli anni, onde la patria poteva sperare utilità insieme ed onore, ove in cambio si vede compassionevolmente delle sue speranze delusa.
Ma ben più compassionevole é la sventura della patria e del pubblico, se si osserva che questa dannosa curiosità spesse volte conduce le ardite menti de’ suoi letterati cittadini si innanzi, che doppio svantaggio gliene accade, e del bene che perde, e del male che gliene emerge. Ciò accade singolarmente nelle filosofiche e nelle teologiche scienze; conciossiaché lo sfrenato amatore d’ogni sorta di sapere, non essendosi proposto l’utilità per meta de’ suoi studii, audacemente varca ogni limite, con danno della morale e della religione.
Ma per ora sia detto abbastanza di questa infelice curiosità, e passiamo a vedere che segua nell’uomo di Lettere stimolato agli studii dal solo amor della gloria e spogliato della carità che sola dovrebb’essere il principio e lo scopo delle sue applicazioni.
Chi aspira alla gloria in questo mondo, dee di necessità studiarsi d’essere singolare. Chi non procura d’innalzarsi sopra il comune degli uomini, non isperi di diventar celebre fra loro. Ora per singolarizzarsi fra gli uomini mediante le Lettere, non solo fa di mestieri una mente superiore alle altre, ma eziandio l’arte di far valere le prerogative di essa. Quel letterato che dalla sola ambizione é condotto, tutte quest’asti conosce, e tutte le mette in opera a suo potere. Non si dona egli già a quel genere di studii ch’egli conosce essere il più vantaggioso; ma a quello che la moda del secolo esalta sopra degli altri, od a quello nel quale egli si persuade di potersi maggiormente distinguere. La necessità del doversi rendere singolare conduce seco nell’uomo di Lettere ambizioso molti vizii che inevitabili sono. La invidia verso tutti coloro che a lui si trovano innanzi, la insofferenza dello avere eguali, il dispregio degl’inferiori, lo accompagnano tuttavia. Siccome egli non cerca la verità, ma soltanto la celebrità del suo nome, tosi egli s’incammina per tutte quante le vie, non badando che quella dell’utile e del vero é una sola. Quindi é che da questo nudo amor della gloria ne nasce la singolarità di tante pericolose opinioni fatte sorgere dal seno della teologia, della filosofia e della filologia medesima, le quali non solo scuotono i fondamenti della rivelazione, ma la ragione altresì oscurano, e rovesciano il buon senso. Se il riportare esempli in materie odiose odiosa cosa non fosse, ben molti ve ne potrei addurre, seguiti in ogni genere di letteratura, non solamente in luoghi o in tempi rimoti da noi, ma nell’Italia medesima, a’ nostri giorni, e quasi dissi sugli occhi nostri.
La nuda ambizione letteraria non solo é fabbricatrice di strane e pericolose opinioni per amore di singolarità; ma eziandio, per sua natura e per suo proprio interesse, si ostina pertinacemente in quelle; e, posciaché non le é permesso di sostenerle colla ragione, almeno tenta di farlo co’ sofismi, e con ciò che per onta della letteratura chiamasi Cabala letteraria; e non di rado ancora colla prepotenza.
Da questa pertinacia e irremovibilità d’opinioni, figliuole della letteraria superbia, ne nascono perciò quegli odii irreconciliabili delle contrarie scuole, che, di odio delle opinioni, diventan odio degli opinanti, e, tràduci ed ereditarii di maestro in maestro e di uditore in uditore, durano i secoli interi, con iscandolo universale e con isvantaggio grandissimo del pubblico bene.
Quindi puranco addiviene che cotanto s’innaspriscono poscia le dispute fra’ privati uomini di lettere, che d’ordinario il vincitore insulta con agri motteggi e con villana soperchieria il perdente; e questi, invece di godere d’aver servito di mezzo onde si scoprisse o meglio assicurasse una verità, armato di mala fede e d’indiretti argomenti e d’impudentissime ingiurie, che feriscono la persona o nelle qualità dell’animo o ne’ difetti del corpo, affronta il suo rivale; sicché il più delle volte va a terminare la disputa non in altro che in vicendevole scorno e in dispregio della pubblica onestà, degno di singolar punizione.
D’infiniti altri pregiudizii io vi potrei favellare, che vengono cagionati alla società da quelli uomini di Lettere, che, privi dello spirito della carità, da nessun altro motivo sono spinti, fuorché dalla curiosità e dall’ambizione; ma né quelli che finora tumultuariamente vi ho accennati, né quelli ch’io taccio, aggiungono in veruna maniera a quel massimo che ne proviene, qualora del numero di questi letterati sieno coloro che presiedono col loro magisterio agli studii della gioventù.
In simil caso il danno non é solo di pochi, ma é d’un’intera città, d’uno intero paese; ed é tale che seminato in teneri e novelli campi, vi mette profonde radici e vi produce quasi irreparabilmente frutti sempre più amari e nocivi.
Un simile precettore non sale giammai su’ pulpiti delle sue scuole con intenzione d’insegnar l’utile e il vero; ma unicamente per insegnare se stesso vi sale, e per irrigare, assiepare 24 e rassodare sempre più le proprie opinioni o quelle che colà trova già da lungo tempo piantate da’ suoi maggiori. Cosi vien tradita l’innocente gioventù, alla sua direzione affidata: tosi i miseri padri veggono tornar dalle scuole e da’ collegi i suoi [sic figliuoli vuoti d’ogni verace sapere, e colla mente ingombra d’idee false, e di stravaganti principii; secondo i quali regolandosi essi poscia, o rimangono affatto ignoranti, o dànnosi in preda ad inutili studii, dell’ignoranza medesima assai peggiori, perciocché più dell’ignoranza notevoli alle famiglie ed alle patrie loro. Io auguro bene della` patria nostra, imperocché m’immagino che nessuno di questi soltanto curiosi ed ambiziosi maestri presieda a’ nostri studii; anzi mi giova di lusingarmi che, siccome non sonosi mossi ad attender privatamente alle Lettere per verun altro spirito fuorché per quello della carità, tosi il facciano vie più ogni qualvolta loro ne corra maggior obbligo, per lo esser eglino posti a guidare ed ammaestrar gli altri.
Ma parmi ora di sentirmi rimproverar da qualcuno e dirmi così: ‑ Or vuoi tu dunque, o novello dittatore e politico della letteratura, rovinare ad un tratto i maggiori stimoli che gli uomini abbiano avuto mai alla ricerca del sapere, cioè la curiosità e lo amor della gloria? ‑ Ma io rispondo a questi troppo solleciti rimproveratori : ‑ Non sono io tosi stolto che non conosca esser questi due de’ più possenti motivi che accender possono negli uomini lo amor delle Lettere: io non pretendo perciò di spegnerli, tessilo il Cielo: desidero unicamente di ordinarli a buon fine; e, per ottener questo, dico esser necessaria negli uomini di lettere la carità. Non intendo io di rintuzzare questa a noi tosi propria curiosità ispirataci dalla stessa natura; ma desidero che la carità le sia in vece di soave auriga che la spinga o la freni siccome più torna in vantaggio della società. Potrei ben io agevolmente mostrare la vallea m duella gloria acclucntale tue I letterati cercano tosi avidamente; ma voglio ch’essi non perdano i gloriosi allori cresciuti per le loro fatiche, e bramo solo che la carità ne intrecci le ghirlande e ch’ella di propria mano ne cinga loro la fronte. Voglio che la gloria sia un premio, non della loro curiosità, a dir vero, ma della carità loro.
Io mi lusingo che voi vi risovvenghiate, o signori, de’ vizii onde noi abbiamo veduto di sopra non potere andare esenti gli uomini di Lettere unicamente curiosi ed ambiziosi; a’ quali vizii voi senza dubbio ne avrete aggiunti mille altri, dal vostro sagace discernimento scoperti. Ora veggiamo come tutti questi vizii si dileguino in un momento, e come in quel cambio sorgano grandissimi beni, se la carità diviene la scorta e la maestra d’un letterato.
Quell’uomo d’ingegno che sul principio della sua letteraria carriera é assistito dallo spirito della carità, prima d’ogni altra cosa riflette seco medesimo che l’uomo dabbene dee consacrare alla utilità de’ suoi prossimi, o sia della repubblica in cui vive, ciò che, oltre la conservazione di se medesimo, formar dee l’occupazione principale della sua vita. Con questa persuasione, lasciati da un canto quegli studii che a lui pare non poter esser principii né strumenti di alcuna verace utilità, ad un di quelli si appiglia che a lui pare poterlo essere ed al quale si sente più naturalmente disposto. Nel cammino di quella parte di letteratura da sé principalmente intrapresa raccoglie da più o da meno utili altri studii, che gli si presentano sulla via, que’ soccorsi che conferir possono a rendere il suo particolar sapere più vantaggioso a sé ed a’ prossimi suoi. Stende spesse volte la mano anco negli altri diversi campi della letteratura, sempre per cogliervi frutti, e non già fiori soltanto. Allor ch’egli sente vicino il tempo che la sua opera può essere di giovamento altrui, allora é che vie maggiormente lo infiamma la carità dell’altrui bene. Essa medesima vie più accende la sua curiosità, finché il vantaggio gli si appresenta, ed essa medesima, qual fido Mentore, lo ritrae di là ove comincia la vanità e la menzogna, persuadendogli che la curiosità del letterato già non debb’essere di sapere, ma di saper ciò che n’è vantaggioso, e che in ciò solo consiste la vera sapienza.
Quindi non fia maraviglia, se, non avendo egli altro avuto per obbietto de’ suoi studii fuorché l’utilità ed il vero, noi il vedrem poscia produr nelle sue opere frutti alla sua lodevole intenzione corrispondenti: e il suo paese ed il pubblico ne rimarrà insieme contento ed edificato.
Qual vizio potremo noi riprendere ad un uomo di Lettere di questa fatta? forse l’invidia de’ talenti altrui? Ma egli, che per ispirito di carità altra cosa non ha di mira che il bene, godrà, anzi, che questo si moltiplichi per altrui mezzo; ed accenderassi ad emular vie più le altrui prove, poiché a lui sembrerà utile il farlo. Odierà egli forse di trovarsi a lato degli eguali? Anzi ei prenderà coraggio da’ loro sforzi e loro ne insinuerà vicendevolmente; e tosi tutti, raccolti in un lieto drappello, andranno in traccia del pubblico bene. Dispregierà egli forse gl’ingegni a se medesimo inferiori? Anzi al contrario egli li agguaglierà a’ suoi pari, e a quelli ancora che sono emulati da lui, qualora questi procurino a lor possa d’essere vantaggiosi; e loderà l’intenzione, benché gli rimangano a desiderare gli effetti. I suoi inferiori in materia di Lettere altri non saranno che quelli ch’egli vedrà perduti dietro agli studii vani e nocivi; né questi dispregierà egli mai, ma li compiangerà; e compiangeralli efficacemente, adoperandosî di ridurli sul cammino migliore.
Come sarebb’egli possibile che l’uomo di Lettere, acceso di carità, si ostinasse a difendere irragionevolmente le sue opinioni, o che s’argomentasse di promulgarle e di farle passare, per mezzo degli scritti o della voce, nella mente degli altri? Se per avventura egli cadesse in errore, questa bella virtù, che gode estremamente della verità, gl’insegnerebbe a nobilmente confessarlo e a ringraziare colui che lo avesse illuminato. Come potrebb’egli offendere co’ suoi scritti veruno, essendo guidato da una virtù di carattere mansueto, che non cerca i suoi proprii interessi, che non ama la ingiustizia, non s’innasprisce e non dispregia veruno? In somma, da tutto ciò che finora ho detto, chiaramente si raccoglie, o signori, che siccome rispetto al costume l’uomo non é nulla senza la carità, ed é tutto con essa; così nessuno può essere un vero uomo di Lettere, che nella medesima letteratura non sia guidato da questa virtù.
Le opere d’ingegno, che non sono rivolte al comune bene, traggono ogni lor pregio dalla opinione ag degli uomini, la quale é sempre mai diversa secondo i tempi, le persone ed i luoghi. Tale opera che ha pregio nella Francia non ne ha veruno in Italia o in Inghilterra; e tale, che fu anticamente stimata, ora non si conosce neppure.
Non tosi avviene delle opere che ammaestrano gli uomini e che loro son vantaggiose: imperocché, siccome l’utile é in ogni luogo, in ogni tempo e da ogni persona desiderato, tosi gli autori guidati dalla carità, che quello procurano agli uomini, sono da ogni nazione e da ogni tempo apprezzati; e i presenti ed i posteri con sentimento di gratitudine rammenteranno il nome dello scrittore che gli ha benificati, od anche ha solamente tentato di farlo.
La vera gloria é quella che o presto o tardi segue i beneficii fatti dall’uomo all’altr’uomo; e questa é quella che sola universalmente si spande, e che sola é durevole e costante, perciocché ha le sue radici non già nell’opinare g’, ma nel sentimento naturale degli uomini, che é a tutti comune e non é soggetto a verun cambiamento.
Gioventù che cresci provveduta di rari talenti a mantenere lo splendore della nostra nazione, apprendi adunque a pigliare per guida de’ tuoi studii la carità, che é l’amore del vero, l’amor dell’utile e l’amore del bene. Renditi certa che i tuoi concittadini e la tua patria tosto o tardi non potranno negar ricompensa a’ tuoi profittevoli sudori. I Grassi, i Piatti, i Cazare i pusilli. Tu vuoi, anzi, che i potenti sieno il sostegno, e i dotti e letterati la luce del genere umano.
Ma voi intanto, valorosi accademici, trattate meglio di me un argomento di cui il più dolce non può risonare sulle poetiche cetre, e che, quantunque a molto più sublimi e sante che le vostre non sono, pure é da lungo tempo alle cetere avvezzo. Cercate anche ne’ vostri nobili trattenimenti l’utilità col commendare oggi la più bella delle virtù, siccome qui la cercate altre volte col deridere salutarmente i difetti degli uomini e col riprenderne i vizii.