Luigi Capuana – Nel bosco delle streghe


Luigi Capuana
Nel bosco delle streghe

Novella

Note
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Luigi Capuana, Novelle, Casa editrice Sandron, Palermo, 1938.

Luigi Capuana. Nel bosco delle streghe

Dalla rivista “LA LETTURA” gennaio 1913. Immagine dal Web

– Ritorna?

– Sì.

– Per sempre?

– Chi lo sa?

– È matto, scusate. Venire a seppellirsi qui!

– Vi è nato.

– Suo padre lo portò via a dieci anni. Che amore può avere al paese?

– Ma, poiché ritorna….

– Per questo, scusate, ho detto che è matto. All’improvviso si sente afferrare dalla smania….

– Da nessuna smania. Tranquillamente arriva, e più tranquillamente potrà ripartire.

Don Matteo Domelli era molto seccato di esser costretto a rispondere alle continue interrogazioni intorno a suo nipote che doveva giungere dall’America. Tutti, amici, conoscenti, sfaccendati volevano sapere: – È dunque vero? – Come mai? – Pare che abbia fatto fortuna. – Per poco o per sempre? – Eh! La terra nativa! – Donde viene? Da Nuova York? Da San Paolo? Da Buenos Aires? Che dirà di questo mondezzaio? Scapperà dopo due giorni!

Non la finivano! E se Don Matteo faceva una spallucciata e rispondeva appena o non rispondeva affatto, malignavano:

– Non è contento che gli piombi in casa il nipote!

– Perché è uno solo. Dovrebbero essere tre!…

Alludevano alle tre figlie nubili del Domelli che secondo le male lingue, minacciavano di spighirgli in casa.

Invece egli non vedeva l’ora che il nipote arrivasse.

– Sarà già partito, è vero, babbo?

– Ha scritto che avrebbe telegrafato da Genova.

– Tu dici che non lo riconosceresti, babbo; ma dai ritratti….

– Ritratti di parecchi anni addietro.

– Dev’essere di umore allegro….

Questo si vedeva dalle lettere che con molta regolarità scriveva da un anno alle cugine, a turno, per non destare invidie.

– Lettere strambe! – esclamava Maria, la maggiore – Senza capo né coda.

– Sembra però, leggendole, di udirne la voce – soggiungeva Cristina.

Sara non diceva niente. E quando Maria e Cristina si divertivano quasi a declamare le lettere del cugino e a commentarle ridendo, ella sentiva dispetto di quella specie d’irriverenza verso l’assente. L’arrivo di una di queste missive era un avvenimento nella famiglia. Per due, tre giorni non si parlava d’altro. Cristina e Maria le comunicavano alle amiche, anche per darsi l’aria che ricevevano lettere dall’America. Sara, dopo che le sorelle e il babbo avevano lette quelle indirizzate a lei, le faceva sparire in fondo a una cassetta del canterano in camera sua. Le ispiravano un sentimento ch’ella stessa non sapeva se fosse di compassione o di pietà.

Sotto quegli scatti di allegria, di buon umore, di gentile malizia, coi quali il cugino Alberto infiorava i larghi fogli azzurrognoli, abbandonandosi, a intervalli, allo sfogo epistolare, Sara intuiva una tristezza, un senso di nostalgia che la vivace prodigalità dei motti, delle bizzarrie, dei capricci non riusciva a celare.

E la inattesa risoluzione del ritorno, dopo tanti anni di assenza, la confermava in questa convinzione. Pensava:

– Chi sa che delusioni ha provate!

In quel mese, il cugino aveva rotto la regolarità del turno nella corrispondenza con le tre sorelle.

A Maria scriveva:

«Finalmente, cara cugina, potrete dire: Ah! È questo il bel cesto?… Che volete? Non posso rimpastarmi per rendermi più aggradevole. Mi sono americanizzato, mio malgrado. Quando l’ascensore mi fa salire rapidamente, al quindicesimo piano, nel mio modestissimo appartamentino, io penso all’impressione che mi farà il salire, a piedi, i venti, trenta scalini di casa vostra. Mi parrà di abitare sottoterra. Al quindicesimo piano! Cioè, una dozzina di volte più in su del campanile della vostra Matrice. Fra le nuvole! (Quasi la mia testa non ci fosse abbastanza!) Affacciandomi alla finestra e guardando giù nella via, che cosa buffa quelle pulci che sembra si rincorrano! E sono uomini, signore, signorine!

«Ebbene, abitando così alto, al terzo se non al settimo cielo – ce ne sarà qualche altro, credo: chi li ha scandagliati e contati? – io non sono ancora diventato un angelo, non mi son visto crescere le ali…. Ma non parliamo di cosa da crescere alle spalle, perché, cara cugina, vedrete che le ali possono accennare a spuntare e poi si arrestano, si atrofizzano… Vuol dire che per trasformarsi in angelo non giova neppure elevarsi fino al terzo cielo! Non è giovato, infatti, alle mie coinquiline del piano di sopra, il sedicesimo: due americane, ossute, stridule, con certi denti – qualcuno legato in oro – e che volevano insegnato l’italiano da me… come se l’italiano fosse roba da esser masticato da quelle bocche!

E a Cristina scriveva:

«…. E ora mi caverò la curiosità che mi son riserbata di appagare coi miei occhi. Siete bruna? Siete bionda? Autentica, certamente. Le tinture, spero, non sono arrivate fino a costì. Maria, lo ricordo, ha capelli nerissimi, a meno che…. Ma no; è assurdo pensare che le sia venuto in testa di mutarli di colore. Voi, allora a tre anni, eravate quasi bionda, ma ora, invecchiando…. Qui si dice pane al pane, e vino al vino… quando non c’è interesse di dire il contrario. Ed io ho scritto la parolaccia: invecchiando, sicuro che essa vi farà sorridere; a vent’anni si è appena giovani.

«Il colore dei miei?… Era… Me ne rimangono così pochi in testa, che da un pezzo non ho voluto accertarmi di che colore siano diventati. E poi, la calvizie è in grande onore. Significa: cervello caldo, attivo. Quasi tutti gli americani son calvi. Preparatevi, dunque, a un disinganno, se i miei ventisette anni vi han fatto credere… prendo le mie precauzioni, per evitarvi intorno alla mia persona quante dispiacevoli sorprese è possibile. Aggiungo: niente barba, come i servitori di grandi famiglie. – Costì non ce ne sono. – Come i nostri contadini di una volta, se non son cambiati. Qui, anni fa, era di moda un ciuffetto di peli al mento, alla Lincoln; ma ormai, quel Presidente è dimenticato; e l’attuale non è riuscito ad imporre i suoi baffi…. Divago, cara cugina. E vorrei dirvi tante cose!… Sarà meglio dirvele a voce, tra poche settimane».

E a Sara scriveva:

«…. Quando penso che non eravate nata l’anno ch’io lasciai Merenzòla, e che ora avete diciassette anni, mi par di essere un Matusalemme di fronte a voi. Se vi dicessi che voi siete la maggiore curiosità del mio viaggio, non scriverei un’esagerazione. Lo zio lo ricordo benissimo; Maria la riveggo con le vesti corte di quando facevamo il chiasso nell’orto e spesso ci bisticciavamo; Cristina era una naccherina vispa, permalosa, a tre anni. Voi… non vi eravate ancora degnata di venire in questo mondo, e perciò non riesco a figurarmi, in nessun modo, la vostra persona. Ma, dunque, Merenzola è così segregata dalla vita civile da non essere stata mai visitata da un fotografo ambulante? Meglio così, dico ora.

Che dolce rifugio mi parrà! Che pace vi godrò! Voi non sapete affatto immaginare il fracasso di queste infernali città, che ci stordisce notte e giorno! Credo che dovrò rieducare i miei sensi a percepire il silenzio, il beato silenzio della casa, della campagna!

E se mi vedrete rimanere muto, mezzo stordito, non ve ne maravigliate, piccola cugina. Starò ad ascoltar Maria che, mi figuro, deve chiaccherare volentieri, e Cristina, la quale, anche a tre anni aveva una linguetta!… E voi, che, spero, non sarete ritrosa di parlare come siete avara di scrivere. L’ho notato: le vostre lettere non vanno mai più in là delle due paginette! Ma sono carine, deliziose…. Preparatevi dunque a sciogliervi bene lo scilinguagnolo. Mi piace tanto star ad ascoltare!….».

Il signor Domelli – cosa eccezionale in quel grosso villaggio di Merenzòla – aveva fatto educare le figlie nel collegio di Sant’Anna di una città vicina; ma dopo la morte della moglie, le aveva ritirate in casa. La loro istruzione era rimasta a mezzo, nè esse avean sentito bisogno di continuarla da loro. Leggiucchiavano, di quando in quando, i romanzi ricevuti in prestito da una delle maestre elementari; spesso, però, meno Sara, preferivano di sentirseli raccontare da una sentimentale amica, invitata a desinare in casa Domelli tre volte al mese.

Maria e Cristina si davano l’aria di signorine tra le ragazze della loro età che non erano state in nessun collegio, tentavano di distinguersene anche nei vestiti; ma non erano arrivate al punto di smettere lo scialle e portare il cappello. In questo avevano trovato ostile la volontà del padre, uomo un po’ all’antica e che voleva fare – come diceva – il passo secondo la gamba.

– Sareste ridicole, tra le vostre pari.

Ora contavano sull’arrivo del cugino, il quale si sarebbe maravigliato di ritrovar tutto immutato in Merenzòla.

– Uno che vien dall’America! Forse non sa neppure che al mondo esistano ancora gli scialli!

– E il babbo dovrà piegare la testa!

Intanto Maria e Cristina si vuotavano il cervello per indovinare la ragione dell’improvviso ritorno del cugino.

– Che ne dici tu, babbo?

– Ma, tra giorni, potrete domandarlo a lui.

– Sarà sincero?

– La curiosità è passata. Per me, potrà arrivare, dimorar qui, a suo piacere, ripartire, e non gli domanderò niente dei fatti suoi. Mi basterà di aver riveduto il figlio del mio povero fratello, che, forse, sarebbe vivo ancora, se non fosse andato a farsi ammazzare dalla febbre gialla colà. Non ne ho saputo niente da tanti anni; credevo morto anche lui.

La curiosità delle ragazze si accrebbe dal giorno che la posta recò un fascio di giornali e due pacchi di libri indirizzati al signor Matthew Storm, presso il signor Matteo Domelli, Merenzòla.

– Chi è costui, babbo?

– Qualche amico di Alberto, suppongo.

– Verrà in casa nostra, babbo?

– Come se a Merenzòla esistesse un albergo! Faremo un po’ di posto anche a lui.

Erano lontane dall’immaginare che quello fosse lo pseudonimo letterario del cugino, e che i cinque volumi ben rilegati, con in testa dei frontespizi il nome di Matthew Storm, rappresentavano la sua produzione di quegli ultimi anni, quando egli era riuscito a farsi la bella fama di piacevolissimo narratore di Storielle – Littles storys – piene di brio, di fantasia, di umore esotici, da non tradir affatto l’origine italiana dello scrittore.

Da qualche tempo in qua, un’intima crisi era accaduta nell’animo di Alberto Domelli. Non poteva dirsi stanchezza; piuttosto aspirazione a qualcosa di meno materiale di tutto quel che lo circondava. E da questo sentimento, vivissimo e insoddisfatto, provenivano le briose littles storys dove la immaginazione prendeva il sopravvento su la realtà, non con lo scopo di alterarla, ma di smascherarla, perché niente egli giudicava più falso e più ipocrita di quella realtà tra cui le vicende della vita lo avevano condotto ad aggirarsi quasi sperduto.

Ammirava assai gli uomini americani; le donne – almeno le molte che aveva potuto conoscere da vicino, le altre che si era ingegnato di studiare a una certa distanza – le donne americane gli erano divenute odiose, insopportabili. E per ciò, da due anni, si era sentito spinto verso le cugine sodisfacendo con quelle lettere a un bisogno di arte, e a uno sfogo di sentimenti.

Giacchè, con pochissime modificazioni, le Lettere alle Cugine, attribuite a uno dei personaggi delle sue storielle, erano state prima pubblicate in rassegne illustrate, ottenendo un gran successo, e poi raccolte in volume.

Maria e Cristina, pensando a uno dei tanti scherzi del cugino, avevano ceduto alla curiosità di disfare i pacchi dei libri, ed erano rimaste deluse.

– Sono scritti in lingua turca! – aveva detto, scherzando, Don Matteo, che, come le figliuole, non sapeva una parola d’inglese.

Soltanto Sara aveva provato il desiderio di sfogliare uno dei volumi, precisamente il quarto, ed era rimasta commossa di vedere in capo di quelle lettere i nomi di Mary, di Christina e di Sarah facilmente riconoscibili. My little Sarah! Quante volte c’era? Cinquanta volte; le aveva contate. E tenne per sè la scoperta, quasi un dolce segreto, anzi, un dolce mistero, di cui avrebbe chiesto spiegazione al cugino appena arrivato. Che significava quel little? E perché ai nomi di Mary e di Christina era premesso invece My dear?

Ed ecco, finalmente, una sera il promesso telegramma da Genova:

Arriverò domani.

Quantunque da una settimana la casa fosse preparata a riceverlo, insieme col creduto suo amico Storm, pel quale era stata preparata alla meglio una camera, il telegramma produsse un po’ di tramestìo. Don Matteo aveva raccomandato alle figlie:

– Molta pulizia! Molta pulizia!

E la casa era stata ridotta uno specchio, per quel che permetteva un’abitazione di Merenzòla. Don Matteo si era occupato specialmente a far ripulire quella specie di giardinetto, o di orto, che la circondava.

Il ritorno del figlio di Domelli, come lo chiamavano i merenzolesi, era un grande avvenimento. Infatti, una folla di curiosi, donne, ragazzi, ne attese l’arrivo all’entrata del viale alberato che precedeva le prime case.

Don Matteo e Maria gli erano andati incontro con quella carcassa postale, la quale assumeva superbamente il nome di vettura – corriera, smentito dai due ronzini che la trascinavano giù, da Merenzòla alla stazione ferroviaria, e da questa su, su per i cinque chilometri di stradale, con il sacco della posta e qualche raro passeggero.

Attendevano da un’ora l’arrivo del treno.

Per farsi riconoscere Alberto, dal finestrino, prima che il convoglio si fosse fermato, chiamò: «Zio! zio!», salutando con gesti affettuosi anche la cugina.

Egli si accorse della penosa sorpresa provata da quei due dopo che era sceso dal vagone.

Abbracciato e baciato lo zio, aveva preso per le mani Maria e l’aveva baciata, dicendo allegramente:

– In America non si può baciare più; ma qui, faccio all’antica, che è la più gentile usanza… Ah! sono il solo viaggiatore che viene a Merenzòla? – soggiunse appena il treno ripartì. – Tanto meglio!… il mio bagaglio? Queste due valigie. I bauli arriveranno domani.

Si vedeva; aveva qualcosa da dire, ed esitava, sorridendo. Ma, appena montati in carrozza, parlò:

– Sai, zio? Io l’ho già scritto alla cugina: ma forse non mi sono spiegato chiaro. Mi trovate, inattesamente, un gobbetto porta-fortuna, è vero?

– Come mai? Tu eri diritto come un fuso! – lo interruppe don Matteo.

– Una trave, che poteva ammazzarmi, mi produsse tale lesione alla spalla sinistra da ridurmi come mi vedete. Non ho voluto sottopormi a un’operazione chirurgica…

Padre e figlia non risposero niente; e don Matteo per sviare il discorso, domandò sovvenendosi:

– E il tuo amico Storm? Sono arrivati libri e giornali diretti a lui.

– Oh! quel matto! – rispose seriamente. – È rimasto a mezza strada; ma verrà; me l’ha promesso.

E riprese:

– Cara cugina, voi e le vostre sorelle non avete sospettato niente quando, nell’ultima mia lettera, vi scrivevo «Non parliamo di cose da crescere alle spalle. Vedrete che le ali possono accennare a spuntare e poi arrestarsi, atrofizzarsi!» Proprio niente? Che diranno Cristina e Sara? E che diranno soprattutto, le pettegoline di Merenzòla? Non m’importa di esse…

La carrozza montava lentamente.

– Io – continuò – son venuto per lo zio, che mi sembra più giovanotto di me, e ne sono lietissimo; e son venuto anche per le care cugine… Sapete che vi siete fatta assai più bella di quanto immaginavo? Oh, come s’invecchia sollecitamente in America! Voi… Permetti, zio, che riprenda con la cugina il tu di quando facevamo il chiasso nell’orto? E voi, cugina?… Grazie! Il voi cominciava a impacciarmi nelle lettere… Come rimarranno Cristina e Sara sentendosi dare inaspettatamente del tu!

Anche con quella protuberanza alla spalla sinistra, Alberto era un bel giovane; Maria lo pensava. Ma, stando silenziosa, un po’ perché intimidita della presenza del nuovo arrivato, un po’ perché dispiacente di averlo trovato col brutto difetto che lo rendeva ridicolo, riusciva a stento a nascondere la delusione di quel momento. Sentiva ricadere sopra di sè, su le sorelle, su la sua famiglia, insomma, tutte le feroci malignità delle ragazze merenzòlesi, che non si lascerebbero sfuggire l’occasione di ridere alle loro spalle, quasi la disgrazia del cugino le riguardasse in qualche modo.

La carrozza montava ancora più lenta; pareva che le due rozze sonnecchiassero nel trascinarla. Don Matteo si scusava.

– Ma, anzi! Ma, anzi! – diceva Alberto. – È una sensazione nuova per me. Voialtri non potete apprezzarla. Passare dalle corse a rotta di collo – e spesso ci si rompe il collo davvero! – a questa specie di dondolìo, di cullamento che fa sentire un po’ l’ansia dell’arrivo… Ah, che delizia!

– Voi, caro cugino…

– Tu, se non ti dispiace…

– Già… Bisogna abituarsi. Tu parli così per non mortificarci. Ci trovi ancora mezzi selvaggi… Non è colpa nostra. Vedi dove la cattiva sorte ci ha fatto nascere?

Si scorgevano, in alto, quasi affacciate su la roccia, le prime case di Merenzòla, sospese tra cielo e terra, infocate dal sole in tramonto.

– Invidiabile! – esclamò Alberto Domelli.

***

Si lasciava vivere, da dieci giorni, come un ragazzo in vacanza, come un ragazzo viziato dalla eccessiva tolleranza dei parenti. Dormiva otto ore filate, ed era in piedi all’alba. Andare a letto senza sentirsi stordito da rappresentazioni teatrali, da concerti, da conversazioni al club o nei caffè, da ricevimenti; svegliarsi senza nessun senso di stanchezza, con la soddisfazione di un dolce benessere, con nessuna preoccupazione di qualcosa da attendere, o da temere; rifarsi, insomma, mezzo selvaggio, come aveva detto la cugina Maria… Da dieci giorni gli sembrava che non ci potesse essere maggior felicità al mondo; e voleva godersela intera.

Usciva poco di casa. Il villaggio egli lo aveva percorso per lungo e per largo nei primi giorni. Non c’erano rarità, né monumenti da ammirare; poteva forse dirsi un monumento preistorico da un capo all’altro. Poi lo avevano interessato gli abitanti. I pezzi grossi, il parroco, il farmacista, il medico condotto, il pretore erano venuti ad ossequiarlo quasi per curiosità, non per altro; infatti non erano più tornati, con gran soddisfazione di lui, a importunarlo di domande.

Ora voleva assaporare le pure, ineffabili gioie della famiglia – diceva un po’ maliziosamente – e studiava le cugine che non stavano più in soggezione davanti a lui, da che si erano adattate al tu, e a certi suoi modi di parlare e di fare. Da principio, però rimanevano un po’ stupite, non comprendevano bene se il cugino parlasse seriamente o volesse ridere di loro.

– Avresti dovuto condurre qui un’americana!

– Non ci sono americane!

Maria e Cristina si erano guardate negli occhi a questa inattesa risposta. Alberto, nell’orto, con una spolverina di tela grezza, sdraiato su l’erba, appoggiando le spalle al tronco di un olivo, fumava tranquillamente.

– Sì, non ci sono americane – ripeté, accorgendosi dello stupore delle cugine. – C’erano una volta, e spesso belle; ma oggi se ne trova rarissimamente qualche esemplare. Si è venuto creando un sesso intermedio tra maschio e femmina, che ha l’esteriore della donna e i caratteri dell’uomo. Sesso ibrido, il quale si figura di raggiungere con lo sviluppo del corpo, a furia di esercizi di forza, un’importanza, un dominio, una supremazia che la donna otteneva, una volta, naturalmente, con la bellezza, con la grazia, con la bontà, con la passione anche… Cose tutte che ora non esistono più in America. Un impeto di furore, di demenza, reso possibile soltanto dalla supina rassegnazione degli uomini… Ecco perché non ce ne sono più!

Cristina, malignetta quanto Maria, scoppiò a ridere, e disse:

– Che ti hanno dunque fatto di male le americane, da giudicarle così?

– A me? Niente. Mi duole che le italiane appena arrivate là, diventino peggio di esse. È un orrore!

– E tu sei scappato via per non vederle? Povere americane!

Povere, no, perché hanno molti quattrini, anche milioni; ma io le compiango, in certi momenti. I quattrini le hanno guastate. Bisognerebbe ridurle alla miseria…

– Andiamo, via! – fece Cristina. – Oggi Alberto è nel suo brutto quarto d’ora.

– Vieni tu, my little Sarah, – egli disse vedendo apparire di fondo al pergolato la cugina minore. – Le tue sorelle forse mi credono mezzo matto…

– A proposito – rispose Sara, con un esitante sorriso su le labbra. – Dovreste spiegarmi… – e a un gesto di protesta di Alberto, soggiunse, interrompendosi: – No, io non posso abituarmi al tu: mi sembra di non poter essere sincera.

– Quando è così!… – fece Alberto, prendendole una mano, e trattenendola tra le sue.

– Dovreste spiegarmi un mistero… mistero per la mia ignoranza. Ho trovato in uno dei volumi del signor Storm…

– Ah! Ho capito! Hai trovato il tuo nome e quelli delle tue sorelle in testa alle lettere che compongono il libro. È questo il mistero?

– Sì.

– Ebbene, il mio amico Storm mi chiese un giorno tre nomi di donne, appunto di tre cugine… Ed io mi divertii a dargli i vostri; ecco spiegato tutto.

– Ma perché avanti il mio nome ha scritto sempre little? Che significa?

– Significa… quasi una carezza: Mia piccola Sara!

– E ai nomi di Maria e di Cristina perché ha premesso invece…

My Dear!…

– No… Si pronuncia così; significa semplicemente: Mia cara…

– E che cosa ci scrive?

– Cioè, vi fa scrivere da un cugino lontano? Ma è un romanzo…

– Peccato che non possiamo leggerlo!

– I romanzi è meglio farli…

– Come?

– Senza aver l’idea di voler farli.

– Ecco le vostre solite stramberie!

– Chi sa che tu già non ne abbia uno per la testa…

– Io?

– Ti trovo così diversa dalle tue sorelle!

– E… il romanzo come termina?

– Oh! Quel bizzarro di Storm non ha voluto farlo finire. Quante cose, in questo mondo, non finiscono come dovrebbero finire!

– È vero!

– Come lo sai, piccola… my little Sarah?

– Vi divertite a imbrogliarmi? Certe cose si sanno… perché si sanno.

– Se questa risposta l’avesse udita l’amico Storm, l’avrebbe già messa in qualche sua storiella.

– Non fa altro?… E voi, cugino, perché non scrivete romanzi anche voi?

– Davvero! Me lo domando: perché non ne scrivo anch’io?

– Mi canzonate? E intanto… mi avete fatto dimenticare ch’ero venuta per dirvi: Volete fare colazione?

– Sùbito.

E siccome teneva ancora la cugina per una mano finse di voler sostenersi ad essa, e balzò in piedi.

Don Matteo, era felice che il nipote si fosse già adattato alla vita sonnolenta di Merenzòla. Vinto il naturale ritegno di sembrare curioso dei fatti altrui, approfittò di quella serata piovosa, nebbiosa a intervalli, uggiosissima (che costringeva anche lui a rimaner confinato in casa), per fare ad Alberto alcune domande mal frenate sulla punta della lingua da una settimana.

Colse il pretesto che da due giorni il nipote si chiudeva nella sua camera, e dalle sette di mattina alle dodici rimaneva a scrivere per riprendere dalle quattro alle otto di sera.

– Hai ragione – gli disse. – Noi ti abbiamo fatto trascurar troppo i tuoi amici di là. Non dir male di Merenzòla, se è vero che ti senti quasi rinato…

– Se è vero? Ma lo vedi da te, zio. Son diventato un gran poltrone.

– Là, avevi molto da fare?

– Non stavo in ozio.

– Qui, nipote mio, anche volendo…

– Voglio muovermi un po’. Domani, se farà bel tempo, andrò al Bosco delle Streghe. Verrete anche voialtre? Comprendo: avete paura. Ma di giorno le Streghe non si fanno vedere…

– E neppure di notte – affermò Don Matteo.

– In certe notti, in certi mesi, sì, a quel che dicono… È un ricordo di quando ero bambino. Raccontava il babbo di averle incontrate lui in persona. Tre bruttissime vecchie, che gli diedero…

– La famose arance… marcite dentro!… Sì, sì. Tuo padre però – tu non puoi sospettare che io voglia discreditare mio fratello – tuo padre era un po’ fantastico, vedeva quel che non era… Se si metteva in testa una cosa, a furia di ripeterla, finiva col crederla vera anche lui. Le famose arance marcite non le ha mai viste nessuno: ma quando egli ne parlava…

– Ebbene, zio… io, credo alle Streghe, e voglio tentare di incontrarle! Ne ho discorso con una specie di… Mago americano… che ha messo insieme parecchi milioni dicendo la sorte alla gente. Mi ha consigliato: – Vada! Può darsi che riesca.

– In che cosa?

Don Matteo lo fissava tra incredulo e stupìto. Le cugine, che avevano riso sentendo ricordare le arance marcite, erano diventate serie. A Merenzòla se ne parlava spesso come di fatto realmente accaduto. E quando un affare, un matrimonio anche, per imprevedibili ragioni andavano a male, ormai si ripeteva: Come le arance delle Streghe! Qualcuno diceva: Come le arance marcite di Titta Domelli! Erano rimaste proverbiali.

– Riuscire in che cosa? – insisté Don Matteo.

– Il difficile è trovare un compagno – soggiunse Alberto. – Credo però che qualche povero diavolo sarà tentato di affrontare la dubbia probabilità… Non dovresti occupartene tu, zio; la buona offerta dev’essere spontanea. Se arrivasse qui l’amico Storm, sarebbe capacissimo, per affetto, per spavalderia, di profferirsi: – Ti accompagno io. – Non è americano per nulla. Ma si è sperduto per strada. Forse arriverà quando non sarei più in tempo; giacchè si tratta di circostanze favorevoli che si combinano raramente.

– Scusa – fece lo zio – ti confesso che non capisco… Mi sembra impossibile che tu creda alle Streghe! Che vorresti da esse? Altre arance marcite come quelle di tuo padre?

Maria e Cristina si misero a ridere.

– Caso mai – disse Cristina – il cugino le vorrebbe d’oro. Ho sentito dire che un pecoraio…

– Non mi dispiacerebbero; ma io pretendo qualcosa di meno. Pare che quella data notte, le Streghe vadano attorno per far del bene; basta saper propiziarsele.

Alberto in quel momento si sentiva tramutato in Mathew Storm, il brioso e fantastico raccontatone delle storielle tanto gustate in America. Preparava una storiella in azione; l’avrebbe scritta dopo. E si divertiva a procurare quella viva curiosità con cui afferrava i lettori sin dalle prime righe delle sue brevi narrazioni che non andavano più in là di mezza dozzina di pagine.

– Care cugine – riprese – io posseggo una bacchettina fatata non più lunga nè più grossa di un manichino di penna: batto, e sgorgano dollari; ma in Europa, in Italia specialmente, la sua virtù è paralizzata…

– Oh, cugino! Le Streghe… la bacchettina fatata!… Questa sera sei in vena di sballarle grosse!

Maria e Cristina si sentivano burlate. Sara stava zitta.

– È il cattivo tempo – soggiunse Don Matteo. Povero Alberto… Non sa come svagarsi.

– Parlo seriamente, zio!

– E seriamente a Merenzòla si dicono e si odono tante sciocchezze intorno a te da superare le tue… fiabe. Tu sei scappato dall’America perché hai ammazzato il marito di una ricca signora… E sei venuto a nasconderti qui dove la polizia non saprà scovrirti! Tu hai fatto un grosso fallimento… doloso, s’intende, e vuoi goderti qui i quattrini rubati agli azionisti di una Banca, o di un’Impresa di appalti; perché in America, affermano, quando uno scappa per fallimento… chi si è visto si è visto! Tu avresti voluto prender moglie, ma…

– … la mia gobba, s’intende!

– Ah, lo sai dunque?

– Lo immagino…

– Dopo la disgrazia della gobba, la tua fidanzata non volle più saperne di te, e tu sei venuto a Merenzòla per consolarti, per dimenticare…

– Qui i miei compaesani si sono un po’ accostati alla verità… un pochino!… Infatti, zio, son venuto per disfarmi di questa gobba che fa ridere la gente alle mie spalle.

– In che modo? – domandò Don Matteo.

– Ma, babbo… Pare impossibile! – lo rimproverò Cristina, udendo quella domanda. – Se la farà levar via col rasoio da mastro Lello il barbiere!

– Che ne dice la my little Sarah?

Alla domanda del cugino, Sara parve rinvenire tutt’a un tratto, da una delle sue solite assenze quando gli altri conversavano – suo padre le chiamava così – e rispose, fuori tono:

– Sciocchezze! Se si dovesse dar retta a tutti!… Meno male che spiove.

– Chi sa dove mia sorella aveva la testa! – esclamò Maria.

Era quel che la rendeva deliziosa per la sincerità quasi ingenua dei suoi atti e delle sue parole. Alberto la studiava senza averne l’aria. Gli erano bastati pochi giorni per conoscere la vanitosa leggerezza di Maria, la caustica e forse invidiosa malignità di Cristina. Dovevano aver provato tutte e due una grande delusione con l’arrivo del cugino… gobbo; che non mostrava, inoltre, nessuna particolare attenzione per esse, e preferiva di scherzare con Sara, come con una ragazzina. Che era venuto a fare? Proprio per le Streghe e per la gobba? Questo mistero le irritava.

Specialmente ora che Alberto passava le giornate in camera a scrivere e a spedire grosse buste raccomandate, le quali costavano parecchie lire.

E le amiche, giovani e vecchie, che venivano a visitarle, erano più curiose e più pettegole di loro intorno al mistero del cugino. Nessuno riusciva a capire, a Merenzòla, quest’esilio volontario di un giovane, di un bel giovane ricco (non voleva dir niente se gobbo), che dall’America, dov’è il paradiso dei godimenti di ogni sorta, era venuto a ridursi lassù, quasi fuori del mondo. Così, per le indiscrezioni delle due sorelle, si era appresa la storia delle Streghe e della gobba che il figlio di Titta Domelli voleva farsi segare da loro. Se non che…

La vera tromba di banditore era stato il farmacista. Appena saputa la notizia da una vecchia sorella, l’aveva comunicata a destra e a manca. Qualcuno gli domandava:

– Può darsi, farmacista?

– Tutto può darsi. Ricordo, anzi, di aver letto in un libro che la gobba tolta a uno le Streghe devono appiccicarla a un altro: e per ciò il figlio di Titta Domelli cerca una persona… Pagherebbe una buona somma!

– L’ha lui… il fagotto? E se lo tenga!

Un povero diavolo, tentato dal guadagno del premio, s’era presentato a Don Matteo.

– Se fosse vero… io sarei pronto.

– Chi ve l’ha detto?

– Il farmacista.

– Non ha altro da fare? Impasti pillole!

E Don Matteo a tavola raccontava, tra scherzoso e seccato, la profferta di quel povero diavolo che, pur di guadagnare un bel premio, si adattava a buscarsi la gobba.

– Quell’imbecille del farmacista ha pieno Merenzòla del fatto che le Streghe la tolgono a uno per appiccicarla ad un altro… E ci crede lui il primo, l’imbecille!

– Se Storm arrivasse! – esclamò Alberto, con grande serietà.

Dopo desinare era sceso nell’orto e fumava un avana. Trovò Sara occupata a ripulire alcune pianticine presso il muro di cinta.

– Mani caritatevoli! – esclamò. – Lo sai, cugina, che le piante hanno occhi, e forse orecchi, e forse anche un linguaggio? Ti riconoscono, ti ringraziano…

– E io non sento nulla! – rispose Sara, sorridendo dolcemente.

– Da oggi in poi lo indovinerai.

– Se si fosse certi di indovinare!… Cugino, – soggiunse dopo un istante di esitazione – non ho voluto domandarvelo davanti agli altri per timore di sentirmi burlare… È proprio vero che le Streghe…?

– Verissimo!

– E che occorre una persona che si offerisca spontaneamente di accompagnarvi?

– Verissimo, pur troppo!

– Io… potrei?

– Tu, my little Sarah! E non hai paura?…

– Che m’importerebbe? Purché voi…

Alberto si sentì affluire violentemente il sangue al cuore. Si era già accorto di qualcosa che si agitava in fondo al suo animo in maniera oscura, involuta; ma in quel momento gli parve che una gran luce si facesse dentro di lui… Oh, come l’amava! Come l’amava la sua little Sarah!

Si contenne. Avrebbe voluto prenderla per le mani, stringerla al petto, gridarle: – Non ho bisogno di altra prova! – Ma neppure in quel momento seppe dimenticare di essere Mathew Storm, l’inesauribile autore di Lettere alle cugine, di Il nido delle rondini, di Rose sfiorite, di Brancolando, di Sogni non sogni… I cinque volumi che formavano il suo glorioso segreto di artista.

Si contenne, e, con voce turbata suo malgrado, disse:

– E tuo padre che penserà?

– Dovrà dire che avrò fatto un’opera buona.

– Allora, senti…

E presero gli accordi.

***

Quasi una fuga di innamorati!

La serata era splendida. Il plenilunio inondava Merenzòla e le campagne, e, a sinistra, il nereggiante Bosco delle Streghe.

Uscirono dalla porticina dell’orto, dopo che tutti, nella casa e nel vicinato, erano andati a dormire.

Sara, dalla commozione, aveva dovuto appoggiarsi al braccio di Alberto. Si sentiva tremare le gambe; un nodo le stringeva la gola. Così, muti, affrettando il passo lungo la strada sassosa, erano arrivati all’entrata del bosco.

Sotto le dense fronde degli alberi faceva quasi buio. Anche Alberto si sentiva sopraffatto da commozione profonda. Avea preso Sara per mano, e la guidava a traverso gli intrighi dei polloni cresciuti a piè dei tronchi e che in certi punti formavano siepe.

Gran silenzio. Di quando in quando un lieve stormire di fronde, un grido di uccello notturno; e poi gran silenzio di nuovo.

– Hai paura?

– No.

– Sei stanca?

– Un pochino…

La fece sedere sul grosso tronco di albero steso per terra.

– Vengono?… – balbettò Sara.

– Non verranno; non verranno! – rispose Alberto con lieve tremito nella voce. – Le Streghe hanno terrore delle Fate; e qui c’è la più bella, la più buona, la più pietosa Fata del mondo: tu, mia piccola Sara! Avrei dovuto risparmiarti questa prova; ma chi vuol bene è egoista; non sa privarsi della grandissima gioia di accertarsi di essere egualmente voluto bene… Noi abbiamo incredibili inconsapevoli previsioni che nessuno sa spiegare. Là, in mezzo all’orrendo frastuono della vita americana, io ero, di tanto in tanto, afferrato da violento desiderio, quasi sentissi una voce che mi richiamava qui… Mi ero figurato che soltanto la stanchezza di quella vita turbinosa, per contrasto, mi spingesse verso il villaggio nativo, tra parenti che conoscevo appena, vicino a te che non conoscevo affatto. No!… Un’invincibile smania di essere amato senza secondi fini, non ostante un difetto che rende ridicolo, mi ha fatto venire qui dove immaginavo – e non mi sono ingannato! – di trovare il cuor sincero, capace di un grandissimo sacrificio. Fino a ieri, però, m’ero creduto una specie di romanziere, di artista, che audacemente avesse tentato di foggiare la realtà a modo suo e non fosse riuscito. Tu eri ancora enimma per me; io, forse, un’incognita per te. Ma, è bastato un sublime motto perché il mistero dei nostri cuori si rivelasse. My little Sarah… Non ti chiamerò più altrimenti!

Si udì un lieve rumore. Sarà trasalì.

– Eccole!

– Rassicùrati, non verranno… perché ci sei tu. Dimmi, dimmi intanto: Quel che forse ti è sembrato un profondo sentimento di carità non è qualcosa di meglio, di più ardente? Guarda bene nel tuo cuore. Non vorrei che un giorno tu dicessi: Mi ero ingannata!

Si udì di nuovo quel lieve rumore.

Sara si rizzò in piedi, girando attorno gli occhi spaventati.

– Non verranno più! – riprese Alberto. – Come non ti accorgi che il prodigio sta per compirsi? Guarda bene nel tuo cuore. Vuoi tu essere l’adorata compagna della mia vita? Vuoi tu, mia piccola Sara?

Per tutta risposta, ella si abbandonò sul petto del giovane.

Allora si udì un fruscio di qualcosa che sfuggiva rapidamente. Egli che non aveva ancora osato di baciare la cugina, le prese una mano, le sollevò il braccio fino alla spalla sinistra di lui, forzandola a toccare.

La gobba era sparita…

Incredula, Sara volle accertarsene ripetutamente.

E ripeteva

– Come è avvenuto? Possibile? Come… Quanto sono felice! Oh! Alberto!…

– Affrettiamoci a tornare – egli disse con risoluzione improvvisa. Pareva folle di gioia.

Erano le due dopo la mezzanotte. La luna piena calava lenta dietro le montagne. Merenzòla era tuttavia inargentata dal gran chiarore.

Camminavano lestamente, presi per mano come due ragazzi. Sara stentava a credere ai suoi occhi: la gobba era sparita! Dunque, aveva prodotto davvero lei quel portento? Le pareva un miracolo.

Com’era bello il suo Alberto!

Diceva così, tra sé e sé, ammirando la persona svelta, diritta, che in certi punti la precedeva.

Intanto il novelliere pensava alla chiusa di quella sua little story in azione.

– Doveva svelare il trucco, o lasciare intorno all’avvenimento la incerta nebbia di meraviglioso, di fantastico che tanto sarebbe piaciuta ai lettori?

E neppur Sara allora seppe niente. Tutta Merenzòla accorse la mattina dopo ad ammirare il prodigio. Non ne parlarono i giornali, perché nel villaggio nessuno aveva la vanità, nè la possibilità di fare il corrispondente.

Soltanto un anno dopo, quando Sara ebbe imparato bene l’inglese, leggendo tra le storielle di Mathew Storm quella del Bosco delle Streghe, apprese che la gobba di suo marito era stato un trucco bizzarro, un audace tentativo, una fantasiosa americanata; e fu lieta di sapere che Alberto conservava come cara reliquia la gibbosità artificiale a cui egli doveva la gioia di un amore senza pari e di un’offerta inconsapevolmente sublime.

CONSIDERAZIONI

Un intreccio lieve, caratterizzato da delicate sfumature, viene svolto con
un esemplare equilibrio tra la realtà e il fiabesco. La novella, appunto
per questo, va considerata come una delle più riuscite tra le
molte scritte dall’Autore. Ha, inoltre, un sostrato morale
che viene perseguito con lineare sicurezza e senza che
esso sovraccarichi i tenui e cari motivi fantastici che,
anche se non nuovi, sono rielaborati da una
sensibilità notevolmente originale.

Luigi Capuana

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