La coscienza di Zeno – Capitolo 7


La coscienza di Zeno. Capitolo 7. Storia di in associazione commerciale

Prima pubblicazione: 1º maggio 1923, Premiato Stabilimento tipografico Licinio Cappelli in Rocca di San Casciano (FC).

Note 
Diritti d’autore: no
Edizione di riferimento: Italo Svevo, Romanzi, Einaudi-Gallimard, Torino 1993 .

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La coscienza di Zeno. Capitolo 1. Prefazione

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Capitolo 7. Storia di in associazione commerciale

Fu Guido che mi volle con lui nella sua nuova casa commerciale. Io morivo dalla voglia di farne parte, ma son sicuro di non avergli mai lasciato indovinare tale mio desiderio. Si capisce che, nella mia inerzia, la proposta di quell’attività in compagnia di un amico, mi fosse simpatica. Ma c’era dell’altro ancora. Io non avevo ancora abbandonata la speranza di poter divenire un buon negoziante e mi pareva più facile di progredire insegnando a Guido, che facendomi insegnare dall’Olivi. Tanti a questo mondo apprendono soltanto ascoltando se stessi o almeno non sanno apprendere ascoltando gli altri.

Per desiderare quell’associazione avevo anche altre ragioni. Io volevo essere utile a Guido! Prima di tutto gli volevo bene e benché egli volesse sembrare forte e sicuro, a me pareva un inerme abbisognante di una protezione che io volentieri volevo accordargli. Poi anche nella mia coscienza e non solo agli occhi di Augusta, mi pareva che più m’attaccavo a Guido e più chiara risultasse la mia assoluta indifferenza per Ada.

Insomma io non aspettavo che una parola di Guido per mettermi a sua disposizione, e questa parola non venne prima, solo perché egli non mi credeva tanto inclinato al commercio visto che non avevo voluto saperne di quello che mi veniva offerto in casa mia.

Un giorno mi disse:

– Io ho fatta tutta la Scuola Superiore di Commercio, ma pur mi dà un po’ di pensiero di dover regolare sanamente tutti quei particolari che garantiscono il sano funzionamento di una casa commerciale. Sta bene che il commerciante non ha bisogno di saper di nulla, perché se ha bisogno di una bilancia chiama il bilanciaio, se ha bisogno di legge invoca l’avvocato e per la propria contabilità si rivolge ad un contabile. Ma è ben duro dover consegnare da bel principio la propria contabilità ad un estraneo!

Fu la sua prima allusione chiara al suo proposito di tenermi con lui. Veramente io non avevo fatta altra pratica di contabilità che in quei pochi mesi in cui avevo tenuto il libro mastro per l’Olivi, ma ero certo d’essere il solo contabile che non fosse stato un estraneo per Guido.

Si parlò chiaramente per la prima volta dell’eventualità di una nostra associazione quand’egli andò a scegliere i mobili per il suo ufficio. Ordinò senz’altro due scrivanie per la stanza della direzione. Gli domandai arrossendo:

– Perché due?

Rispose:

– L’altra è per te.

Sentii per lui una tale riconoscenza che quasi l’avrei abbracciato.

Quando fummo usciti dalla bottega, Guido, un po’ imbarazzato, mi spiegò che ancora non era al caso di offrirmi una posizione in casa sua. Lasciava a mia disposizione quel posto nella sua stanza, solo per indurmi a venir a tenergli compagnia ogni qualvolta mi fosse piaciuto. Non voleva obbligarmi a nulla ed anche lui restava libero. Se il suo commercio fosse andato bene m’avrebbe concesso un posto nella direzione della sua casa.

Parlando del suo commercio, la bella faccia bruna di Guido si faceva molto seria. Pareva ch’egli avesse già pensate tutte le operazioni a cui voleva dedicarsi. Guardava lontano, al disopra della mia testa, ed io mi fidai tanto della serietà delle sue meditazioni, che mi volsi anch’io a guardare quello ch’egli vedeva, cioè quelle operazioni che dovevano portargli la fortuna. Egli non voleva camminare né la via percorsa con tanto successo da nostro suocero né quella della modestia e della sicurezza battuta dall’Olivi. Tutti costoro, per lui, erano dei commercianti all’antica. Bisognava seguire tutt’altra via, ed egli volentieri si associava a me perché mi riteneva non ancora rovinato dai vecchi.

Tutto ciò mi parve vero. Mi veniva regalato il mio primo successo commerciale ed arrossii dal piacere una seconda volta. Fu così e per la gratitudine della stima ch’egli m’aveva dimostrato, ch’io lavorai con lui e per lui, ora più ora meno intensamente, per ben due anni, senz’altro compenso che la gloria di quel posto nella stanza direttoriale. Fino ad allora fu quello certamente il più lungo periodo ch’io avessi dedicato ad una stessa occupazione. Non posso vantarmene solo perché tale mia attività non diede alcun frutto né a me né a Guido ed in commercio – tutti lo sanno – non si può giudicare che dal risultato.

Io conservai la fiducia d’esser avviato ad un grande commercio per circa tre mesi, il tempo occorrente a fondare quella ditta. Seppi che a me sarebbe toccato non solo di regolare dei particolari come la corrispondenza e la contabilità, ma anche di sorvegliare gli affari. Guido conservò tuttavia un grande ascendente su di me, tanto che avrebbe potuto anche rovinarmi e solo la mia buona fortuna glielo impedì. Bastava un suo cenno perché accorressi a lui. Ciò desta la mia stupefazione ancora adesso che ne scrivo, dopo che ho avuto il tempo di pensarci per tanta parte della mia vita.

E scrivo ancora di questi due anni perché il mio attaccamento a lui mi sembra una chiara manifestazione della mia malattia. Che ragione c’era di attaccarsi a lui per apprendere il grande commercio e subito dopo restare attaccato a lui per insegnargli quello piccolo? Che ragione c’era di sentirsi bene in quella posizione solo perché mi sembrava significasse una grande indifferenza per Ada la mia grande amicizia per Guido? Chi esigeva da me tutto questo? Non bastava a provare la nostra indifferenza reciproca l’esistenza di tutti quei marmocchi cui davamo assiduamente la vita? Io non volevo male a Guido, ma non sarebbe stato certamente l’amico che avrei liberamente prescelto. Ne vidi sempre tanto chiaramente i difetti che il suo pensiero spesso mi irritava, quando non mi commoveva qualche suo atto di debolezza. Per tanto tempo gli portai il sacrificio della mia libertà e mi lasciai trascinare da lui nelle posizioni più odiose solo per assisterlo! Una vera e propria manifestazione di malattia o di grande bontà, due qualità che stanno in rapporto molto intimo fra di loro.

Ciò rimane vero se anche col tempo fra noi si sviluppò un grande affetto come succede sempre fra gente dabbene che si vede ogni giorno. E fu un grande affetto il mio! Allorché egli scomparve, per lungo tempo sentii com’egli mi mancava ed anzi l’intera mia vita mi sembrò vuota poiché tanta parte ne era stata invasa da lui e dai suoi affari.

Mi viene da ridere al ricordare che subito, nel nostro primo affare, l’acquisto dei mobili, sbagliammo in certo qual modo un termine. Ci eravamo accollati i mobili e non ci decidevamo ancora a stabilire l’ufficio. Per la scelta dell’ufficio, fra me a Guido c’era una divergenza di opinione che la ritardò. Da mio suocero e dall’Olivi io avevo sempre visto che per rendere possibile la sorveglianza del magazzino, l’ufficio vi era contiguo. Guido protestava con una smorfia di disgusto:

– Quegli uffici triestini che puzzano di baccalà o di pellami! – Egli assicurava che avrebbe saputo organizzare la sorveglianza anche da lontano, ma intanto esitava. Un bel giorno il venditore dei mobili gl’intimò di ritirarli perché altrimenti li avrebbe gettati sulla strada e allora lui corse a stabilire un ufficio, l’ultimo che gli era stato offerto, privo di un magazzino nelle vicinanze, ma proprio al centro della città. È perciò che il magazzino non lo ebbimo mai più.

L’ufficio si componeva di due vaste stanze bene illuminate e di uno stanzino privo di finestre. Sulla porta di questo stanzino inabitabile fu appiccicato un bollettino con l’iscrizione in lettere lapidarie: Contabilità; poi, delle altre due porte l’una ebbe il bollettino: Cassa e l’altra fu addobbata dalla designazione tanto inglese di Privato. Anche Guido aveva studiato il commercio in Inghilterra e ne aveva riportate delle nozioni utili. La Cassa fu, come di dovere, fornita di una magnifica cassa di ferro e del cancello tradizionale. La nostra stanza Privata divenne una camera di lusso splendidamente tappezzata in un colore bruno vellutato e fornita delle due scrivanie, di un sofà e di varie comodissime poltrone.

Poi venne l’acquisto dei libri e dei varii utensili. Qui la mia parte di direttore fu indiscussa. Io ordinavo e le cose arrivavano. Invero avrei preferito di non essere seguito tanto prontamente, ma era mio dovere di dire tutte le cose che occorrevano in un ufficio. Allora credetti di scoprire la grande differenza che c’era fra me e Guido. Quanto sapevo io, mi serviva per parlare e a lui per agire. Quand’egli arrivava a sapere quello che sapevo io e non più, lui comperava. È vero che talvolta in commercio fu ben deciso a non far nulla, cioè a non comperare né vendere, ma anche questa mi parve una risoluzione di persona che crede di saper molto. Io sarei stato più dubbioso anche nell’inerzia.

In quegli acquisti fui molto prudente. Corsi dall’Olivi a prendere le misure per i copialettere e per i libri di contabilità. Poi il giovine Olivi m’aiutò ad aprire i libri e mi spiegò anche una volta la contabilità a partita doppia, tutta roba non difficile, ma che si dimentica tanto facilmente. Quando si sarebbe arrivati al bilancio, egli m’avrebbe spiegato anche quello.

Non sapevamo ancora quello che avremmo fatto in quell’ufficio (adesso so che neppure Guido allora lo sapeva) e si discuteva di tutta la nostra organizzazione. Ricordo che per giorni si parlò dove avremmo messi gli altri impiegati se di essi avessimo avuto bisogno. Guido suggeriva di metterne quanti potessero capirvi nella Cassa. Ma il piccolo Luciano, l’unico nostro impiegato per il momento, dichiarava che là dove c’era la cassa, non potessero esserci altre persone fuori di quelle addette alla cassa stessa. Era ben dura di dover accettare delle lezioni dal nostro galoppino! Io ebbi un’ispirazione:

– A me sembra di ricordare che in Inghilterra si paghi tutto con assegni.

Era una cosa che m’era stata detta a Trieste.

– Bravo! – disse Guido. – Anch’io lo ricordo ora. Curioso che l’avevo dimenticato!

Si mise a spiegare a Luciano in lungo e in largo come non si usasse più di maneggiare tanto denaro. Gli assegni giravano dall’uno all’altro in tutti gl’importi che si voleva. Fu una bella vittoria la nostra, e Luciano tacque.

Costui ebbe un grande vantaggio da quanto apprese da Guido. Il nostro galoppino è oggidì un commerciante di Trieste assai rispettato. Egli mi saluta ancora con una certa umiltà attenuata da un sorriso. Guido spendeva sempre una parte della giornata ad insegnare dapprima a Luciano, poi a me e quindi all’impiegata. Ricordo ch’egli aveva accarezzato per lungo tempo l’idea di fare il commercio in commissione per non arrischiare il proprio denaro. Spiegò l’essenza di tale commercio a me e, visto che evidentemente io capivo troppo presto, si mise a spiegarlo a Luciano che per molto tempo stette a sentirlo coi segni della più viva attenzione, i grandi occhi lucenti nella faccia ancora imberbe. Non si può dire che Guido abbia perduto il suo tempo, perché Luciano è il solo fra di noi che sia riuscito in quel genere di commercio. Eppoi si dice che la scienza è quella che vince!

Intanto da Buenos Aires arrivarono i pesos. Fu un affare serio! A me era parsa dapprima una cosa facile, ma invece il mercato di Trieste non era preparato a quella moneta esotica. Ebbimo di nuovo bisogno del giovine Olivi che c’insegnò il modo di realizzare quegli assegni. Poi, perché a un dato punto fummo lasciati soli, sembrando all’Olivi di averci condotti a buon porto, Guido si trovò per varii giorni con le tasche gonfie di corone, finché non trovammo la via ad una Banca che ci sbrigò dell’incomodo fardello consegnandoci un libretto assegni di cui presto apprendemmo a far uso.

Guido sentì il bisogno di dire all’Olivi che gli facilitava il cosidetto impianto:

– Le assicuro che non farò mai la concorrenza alla ditta del mio amico!

Ma il giovinotto che del commercio aveva un altro concetto, rispose:

– Magari ci fosse un maggior numero di contraenti nei nostri articoli. Si starebbe meglio!

Guido restò a bocca aperta, comprese troppo bene come gli succedeva sempre e si attaccò a quella teoria che propinò a chi la volle.

Ad onta della sua Scuola Superiore, Guido aveva un concetto poco preciso del dare e dell’avere. Stette a guardare con sorpresa come io costituii il Conto Capitale ed anche come registrai le spese. Poi fu tanto dotto di contabilità che quando gli si proponeva un affare, lo analizzava prima di tutto dal punto di vista contabile. Gli pareva addirittura che la conoscenza della contabilità conferisse al mondo un nuovo aspetto. Egli vedeva nascere debitori e creditori dappertutto anche quando due si picchiavano o si baciavano.

Si può dire ch’egli entrò in commercio armato della massima prudenza. Rifiutò una quantità di affari ed anzi per sei mesi li rifiutò tutti con l’aria tranquilla di chi sa meglio:

– No! – diceva, e il monosillabo pareva il risultato di un calcolo preciso anche quando si trattava di un articolo ch’egli non aveva mai visto. Ma tutta quella riflessione era stata sprecata a vedere come l’affare eppoi il suo eventuale beneficio o la sua perdita avrebbe dovuto passare traverso ad una contabilità. Era l’ultima cosa ch’egli avesse appreso e s’era sovrapposta a tutte le sue nozioni.

Mi duole di dover dire tanto male del mio povero amico, ma devo essere veritiero anche per intendere meglio me stesso. Ricordo quanta intelligenza egli impiegò per ingombrare il nostro piccolo ufficio di fantasticherie che c’impedivano ogni sana operosità. A un dato punto, per iniziare il lavoro in commissione, lanciammo per posta un migliaio di circolari. Guido fece questa riflessione:

– Quanti francobolli risparmiati se prima di spedire queste circolari sapessimo quali di esse raggiungeranno le persone che le considereranno!

La frase sola non avrebbe impedito nulla, ma egli se ne compiacque troppo e cominciò a gettare per aria le circolari chiuse per spedire solo quelle che cadevano dalla parte dell’indirizzo. L’esperimento ricordava qualche cosa di simile ch’io avevo fatto in passato, ma tuttavia a me sembra di non essere mai arrivato a tale punto. Naturalmente io non raccolsi né spedii le circolari da lui eliminate, perché non potevo essere certo che non ci fosse stata realmente una seria ispirazione che lo avesse diretto in quell’eliminazione e dovessi perciò non sprecare i francobolli che toccava di pagare a lui.

La mia buona sorte m’impedì di venir rovinato da Guido, ma la stessa buona sorte m’impedì pure di prendere una parte troppo attiva nei suoi affari. Lo dico ad alta voce perché altri a Trieste pensa che non sia stato così: durante il tempo che passai con lui, non intervenni mai con un’ispirazione qualunque, del genere di quelle della frutta secca. Mai lo spinsi ad un affare e mai gliene impedii alcuno. Ero l’ammonitore! Lo spingevo all’attività, all’oculatezza. Ma non avrei osato di gettare sul tavolo da giuoco i suoi denari.

Accanto a lui io mi feci molto inerte. Cercai di metterlo sulla retta via e forse non ci riuscii per troppa inerzia. Del resto, quando due si trovano insieme, non spetta loro di decidere chi dei due deve essere Don Quijote e chi Sancio Panza. Egli faceva l’affare ed io da buon Sancio lo seguivo lento lento nei miei libri dopo di averlo esaminato e criticato come dovevo.

Il commercio in commissione fiascheggiò completamente, ma senz’arrecarci alcun danno. Il solo che c’inviò delle merci fu un cartolaio di Vienna, e una parte di quegli oggetti di cancelleria furono venduti da Luciano che pian pianino arrivò a sapere quanta commissione ci spettasse e se la fece concedere quasi tutta da Guido. Guido finì con l’accondiscendere perché erano piccolezze, eppoi perché il primo affare liquidato così doveva portare fortuna. Questo primo affare ci lasciò lo strascico nel camerino dei ripostigli di una quantità di oggetti di cancelleria che dovemmo pagare e tenere. Ne avevamo per il consumo di molti anni di una casa commerciale ben più attiva della nostra.

Per un paio di mesi quel piccolo ufficio luminoso, nel centro della città, fu per noi un ritrovo gradevole. Vi si lavorava ben poco (io credo vi si abbiano conchiusi in tutto due affari in imballaggi usati vuoti per i quali nello stesso giorno s’incontrarono da noi la domanda e l’offerta e da cui ricavammo un piccolo utile) e vi si chiacchierava molto, da buoni ragazzi, anche con quell’innocente di Luciano, il quale, quando si parlava d’affari, s’agitava come altri della sua età quando sente dire di donne.

Allora m’era facile di divertirmi da innocente con gl’innocenti perché non avevo ancora perduta Carla. E di quell’epoca ricordo con piacere la giornata intera. La sera, a casa, avevo molte cose da raccontare ad Augusta e potevo dirle tutte quelle che si riferivano all’ufficio, senz’alcun’eccezione e senza dover aggiungervi qualche cosa per falsarle.

Non mi preoccupava affatto quando Augusta impensierita esclamava:

– Ma quando comincerete a guadagnare dei denari?

Denari? A quelli non ci avevamo ancora neppur pensato. Noi sapevamo che prima bisognava fermarsi a guardare, studiare le merci, il paese e anche il nostro Hinterland. Non s’improvvisava mica così una casa di commercio! E anche Augusta s’acquietava alle mie spiegazioni.

Poi nel nostro ufficio fu ammesso un ospite molto rumoroso. Un cane da caccia di pochi mesi, agitato e invadente. Guido lo amava molto e aveva organizzato per lui un approvvigionamento regolare di latte e di carne. Quando non avevo da fare né da pensare, lo vedevo anch’io con piacere saltellare per l’ufficio in quei quattro o cinque atteggiamenti che noi sappiamo interpretare dal cane e che ce lo rendono tanto caro. Ma non mi pareva fosse al suo posto con noi, così rumoroso e sudicio! Per me la presenza di quel cane nel nostro ufficio, fu la prima prova che Guido fornì di non essere degno di dirigere una casa commerciale. Ciò provava un’assenza assoluta di serietà. Tentai di spiegargli che il cane non poteva promovere i nostri affari, ma non ebbi il coraggio di insistere ed egli con una risposta qualunque mi fece tacere.

Perciò mi parve di dover dedicarmi io all’educazione di quel mio collega e gli assestai con grande voluttà qualche calcio quando Guido non c’era. Il cane guaiva e dapprima ritornava a me credendo io l’avessi urtato per errore. Ma un secondo calcio gli spiegava meglio il primo ed allora egli si rincantucciava e finché Guido non arrivava nell’ufficio non v’era pace. Mi pentii poi di aver imperversato su di un innocente, ma troppo tardi. Colmai il cane di gentilezze, ma esso non si fidò più di me ed in presenza di Guido diede chiaro segno della sua antipatia.

– Strano! – disse Guido. – Fortuna che so chi tu sia, perché altrimenti diffiderei di te. I cani di solito non sbagliano con le loro antipatie.

Per far dileguare i sospetti di Guido, quasi quasi gli avrei raccontato in quale modo io avevo saputo conquistarmi l’antipatia del cane.

Ebbi presto una scaramuccia con Guido su una questione che veramente non avrebbe dovuto importarmi tanto. Occupatosi con tanta passione di contabilità, egli si mise in capo di mettere le sue spese di famiglia nel conto delle spese generali. Dopo di essermi consultato con l’Olivi, io mi vi opposi e difesi gl’interessi del vecchio Cada. Non era infatti possibile di mettere in quel conto tutto ciò che spendeva Guido, Ada eppoi anche quello che costarono i due gemelli quando nacquero. Erano delle spese che incombevano personalmente a Guido e non alla ditta. Poi, in compenso, suggerii di scrivere a Buenos Aires per accordarsi per un salario per Guido. Il padre si rifiutò di concederlo osservando che Guido percepiva già il settantacinque per cento dei benefici mentre a lui non toccava che il residuo. A me parve una risposta giusta mentre Guido si mise a scrivere delle lunghe lettere al padre per discutere la questione da un punto di vista superiore, come egli diceva. Buenos Aires era molto lontana e così la corrispondenza durò finché durò la nostra casa. Ma io vinsi il mio punto! Il conto spese generali rimase puro e non fu inquinato dalle spese particolari di Guido e il capitale fu compromesso intero dal crollo della casa, ma proprio intero senza deduzioni.

La quinta persona ammessa nel nostro ufficio (calcolando anche Argo) fu Carmen. Io assistetti alla sua assunzione all’impiego. Ero venuto all’ufficio dopo di essere stato da Carla e mi sentivo molto sereno, di quella serenità delle otto di mattina del principe di Taillerand. Nell’oscuro corridoio vidi una signorina, e Luciano mi disse ch’essa voleva parlare con Guido in persona. Io avevo qualche cosa da fare e la pregai di attendere là fuori. Guido entrò poco dopo nella nostra stanza evidentemente senz’aver vista la signorina e Luciano venne a porgergli il biglietto di presentazione di cui la signorina era fornita. Guido lo lesse eppoi:

– No! – disse seccamente levandosi la giubba perché faceva caldo. Ma subito dopo ebbe un’esitazione:

– Bisognerà che le parli per riguardo a chi la raccomanda.

La fece entrare ed io la guardai soltanto quando vidi che Guido s’era gettato con un balzo sulla propria giubba per indossarla e s’era rivolto alla fanciulla con la bella faccia bruna arrossata e gli occhi scintillanti.

Ora io sono sicuro di aver viste delle fanciulle altrettanto belle di Carmen, ma non di una bellezza tanto aggressiva cioè tanto evidente alla prima occhiata. Di solito le donne prima si creano per il proprio desiderio mentre questa non aveva il bisogno di tale prima fase. Guardandola sorrisi e anche risi. Mi pareva simile ad un industriale che corresse per il mondo gridando l’eccellenza dei suoi prodotti. Si presentava per avere un impiego, ma io avrei avuto voglia d’intervenire nelle trattative per domandarle: – Quale impiego? Per un’alcova?

Io vidi che la sua faccia non era tinta, ma i colori ne erano tanto precisi, tanto azzurro il candore e tanto simile a quello delle frutta mature il rossore, che l’artificio vi era simulato alla perfezione. I suoi grandi occhi bruni rifrangevano una tale quantità di luce che ogni loro movimento aveva una grande importanza.

Guido l’aveva fatta sedere ed essa modestamente guardava la punta del proprio ombrellino o più probabilmente il proprio stivaletto verniciato. Quand’egli le parlò, essa levò rapidamente gli occhi e glieli rivolse sulla faccia così luminosi, che il mio povero principale ne fu proprio abbattuto. Era vestita modestamente, ma ciò non le giovava perché ogni modestia sul suo corpo s’annullava. Solo gli stivaletti erano di lusso e ricordavano un po’ la carta bianchissima che Velasquez metteva sotto ai piedi dei suoi modelli. Anche Velasquez, per staccare Carmen dall’ambiente, l’avrebbe poggiata sul nero di lacca.

Nella mia serenità io stetti a sentire curiosamente, Guido le domandò se conoscesse la stenografia. Essa confessò di non conoscerla affatto, ma aggiunse che aveva una grande pratica di scrivere sotto dettatura. Curioso! Quella figura alta, slanciata e tanto armonica, produceva una voce roca. Non seppi celare la mia sorpresa:

– È raffreddata? – le domandai.

– No! – mi rispose – Perché me lo domanda? – e fu tanto sorpresa che l’occhiata in cui m’avvolse fu anche più intensa. Non sapeva di avere una voce tanto stonata ed io dovetti supporre che anche il suo piccolo orecchio non fosse tanto perfetto come appariva.

Guido le domandò se conoscesse l’inglese, il francese o il tedesco. Egli le lasciava la scelta visto che noi ancora non sapevamo di quale lingua avremmo avuto bisogno. Carmen rispose che sapeva un po’ di tedesco, ma pochissimo.

Guido non prendeva mai alcuna decisione senza ragionare:

– Noi non abbiamo bisogno del tedesco perché lo so molto bene io.

La signorina aspettava la parola decisiva che a me pareva fosse già stata detta e, per affrettarla, raccontò ch’essa nel nuovo impiego cercava anche la possibilità d’impratichirsi e che perciò si sarebbe contentata di un salario ben modesto.

Uno dei primi effetti della bellezza femminile su di un uomo è quello di levargli l’avarizia. Guido si strinse nelle spalle per significare che di cose tanto insignificanti non si occupava, le stabilì il salario ch’essa riconoscente accettò e le raccomandò con grande serietà di studiare la stenografia. Questa raccomandazione egli la fece solo per riguardo a me col quale s’era compromesso dichiarando che il primo impiegato ch’egli avrebbe assunto sarebbe stato uno stenografo perfetto.

Quella sera stessa raccontai del mio nuovo collega a mia moglie. Essa ne fu oltremodo spiacente. Senza ch’io gliel’avessi detto, essa pensò subito che Guido avesse assunta al suo servizio quella fanciulla per farsene un’amante. Io discussi con lei e, pur ammettendo che Guido si comportava un poco da innamorato, asserii ch’egli avrebbe potuto riaversi da quel colpo di fulmine senza che vi fossero delle conseguenze. La fanciulla, in complesso, pareva dabbene.

Pochi giorni dopo – non so se per caso – ebbimo in ufficio la visita di Ada. Guido non c’era ancora ed essa si fermò con me per un istante per domandarmi a che ora sarebbe venuto. Poi, con passo esitante, si recò nella stanza vicina ove in quel momento non c’erano che Carmen e Luciano. Carmen stava esercitandosi alla macchina da scrivere, tutt’assorta a rintracciarvi le singole lettere. Alzò i begli occhi per guardare Ada che la fissava. Come erano differenti le due donne! Si somigliavano un poco, ma Carmen pareva un’Ada caricata. Io pensai che veramente l’una che pur era vestita più riccamente, fosse fatta per divenire una moglie o una madre mentre all’altra, ad onta che in quell’istante portasse un modesto grembiule per non insudiciare il suo vestito alla macchina, toccava la parte di amante. Non so se a questo mondo vi sieno dei dotti che saprebbero dire perché il bellissimo occhio di Ada adunasse meno luce di quello di Carmen e fosse perciò un vero organo per guardare le cose e le persone e non per sbalordirle. Così Carmen ne sopportò benissimo l’occhiata sdegnosa, ma anche curiosa; v’era dentro fors’anche un poco d’invidia, o ve la misi io?

Questa fu l’ultima volta in cui io vidi Ada ancora bella, proprio quale s’era rifiutata a me. Poi venne la sua disastrosa gravidanza e i due gemelli ebbero bisogno dell’intervento del chirurgo per venire all’aria. Subito dopo fu colpita da quella malattia che le tolse ogni bellezza. Perciò io ricordo tanto bene quella visita. Ma la ricordo anche perché in quel momento tutta la mia simpatia andò a lei dalla bellezza mite e modesta abbattuta da quella tanto differente dell’altra. Io non amavo certo Carmen e non ne sapevo altro che i magnifici occhi, gli splendidi colori, poi la voce roca e infine il modo – di cui essa era innocente – come era stata ammessa lì dentro. Volli invece proprio bene ad Ada in quel momento, ed è una cosa ben strana di voler bene ad una donna che si desiderò ardentemente, che non si ebbe e di cui ora non importa niente. In complesso si arriva così alle stesse condizioni in cui ci si troverebbe qualora essa avesse aderito ai nostri desiderii, ed è sorprendente di poter constatare ancora una volta come certe cose per cui viviamo hanno una ben piccola importanza.

Volli abbreviarle il dolore e la precedetti all’altra stanza. Guido, che subito dopo entrò, si fece molto rosso alla vista della moglie. Ada gli disse una ragione plausibilissima per cui era venuta, ma subito dopo e in atto di lasciarci, gli domandò:

– Avete assunto in ufficio una nuova impiegata?

– Si! – disse Guido e, per celare la sua confusione, non trovò di meglio che d’interrompersi per domandare se qualcuno fosse venuto a cercarlo. Poi, avuta la mia risposta negativa, ebbe ancora una smorfia di dispiacere come se avesse sperata una visita importante, mentre io sapevo che non aspettavamo proprio nessuno e appena allora disse ad Ada con un aspetto d’indifferenza che finalmente gli riuscì di assumere:

– Avevamo bisogno di uno stenografo!

Io mi divertii moltissimo all’udire ch’egli sbagliava anche il sesso della persona di cui aveva bisogno.

La venuta di Carmen apportò una grande vita nel nostro ufficio. Non parlo della vivacità che veniva dai suoi occhi, dalla gentile sua figura e dai colori della sua faccia; parlo proprio di affari. Guido ebbe una spinta al lavoro dalla presenza di quella fanciulla. Prima di tutto volle dimostrare a me e a tutti gli altri che la nuova impiegata era necessaria, ed ogni giorno inventava dei nuovi lavori cui partecipava anche lui. Poi, per lungo tempo, la sua attività fu un mezzo per corteggiare più efficacemente la fanciulla. Raggiunse un’efficacia inaudita. Doveva insegnarle la forma della lettera ch’egli dettava e correggerle l’ortografia di molte moltissime parole. Lo fece sempre dolcemente. Qualunque compenso da parte della fanciulla non sarebbe stato eccessivo.

Pochi degli affari inventati da lui in amore gli diedero un frutto. Una volta lavorò lungamente intorno ad un affare in un articolo che risultò essere proibito. Ci trovammo ad un certo punto di fronte ad un uomo dalla faccia contratta dal dolore sui cui calli noi, senza saperlo, eravamo montati. Voleva sapere quest’uomo che cosa c’entrassimo noi in quell’articolo e supponeva fossimo stati mandatarii di potenti concorrenti esteri. La prima volta era sconvolto e temeva il peggio. Quando indovinò la nostra ingenuità, ci rise in faccia e ci assicurò che non saremmo riusciti a nulla. Finì ch’ebbe ragione, ma prima che ci acconciassimo alla condanna durò non poco tempo e da Carmen furono scritte non poche lettere. Trovammo che l’articolo era irraggiungibile perché circondato da trincee. Io non dissi nulla di tale affare ad Augusta, ma essa ne parlò a me perché Guido ne aveva parlato ad Ada per dimostrarle quanto da fare avesse il nostro stenografo. Ma l’affare che non fu fatto, rimase molto importante per Guido. Ne parlò ogni giorno. Era convinto che in nessun’altra città del mondo sarebbe avvenuta una cosa simile. Il nostro ambiente commerciale era miserabile ed ogni commerciante intraprendente vi veniva strangolato. Così toccava anche a lui

Nella folle, disordinata sequela di affari che in quell’epoca passò per le nostre mani, ve ne fu uno che addirittura ce le bruciò. Non lo cercammo noi; fu l’affare che ci assaltò. Vi fummo cacciati dentro da un dalmata, certo Tacich, il cui padre aveva lavorato all’Argentina col padre di Guido. Venne dapprima a trovarci solo per avere da noi delle informazioni commerciali che noi seppimo procurargli.

Il Tacich era un bellissimo giovine, anzi troppo bello. Alto, forte, aveva una faccia olivastra in cui si fondevano in un’intonazione deliziosa l’azzurro fosco degli occhi, le lunghe sopracciglia e i brevi folti mustacchi bruni dai riflessi aurei. Insomma v’era in lui un tale intonato studio di colore che a me parve l’uomo nato per accompagnarsi a Carmen. Anche a lui parve così e venne a trovarci ogni giorno. La conversazione nel nostro ufficio durava ogni giorno per delle ore, ma non fu mai noiosa. I due uomini lottavano per conquistare la donna e, come tutti gli animali in amore, sfoggiavano le loro migliori qualità. Guido era un po’ trattenuto dal fatto che il dalmata veniva a trovarlo anche a casa sua e conosceva perciò Ada, ma niente poteva più danneggiarlo agli occhi di Carmen; io, che conoscevo tanto bene quegli occhi, lo seppi subito, mentre il Tacich lo apprese molto più tardi e, per avere più frequente il pretesto di vederla, comperò da noi anziché dal fabbricante, varii vagoni di sapone che pagò per qualche percento più cari. Poi, sempre per amore, ci ficcò in quell’affare disastroso.

Suo padre aveva osservato che, costantemente, in certe stagioni, il solfato di rame saliva e in altre calava di prezzo. Decise perciò di comperarne per speculazione nel momento più favorevole, in Inghilterra, una sessantina di tonnellate. Noi parlammo a lungo di quell’affare ed anzi lo preparammo mettendoci in relazione con una casa inglese. Poi il padre telegrafò al figlio che il buon momento gli sembrava giunto e disse anche il prezzo al quale sarebbe stato disposto di concludere l’affare. Il Tacich, innamorato com’era, corse da noi e ci consegnò l’affare avendone in premio una bella, grande, carezzevole occhiata da Carmen. Il povero dalmata incassò riconoscente l’occhiata non sapendo ch’era una manifestazione d’amore per Guido.

Mi ricordo la tranquillità e la sicurezza con cui Guido s’accinse all’affare che infatti si presentava facilissimo perché in Inghilterra si poteva fissare la merce per consegna al nostro porto donde veniva ceduta, senz’esserne rimossa, al nostro compratore. Egli fissò esattamente l’importo che voleva guadagnare e col mio aiuto stabilì quale limite dovesse stabilire al nostro amico inglese per l’acquisto. Con l’aiuto del vocabolario combinammo insieme il dispaccio in inglese. Una volta speditolo, Guido si fregò le mani e si mise a calcolare quante corone gli sarebbero piovute in cassa in premio di quella lieve e breve fatica. Per tenersi favorevoli gli dei, trovò giusto di promettere una piccola provvigione a me e quindi, con qualche malizia, anche a Carmen che all’affare aveva collaborato con i suoi occhi. Ambedue volemmo rifiutare, ma egli ci supplicò di fingere almeno di accettare. Temeva altrimenti il nostro malocchio ed io lo compiacqui subito per rassicurarlo. Sapevo con certezza matematica che da me non potevano venirgli che i migliori auguri, ma capivo ch’egli potesse dubitarne. Quaggiù quando non ci vogliamo male ci amiamo tutti, ma però i nostri vivi desideri accompagnano solo gli affari cui partecipiamo.

L’affare fu vagliato in tutti i sensi ed anzi ricordo che Guido calcolò persino per quanti mesi, col beneficio che ne avrebbe tratto, avrebbe potuto mantenere la sua famiglia e l’ufficio, cioè le sue due famiglie, come egli diceva talvolta o i suoi due uffici come diceva tale altra quando si seccava molto in casa. Fu vagliato troppo, quell’affare, e non riuscì forse per questo. Da Londra capitò un breve dispaccio: Notato eppoi l’indicazione del prezzo di quel giorno del solfato, più elevato di molto di quello concessoci dal nostro compratore. Addio affare. Il Tacich ne fu informato e poco dopo abbandonò Trieste.

In quell’epoca io cessai per circa un mese di frequentare l’ufficio e perciò, per le mie mani, non passò una lettera che giunse alla ditta, dall’aspetto inoffensivo, ma che doveva avere gravi conseguenze per Guido. Con essa, quella ditta inglese ci confermava il suo dispaccio e finiva con l’informarci che notava il nostro ordine valido sino a revoca. Guido non ci pensò affatto di dare tale revoca ed io, quando ritornai in ufficio, non ricordai più quell’affare. Così varii mesi appresso, una sera, Guido venne a cercarmi a casa con un dispaccio ch’egli non intendeva e che credeva fosse stato indirizzato a noi per errore ad onta che portasse chiaro il nostro indirizzo telegrafico che io avevo fatto regolarmente notare non appena fummo installati nel nostro ufficio. Il dispaccio conteneva solo tre parole: 60 tons settled, ed io lo intesi subito, ciò che non era difficile perché quello del solfato di rame era il solo affare grosso che avessimo trattato. Glielo dissi: si capiva da quel dispaccio che il prezzo, che noi avevamo fissato per l’esecuzione del nostro ordine, era stato raggiunto e che perciò eravamo felici proprietari di sessanta tonnellate di solfato di rame.

Guido protestò:

– Come si può pensare ch’io accetti tanto in ritardo l’esecuzione del mio ordine?

Pensai subito io che nel nostro ufficio dovesse esserci la lettera di conferma del primo dispaccio, mentre Guido non ricordava di averla ricevuta. Lui, inquieto, propose di correre subito all’ufficio per vedere se ci fosse, ciò che mi fu molto gradito perché mi seccava quella discussione dinanzi ad Augusta la quale ignorava che io per un mese non m’ero fatto vedere in ufficio.

Corremmo all’ufficio. Guido era tanto dispiacente di vedersi costretto a quel primo grande affare che, per esimersene, sarebbe corso fino a Londra. Aprimmo l’ufficio; poi, a tastoni nell’oscurità, trovammo la via alla nostra stanza e raggiungemmo il gas, per accenderlo. Allora la lettera fu subito trovata ed era fatta come io l’avevo supposta; c’informava cioè che il nostro ordine valido sino a revoca era stato eseguito.

Guido guardò la lettera con la fronte contratta non so se dal dispiacere o dallo sforzo di voler annientare col suo sguardo quanto si annunciava esistente con tanta semplicità di parola.

– E pensare – osservò – che sarebbe bastato di scrivere due parole per risparmiarsi un danno simile.

Non era certo un rimprovero diretto a me perché io ero stato assente dall’ufficio e, per quanto avessi saputo trovare subito la lettera sapendo ove doveva trovarsi, prima di allora non l’avevo mai vista. Ma per nettarmi più radicalmente da ogni rimprovero, lo rivolsi deciso a lui:

– Durante la mia assenza avresti pur dovuto leggere accuratamente tutte le lettere!

La fronte di Guido si spianò. Alzò le spalle e mormorò:

– Può ancora finire coll’essere una fortuna quest’affare.

Poco dopo mi lasciò ed io ritornai a casa mia. Ma il Tacich ebbe ragione: in certe stagioni il solfato di rame andava giù, giù, ogni giorno più giù e noi avevamo nell’esecuzione del nostro ordine e nella immediata impossibilità di cedere la merce a quel prezzo ad altri, l’opportunità di studiare tutto il fenomeno. La nostra perdita aumentò. Il primo giorno Guido mi domandò consiglio. Avrebbe potuto vendere con una perdita piccola in confronto di quella che dovette sopportare poi. Io non volli dare dei consigli, ma non trascurai di ricordargli la convinzione del Tacich secondo la quale il ribasso avrebbe dovuto continuare per oltre cinque mesi. Guido rise:

– Adesso non mi mancherebbe altro che farmi dirigere nei miei affari da un provinciale!

Ricordo che tentai pure di correggerlo, dicendogli che quel provinciale da molti anni passava il suo tempo nella piccola cittadina dalmata a guardare il solfato di rame. Io non posso avere alcun rimorso per la perdita che Guido subì in quell’affare. Se mi avesse ascoltato gli sarebbe stata risparmiata.

Più tardi discutemmo l’affare del solfato di rame con un agente, un uomo piccolo, grassoccio, vivo e accorto, che ci biasimò di aver fatto quell’acquisto, ma che non sembrava di dividere l’opinione del Tacich. Secondo lui il solfato di rame, per quanto facesse un mercato a sé, pur risentiva la fluttuazione del prezzo del metallo. Guido da quell’intervista acquistò una certa sicurezza. Pregò l’agente di tenerlo informato di ogni movimento nel prezzo; avrebbe aspettato volendo vendere non soltanto senza perdita, ma con un piccolo utile. L’agente rise discretamente eppoi nel corso del discorso disse una parola ch’io notai perché mi parve molto vera:

– Curioso come a questo mondo vi sia poca gente che si rassegni a perdite piccole; sono le grandi che inducono immediatamente alla grande rassegnazione.

Guido non ne fece caso. Io ammirai però anche lui, perché all’agente non raccontò per quale via noi fossimo arrivati a quell’acquisto. Glielo dissi ed egli ne menò vanto. Avrebbe temuto, mi disse, di screditare noi e anche la nostra merce raccontando la storia di quell’acquisto.

Poi, per parecchio tempo, non parlammo più del solfato, finché cioè non venne da Londra una lettera con la quale ci si invitava al pagamento e a dare istruzioni per la spedizione. Ricevere, immagazzinare sessanta tonnellate! A Guido cominciò a girare la testa. Facemmo i calcoli di quanto avremmo speso per conservare tale merce per varii mesi. Una somma enorme! Io non dissi niente, ma il sensale che volontieri avrebbe vista la merce arrivare a Trieste perché allora prima o poi avrebbe avuto lui l’incarico di venderla, fece osservare a Guido che quella somma che a lui pareva enorme, non era gran cosa se espressa in «percenti» sul valore della merce.

Guido si mise a ridere perché l’osservazione gli pareva strana:

– Io non ho mica soli cento chili di solfato; ne ho sessanta tonnellate, purtroppo!

Egli avrebbe finito col lasciarsi convincere dal calcolo dell’agente, evidentemente giusto, visto che con un piccolo movimento in sù del prezzo, le spese sarebbero state coperte ad usura, se in quel momento non fosse stato arrestato da una sua cosidetta ispirazione. Quando gli avveniva di avere un’idea commerciale proprio sua, egli ne era addirittura allucinato e non c’era posto nella sua mente per altre considerazioni. Ecco la sua idea: la merce gli era stata venduta franco Trieste da gente che doveva pagarne il trasporto dall’Inghilterra. Se egli ora avesse ceduta la merce ai suoi stessi venditori che avrebbero perciò risparmiate le spese per tale trasporto, egli avrebbe potuto fruire di un prezzo ben più vantaggioso di quello che gli veniva offerto a Trieste. La cosa non era tanto vera, ma, per fargli piacere, nessuno la discusse. Una volta liquidata la faccenda, egli ebbe un sorriso un po’ amarognolo sulla sua faccia che allora parve proprio di pensatore pessimista e disse:

– Non ne parliamo più. La lezione fu alquanto cara; bisogna ora saperne approfittare.

Invece se ne parlò ancora. Egli non ebbe mai più quella sua bella sicurezza nel rifiutare degli affari e, quando alla fine d’anno gli feci vedere quanti denari avevamo perduti, egli mormorò:

– Quel maledetto solfato di rame fu la mia disgrazia! Sentivo sempre il bisogno di rimettermi di quella perdita!

La mia assenza dall’ufficio era stato provocato dall’abbandono di Carla. Non avevo più potuto assistere agli amori di Carmen e Guido. Essi si guardavano, si sorridevano, in mia presenza. Me ne andai sdegnosamente con una risoluzione che presi di sera al momento di chiudere l’ufficio e senza dirne nulla a nessuno. M’aspettavo che Guido m’avrebbe chiesta la ragione di tale abbandono e mi preparavo allora di dargli il fatto suo. Io potevo essere molto severo con lui visto ch’egli non sapeva assolutamente nulla delle mie gite al Giardino Pubblico.

Era una specie di gelosia la mia, perché Carmen m’appariva quale la Carla di Guido, una Carla più mite e sottomessa. Anche con la seconda donna egli era stato più fortunato di me, come con la prima. Ma forse – e ciò mi forniva la ragione ad un nuovo rimprovero per lui – egli doveva anche tale fortuna a quelle sue qualità ch’io gl’invidiavo e che continuavo a considerare quali inferiori: parallelamente alla sua sicurezza sul violino, correva anche la sua disinvoltura nella vita. Io oramai sapevo con certezza di aver sacrificata Carla ad Augusta. Quando riandavo col pensiero a quei due anni di felicità che Carla m’aveva concessi, m’era difficile d’intendere come essa – essendo fatta nel modo che ora sapevo – avesse potuto sopportarmi per tanto tempo. Non l’avevo io offesa ogni giorno per amore ad Augusta? Di Guido invece sapevo con certezza ch’egli avrebbe saputo godersi Carmen senza neppur ricordarsi di Ada. Nel suo animo disinvolto due donne non erano di troppo. Confrontandomi con lui, a me pareva di essere addirittura innocente. Io avevo sposata Augusta senz’amore e tuttavia non sapevo tradirla senza soffrirne. Forse anche lui aveva sposata Ada senz’amarla, ma – per quanto ora di Ada non m’importasse affatto – ricordavo l’amore ch’essa mi aveva ispirato e mi pareva che poiché io l’avevo amata tanto, al suo posto sarei stato anche più delicato di quanto non lo fossi ora al mio.

Non fu Guido che venne a cercarmi. Fui io che da solo ritornai a quell’ufficio a cercare il sollievo ad una grande noia. Egli si comportò in conformità ai patti del nostro contratto secondo i quali io non avevo alcun obbligo ad un’attività regolare nei suoi affari e quando s’imbatteva in me a casa o altrove, mi dimostrava la solita grande amicizia di cui gli ero sempre grato e non sembrava ricordare ch’io avessi lasciato vuoto il posto a quel tavolo ch’egli aveva comperato per me. Fra noi due non c’era che un solo imbarazzo: il mio. Quando ritornai al mio posto m’accolse come se dall’ufficio io fossi stato assente per un giorno solo, m’espresse con calore il suo piacere di aver riconquistata la mia compagnia e, sentito il mio proposito di riprendere il mio lavoro, esclamò:

– Ho fatto dunque bene a non permettere a nessuno di toccare i tuoi libri!

Infatti trovai il mastro ed anche il giornale al punto ove li avevo lasciati.

Luciano mi disse:

– Speriamo che ora che lei è qui, ci moveremo di nuovo. Penso che il signor Guido sia scoraggiato per un paio di affari che tentò e che non gli riuscirono. Non gli dica nulla che io le parlo così, ma guardi se può incoraggiarlo.

M’accorsi infatti che in quell’ufficio si lavorava ben poco e finché la perdita subita col solfato di rame non ci vivificò, vi si menò una vita veramente idillica. Io ne conclusi subito che Guido non sentisse più tanto urgente il bisogno di lavorare per far muovere Carmen sotto la sua direzione e, altrettanto presto, che il periodo della corte da loro fosse passato e che oramai essa fosse divenuta la sua amante.

L’accoglienza di Carmen mi portò una sorpresa perché essa subito sentì il bisogno di ricordarmi una cosa che io avevo completamente dimenticata. Pare che prima di abbandonare quell’ufficio, in quei giorni in cui ero corso dietro a tante donne perché non m’era stato più possibile di raggiungere la mia, io avessi aggredita anche Carmen. Essa mi parlò con grande serietà e con qualche imbarazzo: aveva piacere di rivedermi perché pensava io volessi bene a Guido e che i miei consigli potrebbero essergli utili, e voleva intrattenere con me – se io vi consentivo – una bella, una fraterna amicizia. Mi disse proprio qualche cosa di simile porgendomi con gesto largo la sua destra. Sulla sua faccia tanto bella che sempre pareva dolce, vi fu un atteggiamento molto severo per rilevare la pura fraternità della relazione che mi veniva offerta.

Allora ricordai e arrossii. Forse se avessi ricordato prima, non sarei ritornato a quell’ufficio mai più. Era stata una cosa tanto breve e ficcata in mezzo a tante altre azioni dello stesso valore, che se ora non fosse stata ricordata, si avrebbe potuto credere non fosse esistita mai. Pochi giorni dopo l’abbandono di Carla, io m’ero messo a esaminare i libri facendomi aiutare da Carmen e pian pianino, per veder meglio nella stessa pagina, avevo passato il mio braccio intorno alla sua vita che poi avevo stretta sempre più. Con un balzo Carmen s’era sottratta a me ed io allora avevo abbandonato l’ufficio.

Io avrei potuto difendermi con un sorriso inducendola a sorridere con me perché le donne sono tanto propense a sorridere di delitti siffatti! Avrei potuto dirle:

– Ho tentato una cosa che non m’è riuscita e me ne duole, ma non vi tengo rancore e voglio esservi amico finché non vi piacerà altrimenti.

O avrei potuto rispondere anche da persona seria, scusandomi con lei e anche con Guido:

– Scusatemi e non giudicatemi prima di sapere in quali condizioni io mi sia trovato allora.

Invece mi mancò la parola. La mia gola – credo – era chiusa dal rancore solidificatovisi e non potevo parlare. Tutte queste donne che mi respingevano risolutamente davano addirittura una tinta tragica alla mia vita. Non avevo mai avuto un periodo tanto disgraziato. Invece di una risposta non mi sarei trovato pronto che a digrignare i denti, cosa poca comoda dovendo celarla. Forse mi mancò la parola anche pel dolore di veder così recisamente esclusa una speranza che tuttavia accarezzavo. Non posso fare a meno di confessarlo: meglio che con Carmen non avrei potuto rimpiazzare l’amante ch’io avevo perduta, quella fanciulla tanto poco compromettente che non m’aveva chiesto altro che il permesso di vivermi accanto finché non domandò quello di non vedermi più. Un’amante in due è l’amante meno compromettente. Certamente allora non avevo chiarite tanto bene le mie idee, ma le sentivo e adesso le so. Divenendo l’amante di Carmen, io avrei fatto il bene di Ada e non avrei danneggiato di troppo Augusta. Ambedue sarebbero state tradite molto meno che se Guido ed io avessimo avuta una donna intera per ciascuno.

La risposta a Carmen io la diedi varii giorni appresso, ma ancor oggidì ne arrossisco. L’orgasmo in cui m’aveva gettato l’abbandono di Carla doveva sussistere tuttavia per farmi arrivare ad un punto simile. Ne ho rimorso come di nessun’altra azione della mia vita. Le parole bestiali che ci lasciamo scappare rimordono più fortemente delle azioni più nefande cui la nostra passione c’induca. Naturalmente designo come parole solo quelle che non sono azioni, perché so benissimo che le parole di Jago, per esempio, sono delle vere e proprie azioni. Ma le azioni, comprese le parole di Jago, si commettono per averne un piacere o un beneficio e allora tutto l’organismo, anche quella parte che poi dovrebbe erigersi a giudice, vi partecipa e diventa dunque un giudice molto benevolo. Ma la stupida lingua agisce a propria e a soddisfazione di qualche piccola parte dell’organismo che senza di essa si sente vinta e procede alla simulazione di una lotta quando la lotta è finita e perduta. Vuole ferire o vuole accarezzare. Si muove sempre in mezzo a dei traslati mastodontici. E quando son roventi, le parole scottano chi le ha dette.

Io avevo osservato ch’essa non aveva più i colori che l’avevano fatta ammettere tanto prontamente nel nostro ufficio. Mi figurai fossero andati perduti per una sofferenza che non ammisi avesse potuto essere fisica e l’attribuii all’amore per Guido. Del resto noi uomini siamo molto inclinati a compiangere le donne che si abbandonarono agli altri. Non vediamo mai quale vantaggio se ne possano aspettare. Possiamo magari amare l’uomo di cui si tratta – come avveniva nel caso mio – ma non sappiamo neppur allora dimenticare come di solito vadano a finire quaggiù le avventure d’amore. Sentii una sincera compassione per Carmen come non l’avevo sentita mai per Augusta o per Carla. Le dissi: – E giacché avete avuta la gentilezza d’invitarmi ad esservi amico, mi permettereste di farvi degli ammonimenti?

Essa non me lo permise, perché, come tutte le donne in quei frangenti, anch’essa credette che ogni ammonimento sia un’aggressione. Arrossì e balbettò: – Non capisco! Perché dice così? – E subito dopo, per farmi tacere: – Se avessi bisogno di consigli ricorrerei certamente a lei, signor Cosini.

Perciò non mi fu concesso di predicarle la morale e fu un danno per me. Predicandole la morale certamente sarei arrivato ad un grado superiore di sincerità, magari tentando di prenderla di nuovo fra le mie braccia. Non m’arrovellerei più di aver voluto assumere quell’aspetto bugiardo di Mentore.

Per varii giorni di ogni settimana, Guido non si faceva neppur vedere in ufficio perché s’era appassionato alla caccia e alla pesca. Io, invece, dopo il mio ritorno, per qualche tempo vi fui assiduo, occupatissimo nel mettere a giorno i libri. Ero spesso solo con Carmen e Luciano che mi consideravano quale il loro capo ufficio. Non mi pareva che Carmen soffrisse per l’assenza di Guido e mi figurai ch’essa l’amasse tanto da gioire al sapere che si divertiva. Doveva anche essere avvisata dei giorni in cui egli sarebbe stato assente, perché non tradiva alcuna attesa ansiosa. Sapeva da Augusta che Ada invece non era fatta così, perché si lagnava amaramente delle frequenti assenze del marito. Del resto non era questa la sua unica lagnanza. Come tutte le donne non amate, essa si lagnava con lo stesso calore delle offese grandi e di quelle piccole. Non soltanto Guido la tradiva, ma quando era in casa suonava sempre il violino. Quel violino, che m’aveva fatto tanto soffrire, era una specie di lancia di Achille per la varietà delle sue prestazioni. Appresi ch’era passato anche per il nostro ufficio ove aveva promossa la corte a Carmen con delle bellissime variazioni sul «Barbiere». Poi era ripartito perché in ufficio non occorreva più ed era ritornato a casa ove risparmiava a Guido la noia di dover conversare con la moglie.

Fra me e Carmen non ci fu mai più nulla. Ben presto io ebbi per lei un sentimento d’indifferenza assoluta come se essa avesse cambiato di sesso, qualche cosa di simile a quello che provavo per Ada. Una viva compassione per ambedue e nient’altro. Proprio così!

Guido mi colmava di gentilezze. Io credo che in quel mese in cui l’avevo lasciato solo, avesse imparato ad apprezzare la mia conpagnia. Una donnina come Carmen può essere gradevole di tempo in tempo, ma non si può mica sopportarla per giornate intere. Egli m’invitò a caccia e a pesca. Aborro la caccia e decisamente mi rifiutai di accompagnarvelo. Invece, una sera, spintovi dalla noia, finii con l’andare con lui a pesca. Al pesce manca ogni mezzo di comunicazione con noi e non può destare la nostra compassione. Se boccheggia anche quand’è sano e salvo in acqua! Persino la morte non ne altera l’aspetto. Il suo dolore, se esiste, è celato perfettamente sotto le sue squame.

Quando un giorno m’invitò ad una pesca notturna, mi riservai di vedere se Augusta m’avrebbe permesso di uscire quella sera e di restar fuori tanto tardi. Gli dissi che avrei ricordato che la sua barchetta si sarebbe staccata dal molo Sartorio alle nove di sera e che, potendo, mi vi sarei trovato. Pensai perciò che anche lui dovette sapere subito che per quella sera non m’avrebbe riveduto e che come avevo fatto tante altre volte, non mi sarei recato all’appuntamento.

Invece quella sera fui cacciato di casa dalle strida della mia piccola Antonia. Più la madre l’accarezzava e più la piccina strillava. Allora tentai un mio sistema che consisteva nel gridar delle insolenze nel piccolo orecchio di quella scimmietta urlante. N’ebbi il solo risultato di far cambiare il ritmo alle sue strida, perché si mise a gridare dallo spavento. Poi avrei voluto tentare un altro sistema un poco più energico, ma Augusta ricordò in tempo l’invito di Guido e m’accompagnò alla porta promettendomi di coricarsi sola se io non fossi rincasato che tardi. Anzi, pur di mandarmi via, si sarebbe anche adattata di prendere senza di me il caffè la mattina appresso, se fossi rimasto fuori fino allora. C’è un piccolo dissidio fra me e Augusta – l’unico – sul modo di trattare i bambini fastidiosi: a me pare che il dolore del bambino sia meno importante del nostro e che valga la pena d’infliggerglielo pur di risparmiare un grande disturbo all’adulto; a lei invece sembra che noi, che abbiamo fatti i bambini, dobbiamo anche subirli.

Avevo tutto il tempo per arrivare all’appuntamento e attraversai lentamente la città guardando le donne e nello stesso tempo inventando un ordigno speciale che avrebbe impedito ogni dissidio fra me ed Augusta. Ma per il mio ordigno l’umanità non era abbastanza evoluta! Esso era destinato al futuro lontano e non poteva più giovare a me se non dimostrandomi per quale piccola ragione si rendevano possibili le mie dispute con Augusta: la mancanza di un piccolo ordigno! Esso sarebbe stato semplice, un tramvai casalingo, una sediola fornita di ruote e rotaie sulla quale la mia bimba avrebbe passata la sua giornata: poi un bottone elettrico toccando il quale la sediola con la bimba urlante si sarebbe messa a correre via fino a raggiungere il punto più lontano della casa donde la sua voce affievolita dalla lontananza ci sarebbe sembrata perfino gradevole. Ed io ed Augusta saremmo rimasti insieme tranquilli ed affettuosi.

Era una notte ricca di stelle e priva di luna, una di quelle notti in cui si vede molto lontano e perciò addolcisce e quieta. Guardai le stelle che avrebbero potuto ancora portare il segno dell’occhiata d’addio di mio padre moribondo. Sarebbe passato il periodo orrendo in cui i miei bimbi sporcavano e urlavano. Poi sarebbero stati simili a me; io li avrei amati secondo il mio dovere e senza sforzo. Nella bella, vasta notte mi rasserenai del tutto e senz’aver bisogno di fare dei propositi.

Alla punta del molo Sartorio le luci provenienti dalla città erano tagliate dall’antica casetta da cui sporge la punta stessa quale una breve fondamenta. L’oscurità era perfetta e l’acqua alta e fosca e quieta mi pareva pigramente gonfia.

Non guardai più né il cielo né il mare. A pochi passi da me c’era una donna che destò la mia curiosità per uno stivaletto verniciato che per un istante brillò nell’oscurità. Nel breve spazio e nel buio, a me parve che quella donna alta e forse elegante, si trovasse chiusa in una stanza con me. Le avventure più gradevoli possono capitare quando meno ci si pensa, e vedendo che quella donna tutt’ad un tratto deliberatamente s’avvicinava, ebbi per un istante un sentimento piacevolissimo, che sparve subito quando sentii la voce roca di Carmen. Voleva fingere di aver piacere d’apprendere ch’ero anch’io della partita. Ma nell’oscurità e con quella specie di voce non si poteva fingere.

Le dissi rudemente:

– Guido m’ha invitato. Ma se volete, io trovo altro da fare e vi lascio soli!

Ella protestò dichiarando che anzi era felice di vedermi per la terza volta in quel giorno. Mi raccontò che in quella piccola barchetta si sarebbe trovato riunito l’ufficio intero perché c’era anche Luciano. Guai per i nostri affari se fosse andata a picco! M’aveva detto che c’era anche Luciano, certo per darmi la prova dell’innocenza del ritrovo. Poi chiacchierò ancora volubilmente, dapprima dicendomi ch’era la prima volta che andava con Guido a pesca eppoi confessando ch’era la seconda. S’era lasciato sfuggire che non le dispiaceva di star seduta «a pagliolo» in una barchetta e a me era sembrato strano ch’essa conoscesse quel termine. Così dovette confessarmi di averlo appreso la prima volta ch’era stata a pesca con Guido.

– Quel giorno – aggiunse per rivelare la completa innocenza di quella prima gita – andammo alla pesca degli sgombri e non delle orate. Di mattina.

Peccato che non abbia avuto il tempo di farla chiacchierare di più, perché avrei potuto sapere tutto quello che m’importava, ma dall’oscurità della Sacchetta uscì e s’approssimò a noi rapidamente la barchetta di Guido. Io ero sempre in dubbio: dal momento che c’era Carmen, non avrei dovuto allontanarmi? Forse Guido non aveva neppur avuto l’intenzione d’invitarci ambedue perché io ricordavo di aver quasi rifiutato il suo invito. Intanto la barchetta approdò e, giovanilmente sicura anche nell’oscurità, Carmen vi scese trascurando di appoggiarsi alla mano che Luciano le aveva offerta. Poiché esitavo, Guido urlò:

– Non farci perder tempo!

Con un balzo fui anch’io nella barchetta. Il balzo mio era quasi involontario: un prodotto dell’urlo di Guido. Guardavo con grande desiderio la terra, ma bastò un istante di esitazione per rendermi impossibile lo sbarco. Finii col sedermi a prua della non grande barchetta. Quando m’abituai all’oscurità, vidi che a poppa, di faccia a me, sedeva Guido e ai suoi piedi, a pagliolo, Carmen. Luciano, che vogava, ci divideva. Io non mi sentivo né molto sicuro né molto comodo nella piccola barca, ma presto mi vi abituai e guardai le stelle che di nuovo mi mitigarono. Era vero che in presenza di Luciano – un servo devoto delle famiglie delle nostre mogli – Guido non si sarebbe rischiato di tradire Ada e non c’era perciò niente di male che io fossi con loro. Desideravo vivamente di poter godere di quel cielo, quel mare e la vastissima quiete. Se avessi dovuto sentirne rimorso e perciò soffrire, avrei fatto meglio di restare a casa mia a farmi torturare dalla piccola Antonia. L’aria fresca notturna mi gonfiò i polmoni e compresi ch’io potevo divertirmi in compagnia di Guido e Carmen, cui in fondo volevo bene.

Passammo dinanzi al faro e arrivammo al mare aperto. Qualche miglio più in là brillavano le luci d’innumerevoli velieri: là si tendevano ben altre insidie al pesce. Dal Bagno Militare, – una mole poderosa nereggiante sui suoi pali, – cominciammo a moverci su e giù lungo la riviera di Sant’Andrea. Era il posto prediletto dei pescatori. Accanto a noi, silenziosamente, molte altre barche facevano la stessa nostra manovra. Guido preparò le tre lenze e inescò gli ami configgendovi dei gamberelli per la coda. Consegnò una lenza ad ognuno di noi dicendo che la mia, a prua, – la sola munita di piombino – sarebbe stata preferita dal pesce. Scorsi nell’oscurità il mio gamberello dalla coda trafitta e mi parve che movesse lentamente la parte superiore del corpo, quella parte che non era diventata una guaina. Per questo movimento mi parve piuttosto meditabondo che spasimante dal dolore. Forse ciò che produce il dolore nei grandi organismi, nei piccolissimi può ridursi fino a divenire un’esperienza nuova, un solletico al pensiero. Lo ficcai nell’acqua calandovelo, come mi fu detto da Guido, per dieci braccia. Dopo di me Carmen e Guido calarono le loro lenze. Guido aveva ora a poppa anche un remo col quale spingeva la barca con l’arte che occorreva perché le lenze non s’aggrovigliassero. Pare che Luciano non fosse ancora al caso di dirigere in tale modo la barchetta. Del resto Luciano aveva ora l’incarico della piccola rete con la quale avrebbe levato dall’acqua il pesce portato dall’amo fino alla superficie. Per lungo tempo egli non ebbe nulla da fare. Guido ciarlava molto. Chissà che non sia stato attaccato a Carmen dalla sua passione per l’insegnamento piuttosto che dall’amore. Io avrei voluto non starlo a sentire per continuare a pensare al piccolo animaletto che tenevo esposto alla voracità dei pesci, sospeso nell’acqua e che coi cenni della testolina – se li continuava anche in acqua – avrebbe adescato meglio il pesce. Ma Guido mi chiamò ripetute volte e dovetti star a sentire la sua teoria sulla pesca. Il pesce avrebbe toccato varie volte l’esca e noi l’avremmo sentito, ma dovevamo guardarci del tirare la lenza finché non si fosse tesa. Allora dovevamo essere pronti per dare lo strappo che avrebbe infilzato sicuramente l’amo nella bocca del pesce. Guido, come al solito, fu lungo nelle sue spiegazioni. Voleva spiegarci chiaramente quello che avremmo sentito nella mano quando il pesce avrebbe annusato l’amo. E continuava le sue spiegazioni quando io e Carmen conoscevamo già per esperienza la quasi sonora ripercussione sulla mano di ogni contatto che l’amo subiva. Più volte dovemmo raccogliere la lenza per rinnovare l’esca. Il piccolo animaluccio pensieroso finiva invendicato nelle fauci di qualche pesce accorto che sapeva evitare l’amo.

A bordo c’era della birra e dei panini. Guido condiva tutto ciò con la sua chiacchiera inesauribile. Parlava ora delle enormi ricchezze che giacevano nel mare. Non si trattava, come Luciano credeva, né del pesce né delle ricchezze immersevi dall’uomo. Nell’acqua del mare c’era disciolto dell’oro. Improvvisamente ricordò ch’io avevo studiato chimica e mi disse:

– Anche tu devi sapere qualche cosa di quest’oro.

Io non ne ricordavo molto, ma annuii arrischiando un’osservazione della cui verità non potevo essere sicuro. Dichiarai:

– L’oro del mare è il più costoso di tutti. Per avere uno di quei napoleoni che giacciono qui disciolti, bisognerebbe spenderne cinque.

Luciano che ansiosamente s’era rivolto a me per sentirmi confermare le ricchezze su cui nuotavamo, mi volse disilluso la schiena. A lui di quell’oro non importava più. Guido invece mi diede ragione credendo di ricordare che il prezzo di quell’oro era esattamente di cinque volte tanto, proprio come avevo detto io. Mi glorificava addirittura confermando la mia asserzione, che io sapevo del tutto cervellotica. Si vedeva che mi sentiva poco pericoloso e che in lui non c’era ombra di gelosia per quella donna coricata ai suoi piedi. Pensai per un istante di metterlo in imbarazzo dichiarando che ricordavo ora meglio e che per trarre dal mare uno di quei napoleoni ne sarebbero bastati tre o che ne sarebbero abbisognati addirittura dieci.

Ma in quell’istante fui chiamato dalla mia lenza che improvvisamente s’era tesa per uno strappo poderoso. Strappai anch’io e gridai. Con un balzo Guido mi fu vicino e mi prese di mano la lenza. Gliel’abbandonai volentieri. Egli si mise a tirarla su, prima a piccoli tratti, poi, essendo diminuita la resistenza, a grandissimi. E nell’acqua fosca si vide brillare l’argenteo corpo del grosso animale. Correva oramai rapidamente e senza resistenza dietro al suo dolore. Perciò compresi anche il dolore dell’animale muto, perché era gridato da quella fretta di correre alla morte. Presto l’ebbi boccheggiante ai miei piedi. Luciano l’aveva tratto dall’acqua con la rete e, strappandonelo senza riguardo, gli aveva levato di bocca l’amo.

Palpò il grosso pesce:

– Un’orata di tre chilogrammi!

Ammirando, disse il prezzo che se ne sarebbe domandato in pescheria. Poi Guido osservò che l’acqua era ferma a quell’ora e che sarebbe stato difficile di pigliare dell’altro pesce. Raccontò che i pescatori ritenevano che quando l’acqua non cresceva né calava, i pesci non mangiavano e perciò non potevano essere presi. Fece della filosofia sul pericolo che risultava ad un animale dal suo appetito. Poi, mettendosi a ridere, senz’accorgersi che si comprometteva, disse:

– Tu sei l’unico che sappia pescare questa sera.

La mia preda si dibatteva tuttavia nella barca, quando Carmen diede uno strido. Guido domandò senza muoversi e con una gran voglia di ridere nella voce:

– Un’altra orata?

Carmen confusa rispose:

– Mi pareva! Ma ha già abbandonato l’amo!

Io sono sicuro che, trascinato dal suo desiderio, egli le aveva dato un pizzicotto.

Io oramai mi sentivo a disagio in quella barca. Non accompagnavo più col desiderio l’opera del mio amo, anzi agitavo la lenza in modo che i poveri animali non potessero abboccare. Dichiarai che avevo sonno e pregai Guido di sbarcarmi a Sant’Andrea. Poi mi preoccupai di togliergli il sospetto ch’io me ne andassi perché infastidito da quanto doveva avermi rivelato lo strido di Carmen, e gli raccontai della scena che aveva fatta la mia piccina quella sera e il mio desiderio di accertarmi presto che non stesse male.

Compiacente come sempre, Guido accostò la barca alla riva. M’offerse l’orata ch’io avevo pescata, ma io rifiutai. Proposi di ridarle la libertà gettandola in mare, ciò che fece dare un urlo di protesta a Luciano, mentre Guido bonariamente disse:

– Se sapessi di poter ridarle la vita e la salute lo farei. Ma a quest’ora la povera bestia non può servire che in piatto!

Li seguii con gli occhi e potei accertarmi che non approfittarono dello spazio lasciato libero da me. Stavano bene serrati insieme e la barchetta andò via un po’ sollevata a prua dal troppo peso a poppa.

Mi parve una punizione divina all’apprendere che la mia bambina era stata colta dalla febbre. Non l’avevo resa malata io, simulando con Guido una preoccupazione che non sentivo per la sua salute? Augusta non s’era ancora coricata, ma poco prima c’era stato il dottor Paoli che l’aveva rassicurata dicendo di essere sicuro che una febbre improvvisa tanto violenta non poteva annunziare una malattia grave. Restammo lungamente a guardare Antonia che giaceva abbandonata sul piccolo giaciglio, la faccina dalla pelle asciutta arrossata intensamente sotto i bruni ricci scomposti. Non gridava, ma si lamentava di tempo in tempo con un lamento breve che veniva interrotto da un torpore imperioso. Dio mio! Come il male me la portava vicina! Avrei data una parte della mia vita per liberarle il respiro. Come togliermi il rimorso di aver pensato di non saper amarla, eppoi di aver passato tutto quel tempo in cui soffriva, lontano da lei e in quella compagnia?

– Somiglia ad Ada! – disse Augusta con un singulto. Era vero! Ce ne accorgemmo allora per la prima volta e quella somiglianza divenne sempre più evidente a mano a mano che Antonia crebbe, tanto che io talvolta mi sento tremare il cuore al pensiero che le potrebbe toccare il destino della poverina a cui assomiglia.

Ci coricammo dopo di aver posto il letto della bambina accanto a quello di Augusta. Ma io non potevo dormire: avevo un peso al cuore come quelle sere in cui i miei trascorsi della giornata si specchiavano in immagini notturne di dolore e di rimorso. La malattia della bambina mi pesava come un’opera mia. Mi ribellai! Io ero puro e potevo parlare, potevo dire tutto. E dissi tutto. Raccontai ad Augusta dell’incontro con Carmen, della posizione ch’essa occupava nella barca, eppoi del suo strido che io dubitai fosse stato provocato da una carezza brutale di Guido senza però poter esserne sicuro. Ma Augusta ne era sicura. Perché altrimenti, subito dopo, la voce di Guido sarebbe stata alterata dall’ilarità? Cercai di attenuare la sua convinzione, ma poi dovetti ancora raccontare. Feci una confessione anche per quanto concerneva me, descrivendo la noia che m’aveva cacciato di casa e il mio rimorso di non amare meglio Antonia. Mi sentii subito meglio e m’addormentai profondamente.

La mattina appresso, Antonia stava meglio; era quasi priva di febbre. Giaceva calma e libera di affanno, ma era pallida e affranta come se si fosse consunta in uno sforzo sproporzionato al suo piccolo organismo; evidentemente essa era già uscita vittoriosa dalla breve battaglia. Nella calma che ne derivò anche a me, ricordai, dolendomene, di aver compromesso orribilmente Guido e volli da Augusta la promessa ch’essa non avrebbe comunicato a nessuno i miei sospetti. Ella protestò che non si trattava di sospetti, ma di evidenza certa ciò che io negai senza riuscire a convincerla. Poi essa mi promise tutto quello che volli ed io me ne andai tranquillamente in ufficio.

Guido non c’era ancora e Carmen mi raccontò ch’erano stati ben fortunati dopo la mia partenza. Avevano prese altre due orate, più piccole della mia, ma di un peso considerevole. Io non volli crederlo e pensai che essa volesse convincermi che alla mia partenza avessero abbandonata l’occupazione a cui avevano atteso finché c’ero stato io. L’acqua non s’era fermata? Fino a che ora erano stati in mare?

Carmen per convincermi mi fece confermare anche da Luciano la pesca delle due orate ed io da quella volta pensai che Luciano per ingraziarsi Guido sia stato capace di qualunque azione.

Sempre durante la calma idillica che precorse l’affare del solfato di rame, avvenne in quell’ufficio una cosa abbastanza strana che non so dimenticare, tanto perché mette in evidenza la smisurata presunzione di Guido, quanto perché pone me in una luce nella quale m’è difficile di ravvisarmi.

Un giorno eravamo tutt’e quattro in ufficio e il solo che fra di noi parlasse di affari era, come sempre, Luciano. Qualche cosa nelle sue parole suonò all’orecchio di Guido quale una rampogna che, in presenza di Carmen, gli era difficile di sopportare. Ma altrettanto difficile era difendersene, perché Luciano aveva le prove che un affare ch’egli aveva consigliato mesi prima e che da Guido era stato rifiutato, aveva finito col rendere una quantità di denaro a chi se ne era occupato. Guido finì col dichiarare di disprezzare il commercio e asserire che se la fortuna non l’avesse assistito in questo, egli avrebbe trovato il mezzo di guadagnare del denaro con altre attività molto più intelligenti. Col violino, per esempio. Tutti furono d’accordo con lui ed anch’io, ma con la riserva:

– A patto di studiare molto.

La mia riserva gli dispiacque e disse subito che se si trattava di studiare, egli allora avrebbe potuto fare molte altre cose, per esempio, della letteratura. Anche qui gli altri furono d’accordo, ed io stesso, ma con qualche esitazione. Non ricordavo bene le fisonomie dei nostri grandi letterati e le evocavo per trovarne una che somigliasse a Guido. Egli allora urlò:

– Volete delle buone favole? Io ve ne improvviso come Esopo!

Tutti risero, meno lui. Si fece dare la macchina da scrivere e, correntemente, come se avesse scritto sotto dettatura, con gesti più ampi di quanto esigesse un lavoro utile alla macchina, stese la prima favola. Porgeva già il foglietto a Luciano, ma si ricredette, lo riprese e lo rimise a posto nella macchina, scrisse una seconda favola, ma questa gli costò più fatica della prima tanto che dimenticò di continuare a simulare con gesti l’ispirazione e dovette correggere il suo scritto più volte. Perciò io ritengo che la prima delle due favole non sia stata sua e che invece la seconda sia veramente uscita dal suo cervello di cui mi sembra degna. La prima favola diceva di un uccelletto al quale avvenne d’accorgersi che lo sportellino della sua gabbia era rimasto aperto. Dapprima pensò di approfittarne per volar via, ma poi si ricredette temendo che se, durante la sua assenza, lo sportellino fosse stato rinchiuso egli avrebbe perduta la sua libertà. La seconda trattava di un elefante ed era veramente elefantesca. Soffrendo di debolezza alle gambe, il grosso animale andava a consultare un uomo, celebre medico, il quale al vedere quegli arti poderosi gridava: – Non vidi giammai delle gambe tanto forti.

Luciano non si lasciò imporre da quelle favole anche perché non le capiva. Rideva abbondantemente, ma si vedeva che gli sembrava comico che una cosa simile gli fosse presentata come commerciabile. Rise poi anche per compiacenza quando gli fu spiegato che l’uccellino temeva di essere privato della libertà di ritornare in gabbia e l’uomo ammirava le gambe per quanto deboli dell’elefante. Ma poi chiese:

– Quanto si ricava da due favole così?

Guido fece da uomo superiore:

– Il piacere d’averle fatte eppoi, volendo farne di più, anche molti denari.

Carmen invece era agitata dall’emozione. Domandò il permesso di poter copiare quelle due favole e ringraziò riconoscente quando Guido le offerse in dono il foglietto ch’egli aveva scritto dopo di averlo anche firmato a penna.

Che cosa c’entravo io? Non avevo da battermi per l’ammirazione di Carmen della quale, come ho detto, non m’importava nulla, ma ricordando il mio modo di fare, devo credere che anche una donna che non sia rilevata dal nostro desiderio possa spingerci alla lotta. Infatti non si battevano gli eroi medievali anche per donne che non avevano mai viste? A me quel giorno avvenne che i dolori lancinanti del mio povero organismo improvvisamente si facessero acuti e mi parve di non poterli attenuare altrimenti che battendomi con Guido facendo subito delle favole anch’io.

Mi feci consegnare la macchina ed io veramente improvvisai. Vero è che la prima delle favole che feci, stava da molti giorni nel mio animo. Ne improvvisai il titolo: «Inno alla vita». Poi, dopo breve riflessione, scrissi di sotto: «Dialogo». Mi pareva più facile di far parlare le bestie che descriverle. Così nacque la mia favola dal dialogo brevissimo:

Il gamberello meditabondo: – La vita è bella ma bisogna badare al posto dove ci si siede.

L’orata, correndo dal dentista: – La vita è bella ma bisognerebbe eliminare quegli animalucci traditori che celano nella carne saporita il metallo acuminato.

Ora bisognava fare la seconda favola ma mi mancavano le bestie. Guardai il cane che giaceva nel suo cantuccio ed anch’esso guardò me. Da quegli occhi timidi trassi un ricordo: pochi giorni prima Guido era ritornato da caccia pieno di pulci ed era andato a nettarsi nel nostro ripostiglio. Ebbi allora subito la favola e la scrissi correntemente: «C’era una volta un principe morso da molte pulci. S’appellò agli dei che gl’infliggessero una sola pulce, grossa e famelica, ma una sola, e destinassero le altre agli altri uomini. Ma nessuna delle pulci accettò di restare sola con quella bestia d’uomo, ed egli dovette tenersele tutte».

In quel momento le mie favole mi parvero splendide. Le cose ch’escono dal nostro cervello hanno un aspetto sovranamente amabile specie quando si esaminano non appena nate. Per dire la verità il mio dialogo mi piace anche adesso, che ho fatta tanta pratica nel comporre. L’inno alla vita fatto dal morituro è una cosa molto simpatica per coloro che lo guardano morire ed è anche vero che molti moribondi spendono l’ultimo fiato per dire quella che a loro sembra la causa per cui muoiono, innalzando così un inno alla vita degli altri che sapranno evitare quell’accidente. In quanto alla seconda favola non voglio parlarne e fu commentata argutamente da Guido stesso che gridò ridendo:

– Non è una favola, ma un modo di darmi della bestia.

Risi con lui e i dolori che m’avevano spinto a scrivere s’attenuarono subito. Luciano rise quando gli spiegai quello che avevo voluto dire e trovò che nessuno avrebbe pagato qualche cosa né per le mie né per le favole di Guido. Ma a Carmen le mie favole non piacquero. Mi diede un’occhiataccia indagatrice ch’era veramente nuova per quegli occhi e che io intesi come se fosse stata una parola detta:

– Tu non ami Guido!

Ne fui addirittura sconvolto perché in quel momento essa certamente non sbagliava. Pensai che avevo torto di comportarmi come se non amassi Guido, io che poi lavoravo disinteressatamente per lui. Dovevo far attenzione al mio modo di comportarmi.

Dissi mitemente a Guido:

– Riconosco volentieri che le tue favole sono migliori delle mie. Bisogna però ricordare che sono le prime favole che ho fatte in vita mia.

Egli non s’arrese:

– Credi forse ch’io ne abbia fatte delle altre?

Lo sguardo di Carmen s’era già raddolcito e, per ottenerlo più dolce ancora, io dissi a Guido:

– Tu hai certamente un talento speciale per le favole.

Ma il complimento fece ridere tutti e due e subito dopo anche me, ma tutti bonariamente perché si vedeva che avevo parlato senz’alcuna intenzione maligna.

L’affare del solfato di rame diede una maggiore serietà al nostro ufficio. Non c’era più tempo per le favole. Quasi tutti gli affari che ci venivano proposti erano ormai da noi accettati. Alcuni diedero qualche utile, ma piccolo; altri delle perdite, ma grandi. Una strana avarizia era il principale difetto di Guido che fuori degli affari era tanto generoso. Quando un affare si dimostrava buono, egli lo liquidava frettolosamente, avido d’incassare il piccolo utile che gliene derivava. Quando invece si trovava involto in un affare sfavorevole, non si decideva mai ad uscirne pur di ritardare il momento in cui doveva toccare la propria tasca. Per questo io credo che le sue perdite sieno state sempre rilevanti e i suoi utili piccoli. Le qualità di un commerciante non sono altro che le risultanti di tutto il suo organismo, dalla punta dei capelli fino alle unghie dei piedi. A Guido si sarebbe adattata una parola che hanno i Greci: «astuto imbecille». Veramente astuto, ma anche veramente uno scimunito. Era pieno di accortezze che non servivano ad altro che ad ungere il piano inclinato sul quale scivolava sempre più in giù.

Assieme al solfato di rame gli capitarono tra capo e collo i due gemelli. La sua prima impressione fu di sorpresa tutt’altro che piacevole, ma subito dopo di avermi annunziato l’avvenimento, gli riuscì di dire una facezia che mi fece ridere molto, per cui, compiacendosi del successo, non seppe conservare il cipiglio. Associando i due bambini alle sessanta tonnellate di solfato, disse:

– Sono condannato a lavorare all’ingrosso, io!

Per confortarlo gli ricordai che Augusta era di nuovo nel settimo mese e che ben presto in fatto di bambini avrei raggiunto il suo tonnellaggio. Rispose sempre argutamente:

– A me, da buon contabile, non sembra la stessa cosa.

Dopo qualche giorno, per qualche tempo, fu preso da un grande affetto per i due marmocchi. Augusta che passava una parte della sua giornata dalla sorella, mi raccontò ch’egli dedicava loro ogni giorno qualche ora. Li carezzava, e ninnava e Ada gliene era tanto riconoscente che fra i due coniugi sembrava rifiorire un nuovo affetto. In quei giorni egli versò un importo abbastanza vistoso ad una società d’Assicurazioni per far trovare ai figli a vent’anni una piccola sostanza. Lo ricordo per aver io registrato quell’importo a suo debito.

Fui invitato anch’io a vedere i due gemelli; anzi da Augusta m’era stato detto che avrei potuto salutare anche Ada, che invece non poté ricevermi dovendo stare a letto ad onta che fossero passati già dieci giorni dal parto.

I due bambini giacevano in due culle in un gabinetto attiguo alla stanza da letto dei genitori. Ada, dal suo letto, mi gridò:

– Sono belli, Zeno?

Restai sorpreso dal suono di quella voce. Mi parve più dolce: era un vero grido perché vi si sentiva uno sforzo, eppure rimaneva tanto dolce. Senza dubbio la dolcezza in quella voce veniva dalla maternità, ma io ne fui commosso perché ve la scoprivo proprio quand’era rivolta a me. Quella dolcezza mi fece sentire come se Ada non m’avesse chiamato col solo mio nome, ma premettendovi anche qualche qualificativo affettuoso come «caro» o «fratello mio»! Ne sentii una viva riconoscenza e divenni buono ed affettuoso. Risposi festosamente:

– Belli, cari, somiglianti, due meraviglie. – Mi parevano invece due morticini scoloriti. Vagivano ambedue e non andavano d’accordo.

Presto Guido ritornò alla vita di prima. Dopo l’affare del solfato veniva più assiduo in ufficio, ma ogni settimana, al sabato, partiva per la caccia e non ritornava che al lunedì mattina tardi e giusto in tempo per dare un’occhiata all’ufficio prima di colazione. Alla pesca andava di sera e passava spesso la notte in mare. Augusta mi raccontava dei dispiaceri di Ada, la quale soffriva bensì di una frenetica gelosia, ma anche di trovarsi sola per tanta parte della giornata. Augusta tentava di calmarla ricordandole che a caccia e a pesca non c’erano donne. Però – non si sapeva da chi – Ada era stata informata che Carmen talvolta aveva accompagnato Guido a pesca. Guido, poi, l’aveva confessato aggiungendo che non c’era niente di male in una gentilezza ch’egli usava ad un’impiegata che gli era tanto utile. Eppoi non c’era stato sempre presente Luciano? Egli finì col promettere che non l’avrebbe invitata più, visto che ad Ada ciò dispiaceva. Dichiarava di non voler rinunciare né alla sua caccia che gli costava tanti denari né alla pesca. Diceva di lavorare molto (e infatti in quell’epoca nel nostro ufficio c’era molto da fare) e gli pareva che un po’ di svago gli spettasse. Ada non era di tale parere e le sembrava che il miglior svago egli l’avrebbe avuto in famiglia, e trovava in ciò l’assenso incondizionato di Augusta, mentre a me quello sembrava uno svago troppo sonoro.

Augusta allora esclamava:

– E tu non sei forse a casa ogni giorno, ad ore debite?

Era vero ed io dovevo confessare che fra me e Guido c’era una grande differenza, ma non sapevo vantarmene. Dicevo ad Augusta accarezzandola:

– Il merito è tuo perché hai usato dei metodi molto drastici di educazione.

D’altronde per il povero Guido le cose andavano peggiorandosi ogni giorno di più: dapprima c’erano stati bensì due bambini, ma una balia sola perché si sperava che Ada avrebbe potuto nutrire uno dei bambini. Invece essa non lo poté e dovettero far venire un’altra balia. Quando Guido voleva farmi ridere, camminava su e giù per l’ufficio battendosi il tempo con le parole: – Una moglie… due bambini… due balie!

C’era una cosa che Ada specialmente odiava: Il violino di Guido. Essa sopportava i vagiti dei bambini, ma soffriva orrendamente per il suono del violino. Aveva detto ad Augusta:

– Mi sentirei di abbaiare come un cane contro quei suoni!

Strano! Augusta invece era beata quando passando dinanzi al mio studiolo sentiva uscirne i miei suoni aritmici!

– Eppure anche il matrimonio di Ada è stato un matrimonio d’amore, – dicevo io stupito. – Non è il violino la miglior parte di Guido?

Tali chiacchiere furono del tutto dimenticate quando io rividi per la prima volta Ada. Fui proprio io che per il primo m’accorsi della sua malattia. Uno dei primi giorni del Novembre – una giornata fredda, priva di sole, umida, – abbandonai eccezionalmente l’ufficio alle tre del pomeriggio e corsi a casa pensando di riposare e sognare per qualche ora nel mio studiolo caldo. Per recarmivi dovevo passare il lungo corridoio, e dinanzi alla stanza di lavoro di Augusta mi fermai perché sentii la voce di Ada. Era dolce o malsicura (ciò che si equivale, io credo) come quel giorno in cui era stata indirizzata a me. Entrai in quella stanza spintovi dalla strana curiosità di vedere come la serena, la calma Ada, potesse vestirsi di quella voce che ricordava un po’ quella di qualche nostra attrice quando vuol far piangere senza saper piangere essa stessa. Infatti era una voce falsa o io la sentivo così, solo perché senza neppur aver visto chi la emetteva, la percepivo per la seconda volta dopo tanti giorni sempre ugualmente commossa e commovente. Pensai parlassero di Guido, perché quale altro argomento avrebbe potuto commuovere a quel modo Ada?

Invece le due donne, prendendo una tazza di caffè insieme, parlavano di cose domestiche: biancheria, servitù eccetera. Ma mi bastò di aver vista Ada per intendere che quella voce non era falsa. Commovente era anche la sua faccia ch’io per primo scoprivo tanto alterata, e quella voce, se non si accordava con un sentimento, rispecchiava esattamente tutto un organismo, ed era perciò vera e sincera. Questo io sentii subito. Io non sono un medico e perciò non pensai ad una malattia, ma cercai di spiegarmi l’alterazione nell’aspetto di Ada come un effetto della convalescenza dopo il parto. Ma come si poteva spiegare che Guido non si fosse accorto di tanto mutamento avvenuto nella sua donna? Intanto io, che sapevo a mente quell’occhio, quell’occhio ch’io tanto avevo temuto perché subito m’ero accorto che freddamente esaminava cose e persone per ammetterle o respingerle, potei constatare subito ch’era mutato, ingrandito, come se per vedere meglio avesse forzata l’orbita. Stonava quell’occhio grande nella faccina immiserita e scolorita.

Mi stese con grande affetto la mano:

– Già lo so, – mi disse – tu approfitti di ogni istante per venir a riveder tua moglie e la tua bambina.

Aveva la mano madida di sudore ed io so che ciò denota debolezza. Tanto più mi figurai che, rimettendosi, avrebbe riacquistati gli antichi colori e le linee sicure delle guancie e dell’incassatura dell’occhio.

Interpretai le parole che m’aveva indirizzate quale un rimprovero rivolto a Guido, e bonariamente risposi che Guido, quale proprietario della ditta, aveva maggiori responsabilità delle mie che lo legavano all’ufficio.

Mi guardò indagatrice per assicurarsi ch’io parlavo sul serio.

– Ma pure – disse – mi sembra che potrebbe trovare un po’ di tempo per sua moglie e i suoi figli, – e la sua voce era piena di lacrime. Si rimise con un sorriso che domandava indulgenza e soggiunse:

– Oltre agli affari ci sono anche la caccia e la pesca! Quelle, quelle portano via tanto tempo.

Con una volubilità che mi stupì raccontò dei cibi prelibati che si mangiavano alla loro tavola in seguito alla caccia e alla pesca di Guido.

– Tuttavia vi rinunzierei volentieri! – soggiunse poi con un sospiro e una lagrima. Non si diceva però infelice, anzi! Raccontava che ormai non sapeva neppur figurarsi che non le fossero nati i due bambini ch’essa adorava! Con un po’ di malizia aggiungeva sorridendo che li amava di più ora che ciascuno aveva la sua balia. Essa non dormiva molto, ma almeno, quando arrivava a prender sonno, nessuno la disturbava. E quando le chiesi se davvero dormisse tanto poco, si rifece seria e commossa per dirmi ch’era il suo maggior disturbo. Poi, lieta, aggiunse:

– Ma va già meglio!

Poco dopo ci lasciò per due ragioni: prima di sera doveva andar a salutare la madre eppoi non sapeva sopportare la temperatura delle nostre stanze munite di grandi stufe. Io, che ritenevo quella temperatura appena gradevole, pensai fosse un segno di forza quello di sentirla eccessivamente calda:

– Non pare che tu sia tanto debole, – dissi sorridendo, – vedrai come sentirai diversamente alla mia età.

Essa si compiacque molto di sentirsi designare come troppo giovine.

Io ed Augusta l’accompagnammo fino al pianerottolo. Pareva sentisse un grande bisogno della nostra amicizia perché per fare quei pochi passi camminò in mezzo a noi e si prese prima al braccio di Augusta eppoi al mio che io subito irrigidii per paura di cedere ad un’antica abitudine di premere ogni braccio femminile che s’offrisse al mio contatto. Sul pianerottolo parlò ancora molto e, avendo ricordato il padre suo, ebbe gli occhi di nuovo umidi, per la terza volta in un quarto d’ora. Quando se ne fu andata, io dissi ad Augusta che quella non era una donna ma una fontana. Benché avessi vista la malattia di Ada, non vi diedi alcun’importanza. Aveva l’occhio ingrandito; aveva la faccina magra; la sua voce s’era trasformata ed anche il carattere in quell’affettuosità che non era sua, ma io attribuivo tutto ciò alla doppia maternità e alla debolezza. Insomma io mi dimostrai un magnifico osservatore perché vidi tutto, ma un grande ignorante perché non dissi la vera parola: Malattia!

Il giorno appresso l’ostetrico, che curava Ada, domandò l’assistenza del dottor Paoli il quale subito pronunziò la parola ch’io non avevo saputo dire: Morbus Basedowii. Guido me lo raccontò descrivendomi con grande dottrina la malattia e compiangendo Ada che soffriva molto. Senz’alcuna malizia io penso che la sua compassione e la sua scienza non fossero grandi. Assumeva un aspetto accorato quando parlava della moglie, ma quando dettava delle lettere a Carmen manifestava tutta la gioia di vivere e insegnare; credeva poi che colui che aveva dato il suo nome alla malattia fosse il Basedow ch’era stato l’amico di Goethe, mentre quando io studiai quella malattia in un’enciclopedia, m’accorsi subito che si trattava di un altro.

Grande, importante malattia quella di Basedow! Per me fu importantissimo di averla conosciuta. La studiai in varie monografie e credetti di scoprire appena allora il segreto essenziale del nostro organismo. Io credo che da molti come da me vi sieno dei periodi di tempo in cui certe idee occupino e ingombrino tutto il cervello chiudendolo a tutte le altre. Ma se anche alla collettività succede la stessa cosa! Vive di Darwin dopo di essere vissuta di Robespierre e di Napoleone eppoi di Liebig o magari di Leopardi quando su tutto il cosmo non troneggi Bismark!

Ma di Basedow vissi sol io! Mi parve ch’egli avesse portate alla luce le radici della vita la quale è fatta così: tutti gli organismi si distribuiscono su una linea, ad un capo della quale sta la malattia di Basedow che implica il generosissimo, folle consumo della forza vitale ad un ritmo precipitoso, il battito di un cuore sfrenato, e all’altro stanno gli organismi immiseriti per avarizia organica, destinati a perire di una malattia che sembrerebbe di esaurimento ed è invece di poltronaggine. Il giusto medio fra le due malattie si trova al centro e viene designato impropriamente come la salute che non è che una sosta. E fra il centro ed un’estremità – quella di Basedow – stanno tutti coloro ch’esasperano e consumano la vita in grandi desiderii. ambizioni, godimenti e anche lavoro, dall’altra quelli che non gettano sul piatto della vita che delle briciole e risparmiano preparando quegli abietti longevi che appariscono quale un peso per la società. Pare che questo peso sia anch’esso necessario. La società procede perché i Basedowiani la sospingono, e non precipita perché gli altri la trattengono. Io sono convinto che volendo costruire una società, si poteva farlo più semplicemente, ma è fatta così, col gozzo ad uno dei suoi capi e l’edema all’altro, e non c’è rimedio. In mezzo stanno coloro che hanno incipiente o gozzo o edema e su tutta la linea, in tutta l’umanità, la salute assoluta manca.

Anche ad Ada il gozzo mancava a quanto mi diceva Augusta, ma aveva tutti gli altri sintomi della malattia. Povera Ada! M’era apparsa come la figurazione della salute e dell’equilibrio, tanto che per lungo tempo avevo pensato avesse scelto il marito con lo stesso animo freddo col quale suo padre sceglieva la sua merce, ed ora era stata afferrata da una malattia che la trascinava a tutt’altro regime: le perversioni psichiche! Ma io ammalai con lei di una malattia lieve, ma lunga. Per troppo tempo pensai a Basedow. Già credo che in qualunque punto dell’universo ci si stabilisca si finisce coll’inquinarsi. Bisogna moversi. La vita ha dei veleni, ma poi anche degli altri veleni che servono di contravveleni. Solo correndo si può sottrarsi ai primi e giovarsi degli altri.

La mia malattia fu un pensiero dominante, un sogno, e anche uno spavento. Deve aver avuto origine da un ragionamento: con la designazione di perversione si vuole intendere una deviazione dalla salute, quella specie di salute che ci accompagnò per un tratto della nostra vita. Ora sapevo che cosa fosse stata la salute da Ada. Non poteva la sua perversione portarla ad amare me, che da sana aveva respinto?

Io non so come questo terrore (o questa speranza) sia nato nel mio cervello!

Forse perché la voce dolce e spezzata di Ada mi parve di amore quando s’indirizzò a me? La povera Ada s’era fatta ben brutta ed io non sapevo più desiderarla. Ma andavo rivedendo i nostri rapporti passati e mi pareva che se essa fosse stata còlta da un improvviso amore per me, mi sarei trovato nelle brutte condizioni che ricordavano un poco quelle di Guido verso l’amico inglese dalle sessanta tonnellate di solfato di rame. Proprio lo stesso caso! Pochi anni prima io le avevo dichiarato il mio amore e non avevo fatto alcun atto di revoca fuori di quello di sposarne la sorella. In tale contratto essa non era protetta dalla legge ma dalla cavalleria. A me pareva di essere tanto fortemente impegnato con lei, che se essa si fosse presentata da me molti ma molti anni più tardi, perfezionata magari nella malattia di Basedow da un bel gozzo, io avrei dovuto far onore alla mia firma.

Ricordo però che tale prospettiva rese il mio pensiero più affettuoso per Ada. Fino ad allora, quando m’avevano informato dei dolori di Ada causati da Guido, io non ne avevo certamente goduto, ma pure avevo rivolto il pensiero con una certa soddisfazione alla mia casa nella quale Ada aveva rifiutato di entrare ed ove non si soffriva affatto. Ora le cose avevano cambiato: quell’Ada che m’aveva respinto con disdegno non c’era più, a meno che i miei testi di medicina non sbagliassero.

La malattia di Ada era grave. Il dottor Paoli, pochi giorni dopo, consigliò di allontanarla dalla famiglia e di mandarla in una casa di salute a Bologna. Seppi ciò da Guido, ma Augusta poi mi raccontò che alla povera Ada anche in quel momento non furono risparmiati dei grandi dispiaceri. Guido aveva avuto la sfacciataggine di proporre di metter Carmen alla direzione della famiglia durante l’assenza di sua moglie. Ada non ebbe il coraggio di dire apertamente quello che pensava di una simile proposta, ma dichiarò che non si sarebbe mossa di casa se non le fosse stato permesso di affidarne la direzione alla zia Maria, e Guido si adattò senz’altro. Egli però continuò ad accarezzare l’idea di poter aver Carmen a sua disposizione al posto lasciato libero da Ada. Un giorno disse a Carmen che se essa non fosse stata tanto occupata in ufficio, egli le avrebbe volentieri affidata la direzione della sua casa. Luciano ed io ci guardammo, e certamente scoprimmo ognuno nella faccia dell’altro un’espressione maliziosa. Carmen arrossì e mormorò che non avrebbe potuto accettare.

– Già – disse Guido con ira – per quegli sciocchi riguardi al mondo non si può fare quello che gioverebbe tanto!

Però tacque anche lui presto ed era sorprendente abbreviasse una predica tanto interessante.

Tutta la famiglia accompagnò Ada alla stazione. Augusta m’aveva pregato di portare dei fiori per la sorella. Arrivai un po’ in ritardo con un bel mazzo di orchidee che porsi ad Augusta. Ada ci sorvegliava e quando Augusta le offerse i fiori ci disse:

– Vi ringrazio di cuore!

Voleva significare di aver ricevuto i fiori anche da me, ma io sentii ciò come una manifestazione di affetto fraterno, dolce e anche un po’ fredda. Basedow certo non ci entrava.

Pareva una sposina, la povera Ada con quegli occhi ingranditi smisuratamente dalla felicità. La sua malattia sapeva simulare tutte le emozioni.

Guido partiva con lei per accompagnarla e ritornare dopo pochi giorni. Aspettammo sulla banchina la partenza del treno. Ada rimase affacciata alla finestra della sua vettura e continuò ad agitare il fazzoletto finché poté vederci.

Poi accompagnammo la signora Malfenti lacrimante a casa. Al momento di dividerci mia suocera dopo di aver baciata Augusta, baciò anche me.

– Scusa! – desse ridendo fra le lacrime – l’ho fatto senza proposito, ma se lo permetti ti dò anche un altro bacio.

Anche la piccola Anna, ormai dodicenne, volle baciarmi. Alberta, ch’era in procinto di abbandonare il teatro nazionale per fidanzarsi, e che di solito era un po’ sostenuta con me, quel giorno mi porse calorosamente la mano. Tutte mi volevano bene perché mia moglie era fiorente, e facevano così delle manifestazioni di antipatia per Guido, la cui moglie era malata.

Ma proprio allora corsi il rischio di divenire un marito meno buono. Diedi un grande dolore a mia moglie, senza mia colpa, per un sogno cui innocentemente la feci addirittura partecipare.

Ecco il sogno: eravamo in tre, Augusta, Ada ed io che ci eravamo affacciati ad una finestra e precisamente alla più piccola che ci fosse stata nelle nostre tre abitazioni, cioè la mia, quella di mia suocera e quella di Ada. Eravamo cioè alla finestra della cucina della casa di mia suocera che veramente si apre sopra un piccolo cortile mentre nel sogno dava proprio sul Corso. Al piccolo davanzale c’era tanto poco spazio che Ada, che stava in mezzo a noi tenendosi alle nostre braccia, aderiva proprio a me. Io la guardai e vidi che il suo occhio era ridivenuto freddo e preciso e le linee della sua faccia purissime fino alla nuca ch’io vedevo coperta dei suoi riccioli lievi, quei riccioli ch’io avevo visti tanto spesso quando Ada mi volgeva le spalle. Ad onta di tanta freddezza (tale mi pareva la sua salute) essa rimaneva aderente a me come avevo creduto lo fosse quella sera del mio fidanzamento intorno al tavolino parlante. Io, giocondamente, dissi ad Augusta (certo facendo uno sforzo per occuparmi anche di lei): «Vedi com’è risanata? Ma dov’è Basedow?». «Non vedi?», domandò Augusta ch’era la sola fra di noi che arrivasse a guardare sulla via. Con uno sforzo ci sporgemmo anche noi e scorgemmo una grande folla che s’avanzava minacciosa urlando. «Ma dov’è Basedow?» domandai ancora una volta. Poi lo vidi. Era lui che s’avanzava inseguito da quella folla: un vecchio pezzente coperto di un grande mantello stracciato, ma di broccato rigido, la grande testa coperta di una chioma bianca disordinata, svolazzante all’aria, gli occhi sporgenti dall’orbita che guardavano ansiosi con uno sguardo ch’io avevo notato in bestie inseguite, di paura e di minaccia. E la folla urlava: «Ammazzate l’untore!».

Poi ci fu un intervallo di notte vuota. Indi, subito, Ada ed io ci trovavamo soli sulla più erta scala che ci fosse nelle nostre tre case, quella che conduce alla soffitta della mia villa. Ada era posta per alcuni scalini più in alto, ma rivolta a me ch’ero in atto di salire, mentre lei sembrava volesse scendere. Io le abbracciavo le gambe e lei si piegava verso di me non so se per debolezza o per essermi più vicina. Per un istante mi parve sfigurata dalla sua malattia, ma poi, guardandola con affanno, riuscivo a rivederla come m’era apparsa alla finestra, bella e sana. Mi diceva con la sua voce soda: «Precedimi, ti seguo subito!» Io, pronto, mi volgevo per precederla correndo, ma non abbastanza presto per non scorgere che la porta della mia soffitta veniva aperta pian pianino e ne sporgeva la testa chiomata e bianca di Basedow con quella sua faccia fra timorosa e minacciosa. Ne vidi anche le gambe malsicure e il povero misero corpo che il mantello non arrivava a celare. Arrivai a correre via, ma non so se per precedere Ada o per fuggirla.

Ora pare che trafelato io mi sia destato nella notte, e nell’assopimento abbia raccontato tutto o parte del sogno ad Augusta per riprendere poi il sonno più tranquillo e più profondo. Credo che nella mezza coscienza io abbia seguito ciecamente l’antico desiderio di confessare i miei trascorsi.

Alla mattina, sulla faccia di Augusta, c’era il cereo pallore delle grandi occasioni. Io ricordavo perfettamente il sogno, ma non esattamente quello che gliene avessi riferito. Con un aspetto di rassegnazione dolorosa essa mi disse:

– Ti senti infelice perché essa è malata ed è partita e perciò sogni di lei.

Io mi difesi ridendo ed irridendo. Non Ada era importante per me, ma Basedow, e le raccontai dei miei studi e anche delle applicazioni che avevo fatte. Ma non so se riuscii di convincerla. Quando si viene colti nel sogno è difficile di difendersi. È tutt’altra cosa che arrivare alla moglie freschi freschi dall’averla tradita in piena coscienza. Del resto, per tali gelosie di Augusta, io non avevo nulla da perdere perché essa amava tanto Ada che da quel lato la sua gelosia non gettava alcun’ombra e, in quanto a me, essa mi trattava con un riguardo anche più affettuoso e m’era anche più grata di ogni mia più lieve manifestazione di affetto.

Pochi giorni dopo, Guido ritornò da Bologna con le migliori notizie. Il direttore della casa di salute garantiva una guarigione definitiva a patto che Ada trovasse poi in casa una grande quiete. Guido riferì con semplicità e bastevole incoscienza la prognosi del sanitario non avvedendosi che in famiglia Malfenti quel verdetto veniva a confermare molti sospetti sul suo conto. Ed io dissi ad Augusta:

– Ecco che sono minacciato di altri baci di tua madre.

Pare che Guido non si trovasse molto bene nella casa diretta da zia Maria. Talvolta camminava su e giù per l’ufficio mormorando:

– Due bambini… tre balie… nessuna moglie.

Anche dall’ufficio rimaneva più spesso assente perché sfogava il suo malumore imperversando sulle bestie a caccia e a pesca. Ma quando verso la fine dell’anno, ebbimo da Bologna la notizia che Ada veniva considerata guarita e che s’accingeva a rimpatriare, non mi parve che egli ne fosse troppo felice. S’era abituato a zia Maria oppure la vedeva tanto poco che gli era facile e gradevole di sopportarla? Con me naturalmente non manifestò il suo malumore se non esprimendo il dubbio che forse Ada s’affrettava troppo a lasciare la casa di salute prima di essersi assicurata contro una ricaduta. Infatti quand’essa, dopo breve tempo e ancora nel corso di quello stesso inverno, dovette ritornare a Bologna, egli mi disse trionfante:

– L’avevo detto io?

Non credo però che in quel trionfo ci fosse stata altra gioia che quella da lui tanto viva di aver saputo prevedere qualche cosa. Egli non augurava del male ad Ada, ma l’avrebbe tenuta volentieri per lungo tempo a Bologna.

Quando Ada ritornò, Augusta era relegata a letto per la nascita del mio piccolo Alfio e in quell’occasione fu veramente commovente. Volle io andassi alla stazione con dei fiori e dicessi ad Ada ch’essa voleva vederla quello stesso giorno. E se Ada non avesse potuto venire da lei addirittura dalla stazione, mi pregava ritornassi subito a casa, per saperle descrivere Ada e dirle se la sua bellezza, di cui in famiglia erano tanto orgogliosi, le fosse stata restituita intera.

Alla stazione eravamo io, Guido e la sola Alberta, perché la signora Malfenti passava una gran parte delle sue giornate presso Augusta. Sulla banchina, Guido cercava di convincerci della sua grande gioia per l’arrivo di Ada, ma Alberta lo ascoltava fingendo una grande distrazione allo scopo – come poi mi disse – di non dover rispondergli. In quanto a me la simulazione con Guido mi costava oramai poca fatica. M’ero abituato a fingere di non accorgermi delle sue preferenze per Carmen e non avevo mai osato alludere ai suoi torti verso la moglie. Non m’era perciò difficile di avere un atteggiamento d’attenzione come se ammirassi la sua gioia per il ritorno della sua amata moglie.

Quando il treno in punto a mezzodì entrò in stazione, egli ci precedette per raggiungere la moglie che ne scendeva. La prese fra le braccia e la baciò affettuosamente. Io, che gli vedevo il dorso piegato per arrivare a baciare la moglie più piccola di lui, pensai: «Un bravo attore!». Poi prese Ada per mano e la condusse a noi:

– Eccola riconquistata al nostro affetto!

Allora si rivelò quale era, cioè falso e simulatore, perché se egli avesse guardata meglio in faccia la povera donna, si sarebbe accorto che invece che al nostro affetto essa veniva consegnata alla nostra indifferenza. La faccia di Ada era male costruita perché aveva riconquistate delle guancie ma fuori di posto come se la carne, quando ritornò, avesse dimenticato dove apparteneva e si fosse poggiata troppo in basso. Avevano perciò l’aspetto di gonfiezze anziché di guancie. E l’occhio era ritornato nell’orbita, ma nessuno aveva saputo riparare i danni ch’esso aveva prodotto uscendone. Aveva spostate o distrutte delle linee precise e importanti. Quando ci congedammo fuori della stazione, al sole invernale abbacinante vidi che tutto il colorito di quella faccia non era più quello che io avevo tanto amato. Era impallidito e sulle parti carnose si arrossava per chiazzette rosse. Pareva che la salute non appartenesse più a quella faccia e si fosse riusciti di fingervela.

Raccontai subito ad Augusta che Ada era bellissima proprio come era stata da fanciulla ed essa ne fu beata. Poi, dopo di averla vista, a mia sorpresa essa confermò più volte come se fossero state evidenti verità le mie pietose bugie. Essa diceva:

– È bella com’era da fanciulla e come lo sarà mia figlia!

Si vede che l’occhio di una sorella non è molto acuto.

Per lungo tempo non rividi Ada. Essa aveva troppi figliuoli e così pure noi. Tuttavia Ada e Augusta facevano in modo di trovarsi insieme varie volte alla settimana, ma sempre in ore in cui io ero fuori di casa.

Si approssimava l’epoca del bilancio ed io avevo molto da fare. Fu anzi quella l’epoca della mia vita in cui lavorai di più. Qualche giorno restai a tavolino persino per dieci ore. Guido m’aveva offerto di farmi assistere da un contabile, ma io non ne volli sapere. Avevo assunto un incarico e dovevo corrispondervi. Intendevo compensare Guido di quella mia funesta assenza di un mese, e mi piaceva anche dimostrare a Carmen la mia diligenza, che non poteva essere ispirata da altro che dal mio affetto per Guido.

Ma come procedetti nel regolare i conti, incominciai a scoprire la grossa perdita in cui eravamo incorsi in quel primo anno di esercizio. Impensierito ne dissi a quattr’occhi qualche cosa a Guido, ma lui, che s’apprestava a partire per la caccia, non volle starmi a sentire:

– Vedrai che non è tanto grave come ti sembra eppoi l’anno non è ancora finito.

Infatti mancavano ancora otto giorni interi a capo d’anno.

Allora mi confidai ad Augusta. Dapprima essa vide in quella faccenda solo il danno che ne avrebbe potuto derivare a me. Le donne sono sempre fatte così, ma Augusta era straordinaria persino fra le donne quando qui si doleva del proprio danno. Non avrei finito anch’io – essa domandava – con l’essere ritenuto un po’ responsabile delle perdite subite da Guido? Voleva si consultasse subito un avvocato. Bisognava intanto staccarsi da Guido e cessare dal frequentare quell’ufficio.

Non mi fu facile di convincerla ch’io non potevo essere tenuto responsabile di niente non essendo io altra cosa che un impiegato di Guido. Essa sosteneva che chi non ha un emolumento fisso non possa essere considerato quale un impiegato, ma qualche cosa di simile ad un padrone. Quando fu ben convinta, naturalmente restò della sua opinione perché allora scoprì che non avrei perduto niente se avessi cessato di frequentare quell’ufficio dove sicuramente avrei finito col diffamarmi commercialmente. Diamine: la mia fama commerciale! Fui anch’io d’accordo ch’era importante di salvarla e, per quanto essa avesse avuto torto negli argomenti, si conchiuse che dovevo fare com’ella voleva. Consentì ch’io terminassi il bilancio poiché l’avevo iniziato, ma poi avrei dovuto trovare il modo di ritornare al mio studiolo nel quale non si guadagnavano dei denari, ma nemmeno se ne perdevano.

Feci però allora una curiosa esperienza su me stesso. Io non fui capace di abbandonare quella mia attività per quanto lo avessi deciso. Ne fui stupito! Per intendere bene le cose, occorre lavorare di immagini. Ricordai allora che una volta in Inghilterra la condanna ai lavori forzati veniva applicata appendendo il condannato al disopra di una ruota azionata a forza d’acqua, obbligando così la vittima a muovere in un certo ritmo le gambe che altrimenti gli sarebbero state sfracellate. Quando si lavora si ha sempre il senso di una costrizione di quel genere. È vero che quando non si lavora la posizione è la stessa e credo giusto di asserire che io e l’Olivi fummo sempre ugualmente appesi; soltanto che io lo fui in modo da non dover movere le gambe. La nostra posizione dava bensì un risultato differente, ma ora so con certezza ch’esso non legittimava né un biasimo né una lode. Insomma dipende dal caso se si viene attaccati ad una ruota mobile o ad una immobile. Staccarsene è sempre difficile.

Per varii giorni, dopo chiuso il bilancio, continuai ad andare all’ufficio pur avendo deciso di non andarci affatto. Uscivo di casa incerto; incerto prendevo una direzione ch’era quasi sempre quella dell’ufficio e, come procedevo, tale direzione si precisava finché non mi trovavo seduto sulla solita sedia in faccia a Guido. Per fortuna a un dato momento fui pregato di non lasciare il mio posto ed io subito vi accondiscesi visto che nel frattempo m’ero accorto d’esservi inchiodato.

Per il quindici di Gennaio il mio bilancio era chiuso. Un vero disastro! Chiudevamo con la perdita di metà del capitale. Guido non avrebbe voluto farlo vedere al giovine Olivi temendone qualche indiscrezione, ma io insistetti nella speranza che costui, con la sua grande pratica, vi avesse trovato qualche errore tale da mutare tutta la posizione. Poteva esserci qualche importo spostato dal dare, ove apparteneva, all’avere, e con una rettifica si sarebbe arrivati ad una differenza importante. Sorridendo, l’Olivi promise a Guido la massima discrezione e lavorò poi con me per una giornata intera. Disgraziatamente non trovò alcun errore. Devo dire che io da quella revisione fatta in due, appresi molto e che oramai saprei affrontare e chiudere dei bilanci anche più importanti di quello.

– E che cosa farete ora? – domandò l’occhialuto giovinotto prima di andarsene. Io sapevo già quello ch’egli avrebbe suggerito. Mio padre, che spesso mi aveva parlato di commercio nella mia infanzia, me l’aveva già insegnato. Secondo le leggi vigenti, data la perdita di metà del capitale, noi si avrebbe dovuto liquidare la ditta e magari ristabilirla subito su nuove basi. Lasciai ch’egli mi ripetesse il consiglio. Aggiunse:

– Si tratta di una formalità. – Poi, sorridendo:

– Può costare caro il non attenervisi!

Alla sera anche Guido si mise a rivedere il bilancio cui non sapeva adattarsi ancora. Lo fece senz’alcun metodo, verificando questo o quell’importo a casaccio. Volli interrompere quel lavoro inutile e gli comunicai il consiglio dell’Olivi di liquidare subito, ma pro forma, la gestione.

Fino ad allora Guido aveva avuto la faccia contratta dallo sforzo di trovare in quei conti l’errore liberatore: un cipiglio complicato dalla contrazione di chi ha in bocca un sapore disgustoso. Alla mia comunicazione alzò la faccia che si spianò in uno sforzo d’attenzione. Non comprese subito, ma quando capì si mise subito a ridere di cuore. Io interpretai l’espressione della sua faccia così: aspra, acida finché si trovava di fronte a quelle cifre che non si potevano alterare; lieta e risoluta quando il doloroso problema fu spinto in disparte da una proposta che gli dava aggio di riavere il sentimento di padrone e arbitro.

Non comprendeva. Gli pareva il consiglio di un nemico. Gli spiegai che il consiglio dell’Olivi aveva il suo valore specialmente per il pericolo, che incombeva in modo evidente sulla ditta, di perdere degli altri denari e fallire. Un’eventuale bancarotta sarebbe stata colposa se dopo questo bilancio, oramai consegnato nei nostri libri, non si fossero prese le misure consigliate dall’Olivi. E aggiunsi:

– La pena comminata dalle nostre leggi per il fallimento colposo è il carcere!

La faccia di Guido si coperse di tanto rosso che temetti egli fosse minacciato da una congestione cerebrale. Urlò:

– In questo caso l’Olivi non ha bisogno di darmi dei consigli! Se mai ciò dovesse avverarsi saprei risolvere da solo!

La sua decisione m’impose ed ebbi il sentimento di trovarmi di fronte a persona perfettamente conscia della propria responsabilità. Abbassai il tono della mia voce. Mi buttai poi tutto dalla sua parte e, dimenticando di aver già presentato il consiglio dell’Olivi come degno di esser preso in considerazione, gli dissi:

– È quello che obiettai anch’io all’Olivi. La responsabilità è tua e noi non ci entriamo quando tu decidi qualche cosa circa il destino della ditta che appartiene a te ed a tuo padre.

Veramente io questo l’avevo detto a mia moglie e non all’Olivi, ma insomma era vero che a qualcuno l’avevo detto. Ora, dopo aver sentita la virile dichiarazione di Guido, sarei stato anche capace di dirlo all’Olivi, perché la decisione e il coraggio m’hanno sempre conquistato. Se amavo già tanto anche la sola disinvoltura che può risultare da quelle qualità, ma anche da altre inferiori di molto.

Poiché volevo riferire tutte le sue parole ad Augusta per tranquillarla, insistetti:

– Tu sai che di me, e probabilmente a ragione, si dice che io non abbia alcun talento per il commercio. Io posso eseguire quello che tu mi ordini, ma non posso mica assumermi una responsabilità per quello che fai tu.

Egli assentì vivamente. Si sentiva tanto bene nella parte che io gli attribuivo, da dimenticare il suo dolore per il cattivo bilancio. Dichiarò:

– Io sono il solo responsabile. Tutto porta il mio nome ed io non ammetterei neppure che altri accanto a me volesse addossarsi delle responsabilità.

Ciò andava benissimo per essere riferito ad Augusta, ma molto di più di quanto io avevo domandato. E bisognava vedere l’aspetto ch’egli assumeva facendo quella dichiarazione: invece di un mezzo fallito sembrava un apostolo! S’era adagiato comodamente sul suo bilancio passivo e da lì diventava il mio padrone e signore. Questa volta come tante altre nel corso della nostra vita in comune, il mio slancio d’affetto per lui fu soffocato dalle sue espressioni rivelanti la spropositata stima ch’egli faceva di sé stesso. Egli stonava. Sì: bisogna dire proprio così; quel grande musicista stonava!

Gli domandai bruscamente:

– Vuoi che domani faccia una copia del bilancio per tuo padre?

Per un momento ero stato in procinto di fargli una dichiarazione ben più rude dicendogli che subito dopo chiuso il bilancio io mi sarei astenuto dal frequentare il suo ufficio. Non lo feci non sapendo come avrei impiegate le tante ore libere che mi sarebbero rimaste. Ma la mia domanda sostituiva quasi perfettamente la dichiarazione che m’ero rimangiata. Intanto gli avevo ricordato ch’egli in quell’ufficio non era il solo padrone.

Si dimostrò sorpreso delle mie parole perché gli parevano non conformi a quanto fino ad allora, col mio evidente consenso, s’era parlato e, col tono di prima, mi disse:

– Ti dirò io come si dovrà fare quella copia.

Protestai gridando. In tutta la mia vita non gridai tanto come con Guido perché talvolta mi sembrava sordo. Gli dichiarai che esisteva in legge anche una responsabilità del contabile ed io non ero disposto di gabellare per copie esatte dei raggruppamenti cervellotici di cifre.

Egli impallidì e riconobbe che avevo ragione, ma soggiunse ch’egli era padrone d’ordinare che non si dessero affatto degli estratti dai suoi libri. In ciò riconobbi volentieri che aveva ragione e allora, rinfrancatosi, dichiarò che a suo padre avrebbe scritto lui. Parve anzi che volesse immediatamente mettersi a scrivere, ma poi cambiò d’idea e mi propose di andar a pigliare una boccata d’aria. Volli compiacerlo. Supponevo che non avesse ancora digerito bene il bilancio e volesse moversi per cacciarlo giù.

La passeggiata mi ricordò quella della notte dopo il mio fidanzamento. Mancava la luna perché in alto c’era molta nebbia, ma giù era la stessa cosa, perché si camminava sicuri traverso un’aria limpida. Anche Guido ricordò quella sera memoranda:

– È la prima volta che camminiamo di nuovo insieme di notte. Ricordi? Tu allora mi spiegasti che anche nella luna ci si baciava come quaggiù. Adesso invece nella luna continuano il bacio eterno; ne sono sicuro ad onta che questa sera non si veda. Quaggiù, invece…

Voleva ricominciare a dir male di Ada? Della povera malata? Lo interruppi, ma mitemente, quasi associandomi a lui (non l’avevo forse accompagnato per aiutarlo a dimenticare?):

– Già! Quaggiù non si può sempre baciare! Lassù poi non c’è che l’immagine del bacio. Il bacio è soprattutto movimento.

Tentavo di allontanarmi da tutte le sue quistioni, cioè bilancio e Ada, tant’è vero che a tempo seppi eliminare una frase ch’ero stato in procinto di dire che cioè lassù il bacio non generava dei gemelli. Ma lui, per liberarsi dal bilancio, non trovava di meglio che lagnarsi delle altre sue disgrazie. Come avevo presentito, disse male di Ada. Cominciò col rimpiangere che quel suo primo anno di matrimonio fosse stato per lui tanto disastroso. Non parlava dei due gemelli ch’erano tanto cari e belli, ma della malattia di Ada. Egli pensava che la malattia la rendesse irascibile, gelosa e nello stesso tempo poco affettuosa. Terminò coll’esclamare sconsolato:

– La vita è ingiusta e dura!

A me sembrava assolutamente che mi fosse vietato di dire una sola parola che implicasse un mio giudizio fra lui e Ada. Ma mi pareva di dover pur dire qualche cosa. Egli aveva finito col parlare della vita e le aveva appioppati due predicati che non peccavano di soverchia originalità. Io scopersi il meglio proprio perché m’ero messo a fare la critica di quello ch’egli aveva detto. Tante volte si dicono delle cose seguendo il suono delle parole come s’associarono casualmente. Poi, appena, si va a vedere se quello che si disse valeva il fiato che vi si è consumato e qualche volta si scopre che la casuale associazione partorì un’idea. Dissi:

– La vita non è né brutta né bella, ma è originale!

Quando ci pensai mi parve d’aver detta una cosa importante. Designata così, la vita mi parve tanto nuova che stetti a guardarla come se l’avessi veduta per la prima volta coi suoi corpi gassosi, fluidi e solidi. Se l’avessi raccontata a qualcuno che non vi fosse stato abituato e fosse perciò privo del nostro senso comune, sarebbe rimasto senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo. M’avrebbe domandato: «Ma come l’avete sopportata?» E, informatosi di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassù perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: «Molto originale!»

– Originale la vita! – disse Guido ridendo. – Dove l’hai letto?

Non m’importò di assicurargli che non l’avevo letto in nessun posto perché altrimenti le mie parole avrebbero avuta meno importanza per lui. Ma, più che ci pensavo, più originale trovavo la vita. E non occorreva mica venire dal di fuori per vederla messa insieme in un modo tanto bizzarro. Bastava ricordare tutto quello che noi uomini dalla vita si è aspettato, per vederla tanto strana da arrivare alla conclusione che forse l’uomo vi è stato messo dentro per errore e che non vi appartiene.

Senza esserci accordati sulla direzione della nostra passeggiata, avevamo finito come l’altra volta sull’erta di via Belvedere. Trovato il muricciuolo su cui s’era steso quella notte, Guido vi salì e vi si coricò proprio come l’altra volta. Egli canticchiava, forse sempre oppresso dai suoi pensieri, e meditava certamente sulle inesorabili cifre della sua contabilità. Io invece ricordai che in quel luogo l’avevo voluto uccidere, e confrontando i miei sentimenti di allora con quelli di adesso, ammiravo una volta di più l’incomparabile originalità della vita. Ma improvvisamente ricordai che poco prima e per una bizza di persona ambiziosa, avevo imperversato contro il povero Guido e ciò in una delle peggiori giornate della sua vita. Mi dedicai ad un’indagine: assistevo senza grande dolore alla tortura che veniva inflitta a Guido dal bilancio messo insieme da me con tanta cura e me ne venne un dubbio curioso e subito dopo un curiosissimo ricordo. Il dubbio: ero io buono o cattivo? Il ricordo, provocato improvvisamente dal dubbio che non era nuovo: mi vedevo bambino e vestito (ne sono certo) tuttavia in gonne corte, quando alzavo la mia faccia per domandare a mia madre sorridente: «Sono buono o cattivo, io?». Allora il dubbio doveva essere stato ispirato al bimbo dai tanti che l’avevano detto buono e dai tanti altri che, scherzando, l’avevano qualificato cattivo. Non era affatto da meravigliarsi che il bimbo fosse stato imbarazzato da quel dilemma. Oh incomparabile originalità della vita! Era meraviglioso che il dubbio ch’essa aveva già inflitto al bimbo in forma tanto puerile, non fosse stato sciolto dall’adulto quando aveva già varcata la metà della sua vita.

Nella notte fosca, proprio su quel posto ove io una volta avevo già voluto uccidere, quel dubbio mi angosciò, profondamente. Certamente il bimbo quando aveva sentito vagare quel dubbio nella testa da poco libera dalla cuffia, non ne aveva sofferto tanto perché ai bambini si racconta che della cattiveria si guarisce. Per liberarmi da tanta angoscia volli credere di nuovo così, e vi riuscii. Se non vi fossi riuscito avrei dovuto piangere per me, per Guido e per la tristissima nostra vita. Il proposito rinnovò l’illusione! Il proposito di mettermi accanto a Guido e di collaborare con lui allo sviluppo del suo commercio da cui dipendeva la sua e la vita dei suoi e ciò senz’alcun utile per me. Intravvidi la possibilità di correre, brigare e studiare per lui e ammisi la possibilità di divenire, per aiutarlo, un grande, un intraprendente, un geniale negoziante. Proprio così pensai in quella fosca sera di questa vita originalissima!

Guido intanto cessò di pensare al bilancio. Abbandonò il suo posto e parve rasserenato. Come se avesse tratta una conclusione da un ragionamento di cui io non sapevo niente, mi disse che al padre non avrebbe detto nulla perché altrimenti il povero vecchio avrebbe intrapreso quell’enorme viaggio dal suo sole estivo alla nostra nebbia invernale. Mi disse poi che la perdita a prima vista sembrava ingente, ma che non lo era poi tanto se non doveva sopportarla tutta da solo. Avrebbe pregata Ada di addossarsene la metà e in compenso le avrebbe concesso una parte degli utili dell’anno seguente. L’altra metà della perdita l’avrebbe sopportata lui.

Io non dissi nulla. Pensai anche che mi fosse proibito di dare dei consigli, perché altrimenti avrei finito col fare quello che assolutamente non volevo, erigendomi a giudice fra i due coniugi. Del resto in quel momento ero tanto pieno di buoni propositi che mi pareva che Ada avrebbe fatto un buon affare partecipando ad un’impresa diretta da noi.

Accompagnai Guido fino alla porta di casa sua e gli strinsi lungamente la mano per rinnovare silenziosamente il proposito di volergli bene. Poi mi studiai di dirgli qualche cosa di gentile e finii col trovare questa frase:

– Che i tuoi gemelli abbiano una buona notte e ti lascino dormire perché certamente hai bisogno di riposo.

Andando via mi morsi le labbra al rimpianto di non aver trovato di meglio. Ma se sapevo che i gemelli oramai che avevano ciascuno la loro balia dormivano a mezzo chilometro da lui e non avrebbero potuto turbargli il sonno! Ad ogni modo egli aveva capita l’intenzione dell’augurio perché l’aveva accettato riconoscente.

Giunto a casa, trovai che Augusta s’era ritirata nella stanza da letto coi bambini. Alfio era attaccato al suo petto mentre Antonia dormiva nel suo lettino volgendoci la nuca ricciuta. Dovetti spiegare la ragione del mio ritardo e perciò le raccontai anche il mezzo escogitato da Guido per liberarsi delle sue passività. Ad Augusta la proposta di Guido parve indegna:

– Al posto di Ada io rifiuterei, – esclamò con violenza per quanto a bassa voce per non spaventare il piccino.

Diretto dai miei propositi di bontà, discussi:

– Perciò, se io capitassi nelle stesse difficoltà di Guido tu non m’aiuteresti?

Essa rise:

– La cosa è ben differente! Fra noi due si vedrebbe quello che sarebbe più vantaggioso per loro! – e accennò al bambino che teneva in braccio e ad Antonia. Poi, dopo un momento di riflessione, continuò: – E se noi ora consigliassimo ad Ada di concedere il suo denaro per continuare quell’affare di cui tu fra breve non farai più parte, non saremmo poi impegnati ad indennizzarla se dovesse poi perderlo?

Era un’idea da ignorante, ma nel mio nuovo altruismo esclamai:

– E perché no?

– Ma non vedi che ne abbiamo due dei bambini cui dobbiamo pensare?

Se li vedevo! La domanda era una figura rettorica veramente vuota di senso.

– E non ne hanno anche loro due dei bambini? – domandai vittoriosamente.

Essa si mise a ridere clamorosamente facendo spaventare Alfio che lasciò di poppare per piangere subito. Essa s’occupò di lui, ma sempre ridendo, ed io accettai il suo riso come se me lo fossi conquistato col mio spirito mentre, in verità, nel momento in cui avevo fatta quella domanda, m’ero sentito movere nel petto un grande amore per i genitori di tutti i bambini e per i bambini di tutti i genitori. Avendone poi riso, di quell’affetto non restò più niente.

Ma anche il cruccio di non sapermi essenzialmente buono si mitigò. Mi pareva di aver sciolto il problema angoscioso. Non si era né buoni né cattivi come non si era tante altre cose ancora. La bontà era la luce che a sprazzi e ad istanti illuminava l’oscuro animo umano. Occorreva la fiaccola bruciante per dare la luce (nell’animo mio c’era stata e prima o poi sarebbe sicuramente anche ritornata) e l’essere pensante a quella luce poteva scegliere la direzione per moversi poi nell’oscurità. Si poteva perciò manifestarsi buoni, tanto buoni, sempre buoni, e questo era l’importante. Quando la luce sarebbe ritornata non avrebbe sorpreso e non avrebbe abbacinato. Ci avrei soffiato su per spegnerla prima, visto ch’io non ne avevo bisogno. Perché io avrei saputo conservare il proposito, cioè la direzione.

Il proposito di bontà è placido e pratico ed io ora ero calmo e freddo. Curioso! L’eccesso di bontà m’aveva fatto eccedere nella stima di me stesso e del mio potere. Che cosa potevo io fare per Guido? Era vero ch’io nel suo ufficio sovrastavo di tanto agli altri quanto nel mio ufficio l’Olivi padre stava al disopra di me. Ma ciò non provava molto. E per essere ben pratico: che cosa avrei io consigliato a Guido il giorno appresso? Forse una mia ispirazione? Ma se neppure al tavolo di giuoco si seguivano le ispirazioni quando si giuocava coi denari altrui! Per far vivere una casa commerciale bisogna crearle un lavoro di ogni giorno e questo si può raggiungere lavorando ogni ora attorno ad una organizzazione. Non ero io che potevo fare una cosa simile, né mi pareva giusto di sottopormi a forza di bontà alla condanna della noia a vita.

Sentivo tuttavia l’impressione fattami dal mio slancio di bontà come un impegno che avessi preso con Guido, e non potevo addormentarmi. Sospirai più volte profondamente e una volta persino gemetti, certamente nel momento in cui mi pareva di essere obbligato di legarmi all’ufficio di Guido come l’Olivi era legato al mio.

Nel dormiveglia Augusta mormorò:

– Che hai? Hai trovato di nuovo da dire con l’Olivi?

Ecco l’idea che cercavo! Io avrei consigliato Guido di prendere con sé quale direttore il giovine Olivi! Quel giovinotto tanto serio e tanto laborioso e ch’io vedevo tanto malvolentieri nei miei affari perché pareva s’apprestasse di succedere a suo padre nella loro direzione per tenermene definitivamente fuori, apparteneva evidentemente e a vantaggio di tutti, nell’ufficio di Guido. Facendogli una posizione in casa sua, Guido si sarebbe salvato e il giovine Olivi sarebbe stato più utile in quell’ufficio che non nel mio.

L’idea mi esaltò e destai Augusta per comunicargliela. Anch’essa ne fu tanto entusiasmata da destarsi del tutto. Le pareva che così io avrei più facilmente potuto levarmi dagli affari compromettenti di Guido. Mi addormentai con la coscienza tranquilla: avevo trovato il modo di salvare Guido senza condannare me; anzi tutt’altro.

Non c’è niente di più disgustoso che di vedersi respinto un consiglio ch’è stato sinceramente studiato con uno sforzo che costò persino delle ore di sonno. Da me c’era poi stato un altro sforzo: quello di spogliarmi dell’illusione di poter giovare io stesso agli affari di Guido. Uno sforzo immane. Ero dapprima arrivato ad una vera bontà, poi ad un’assoluta oggettività e mi si mandava a quel paese!

Guido rifiutò il mio consiglio addirittura con disdegno. Non credeva capace il giovine Olivi eppoi gli spiaceva il suo aspetto di giovine vecchio e più ancora gli spiacevano quei suoi occhiali tanto lucenti sulla sua scialba faccia. Gli argomenti erano veramente atti a farmi credere che di fondato non ce ne fosse che uno: il desiderio di farmi dispetto. Finì col dirmi che avrebbe accettato come capo del suo ufficio non il giovine ma il vecchio Olivi. Ma io non credevo di potergli procurare la collaborazione di questi, eppoi io non mi credevo pronto per assumere da un momento all’altro la direzione dei miei affari. Ebbi il torto di discutere e gli dissi che il vecchio Olivi valeva poco. Gli raccontai quanto denaro mi avesse costato la sua caparbietà di non aver voluto comperare a tempo quella tale frutta secca.

– Ebbene! – esclamò Guido. – Se il vecchio non vale più di così, che valore potrà avere il giovine che non è altro che un suo scolaro?

Ecco finalmente un buon argomento, e tanto più dispiacevole per me in quanto lo avevo fornito io con la mia chiacchiera imprudente.

Pochi giorni appresso, Augusta mi raccontò che Guido aveva proposto ad Ada di sopportare col suo denaro metà della perdita del bilancio. Ada vi si rifiutava dicendo ad Augusta:

– Mi tradisce e vuole anche il mio denaro!

Augusta non aveva avuto il coraggio di consigliarle di darglielo, ma assicurava che aveva fatto del suo meglio per far ricredere Ada dal suo giudizio sulla fedeltà del marito. Costei aveva risposto in modo da far ritenere ch’essa a quel proposito la sapesse più lunga di quanto noi si credesse. E Augusta con me ragionava così: – Per il marito bisogna saper portare qualunque sacrificio, ma valeva tale assioma anche per Guido?

Nei giorni seguenti il contegno di Guido si fece veramente straordinario. Veniva in ufficio di tempo in tempo e non vi restava mai per più di mezz’ora. Correva via come chi ha dimenticato il fazzoletto a casa. Seppi poi che andava a portare nuovi argomenti ad Ada che gli parevano decisivi per indurla a fare il voler suo. Aveva veramente l’aspetto di persona che ha pianto troppo o troppo gridato o che s’è addirittura battuto, e neppure in nostra presenza arrivava a domare l’emozione che gli contraeva la gola e gli faceva venire le lacrime agli occhi. Gli domandai che cosa avesse. Mi rispose con un sorriso triste, ma amichevole per dimostrarmi che non l’aveva con me. Poi si raccolse onde poter parlarmi senz’agitarsi di troppo. Infine disse poche parole: Ada lo faceva soffrire con la sua gelosia.

Egli dunque mi raccontava che discutevano le loro storie intime mentre io pur sapevo che c’era anche quella storia del «conto utili e danni» fra di loro.

Ma pareva che questo non avesse importanza. Me lo diceva lui e lo diceva anche Ada ad Augusta non parlandole d’altro che della sua gelosia. Anche la violenza di quelle discussioni, che lasciava traccie tanto profonde sulla faccia di Guido, faceva credere dicessero il vero.

Invece poi risultò che fra’ due coniugi non si parlò che della questione del denaro. Ada per superbia e per quanto si facesse dirigere dai suoi dolori passionali, non li aveva mai menzionati, e Guido, forse per la coscienza della sua colpa e per quanto sentisse che in Ada imperversasse l’ira della donna, continuò a discutere gli affari come se il resto non esistesse. Egli s’affannò sempre più a correre dietro a quei denari, mentre lei, che non era affatto toccata da quistioni d’affari, protestava contro la proposta di Guido con un solo argomento: i denari dovevano restare ai bambini. E quand’egli trovava altri argomenti, la sua pace, il vantaggio che sarebbe derivato ai bambini stessi dal suo lavoro, la sicurezza di trovarsi in regola con le prescrizioni di legge, essa lo saldava con un duro «No». Ciò esasperava Guido e – come dai bambini – anche il suo desiderio. Ma ambedue – quando ne parlavano ad altri – credevano di essere esatti asserendo di soffrire per amori e gelosie.

Fu una specie di malinteso che m’impedì d’intervenire a tempo per far cessare l’incresciosa quistione del denaro. Io potevo provare a Guido ch’essa effettivamente mancava d’importanza. Quale contabile sono un po’ tardo e non capisco le cose che quando le ho distribuite nei libri, nero sul bianco, ma mi pare che presto io abbia capito che il versamento che Guido esigeva da Ada non avrebbe mutate di molto le cose. A che serviva infatti di farsi fare un versamento di denari? La perdita così non appariva mica minore, a meno che Ada non avesse accettato di far getto del denaro in quella contabilità ciò che Guido non domandava. La legge non si sarebbe mica lasciata ingannare al trovare che, dopo di aver perduto tanto, si voleva rischiare un po’ di più attirando nell’azienda dei nuovi capitalisti.

Una mattina Guido non si fece veder in ufficio ciò che ci sorprese perché sapevamo che la sera prima non era partito per la caccia. A colazione appresi da Augusta commossa e agitata che Guido la sera prima aveva attentato alla propria vita. Oramai era fuori di pericolo. Devo confessare che la notizia, che ad Augusta sembrava tragica, a me fece rabbia.

Egli era ricorso a quel mezzo drastico per spezzare la resistenza della moglie! Appresi anche subito che l’aveva fatto con tutte le prudenze, perché prima di prendere la morfina se ne era fatta vedere la boccetta stappata in mano. Così al primo torpore in cui cadde, Ada chiamò il medico ed egli fu subito fuori di pericolo. Ada aveva passata una notte orrenda perché il dottore credette di dover fare delle riserve sull’esito dell’avvelenamento, eppoi la sua agitazione fu prolungata da Guido che, quando rinvenne, forse non ancora in piena coscienza, la colmò di rimproveri dicendola la sua nemica, la sua persecutrice, colei che gl’impediva il sano lavoro cui egli voleva accingersi.

Ada gli accordò subito il prestito ch’egli domandava, ma poi, finalmente, nell’intenzione di difendersi, parlò chiaro e gli fece tutti i rimproveri ch’essa tanto tempo aveva trattenuti. Così arrivarono a intendersi perché a lui riuscì – così Augusta credeva – di dissipare in Ada ogni sospetto sulla sua fedeltà. Fu energico e quando lei gli parlò di Carmen, egli gridò:

– Ne sei gelosa? Ebbene, se lo vuoi la mando via oggi stesso.

Ada non aveva risposto e credette così di avere accettata quella proposta e ch’egli vi si fosse impegnato.

Mi meravigliai che Guido avesse saputo comportarsi così nel dormiveglia e giunsi fino a credere ch’egli non avesse ingoiata neppure la piccola dose di morfina ch’egli diceva. A me pareva che uno degli effetti degli annebbiamenti del cervello per sonno, fosse di sciogliere l’animo più indurito, inducendolo alle più ingenue confessioni. Non ero io recente di una tale avventura? Ciò aumentò il mio sdegno e il mio disprezzo per Guido.

Augusta piangeva raccontando in quale stato avesse trovata Ada. No! Ada non era più bella con quegli occhi che sembravano spalancati dal terrore.

Fra me e mia moglie ci fu una lunga discussione se io avessi dovuto far subito una visita a Guido e Ada oppure se non fosse stato meglio di fingere di non saper di nulla e aspettare di rivederlo in ufficio. A me quella visita sembrava una seccatura insopportabile. Vedendolo, come avrei fatto di non dirgli l’animo mio? Dicevo:

– È un’azione indegna per un uomo! Io non ho alcuna voglia di ammazzarmi, ma non v’è dubbio che se decidessi di farlo vi riuscirei subito!

Sentivo proprio così e volevo dirlo ad Augusta. Ma mi sembrava di far troppo onore a Guido paragonandolo a me:

– Non occorre mica essere un chimico per saper distruggere questo nostro organismo ch’è anche troppo sensibile. Non c’è quasi ogni settimana, nella nostra città, la sartina che ingoia la soluzione di fosforo preparata in segreto nella sua povera stanzetta, e da quel veleno rudimentale, ad onta di ogni intervento, viene portata alla morte con la faccina ancora contratta dal dolore fisico e da quello morale che subì la sua animuccia innocente?

Augusta non ammetteva che l’anima della sartina suicida fosse tanto innocente, ma, fatta una lieve protesta, ritornò al suo tentativo d’indurmi a quella visita. Mi raccontò che non dovevo temere di trovarmi in imbarazzo. Essa aveva parlato anche con Guido il quale aveva trattato con lei con tanta serenità come se egli avesse commessa l’azione più comune.

Uscii di casa senza dare la soddisfazione ad Augusta di mostrarmi convinto delle sue ragioni. Dopo lieve esitazione mi avviai senz’altro a compiacere mia moglie. Per quanto breve fosse il percorso, il ritmo del mio passo m’addusse ad una mitigazione del mio giudizio sul conto di Guido. Ricordai la direzione segnatami dalla luce che pochi giorni prima aveva illuminato il mio animo. Guido era un fanciullo, un fanciullo cui avevo promessa la mia indulgenza. Se non gli riusciva di ammazzarsi prima, anche lui prima o poi sarebbe arrivato alla maturità.

La fantesca mi fece entrare in uno stanzino che doveva essere lo studio di Ada. La giornata era fosca e il piccolo ambiente, con la sola finestra coperta da una fitta tenda, era buio. Sulla parete v’erano i ritratti dei genitori di Ada e di Guido. Vi restai poco perché la fantesca ritornò a chiamarmi e mi condusse da Guido e Ada nella loro stanza da letto. Questa era vasta e luminosa anche quel giorno, per le sue due ampie finestre e per la tappezzeria e i mobili chiari. Guido giaceva nel suo letto con la testa fasciata e Ada era seduta accanto a lui.

Guido mi ricevette senz’alcun imbarazzo, anzi con la più viva riconoscenza. Sembrava assonnato, ma per salutarmi eppoi darmi le sue disposizioni, seppe scotersi e apparire desto del tutto. Indi s’abbandonò sul guanciale e chiuse gli occhi. Ricordava che doveva simulare il grande effetto della morfina? Ad ogni modo faceva pietà e non ira ed io mi sentii molto buono.

Non guardai subito Ada: avevo paura della fisonomia di Basedow. Quando la guardai, ebbi una gradevole sorpresa perché mi aspettavo di peggio. I suoi occhi erano veramente ingranditi a dismisura, ma le gonfiezze che sulla sua faccia avevano sostituito le guancie, erano sparite e a me essa parve più bella. Vestiva un’ampia veste rossa, chiusa fino al mento, nella quale il suo povero corpicciuolo si perdeva. C’era in lei qualcosa di molto casto e, per quegli occhi, qualche cosa di molto severo. Non seppi chiarire del tutto i miei sentimenti, ma davvero pensai mi stesse accanto una donna che assomigliava a quell’Ada che io avevo amata.

A un certo momento Guido spalancò gli occhi, trasse di sotto al guanciale un assegno su cui subito vidi la firma di Ada, me lo consegnò, mi pregò di farlo incassare e di accreditarne l’importo in un conto che dovevo aprire al nome di Ada.

– Al nome di Ada Malfenti o Ada Speier? – domandò scherzosamente ad Ada.

Essa si strinse nelle spalle e disse:

– Lo saprete voi due come sia meglio.

– Ti dirò poi come devi fare le altre registrazioni, – aggiunse Guido con una brevità che mi offese.

Ero sul punto di interrompergli la sonnolenza cui s’era subito abbandonato, dichiarandogli che se voleva delle registrazioni se le facesse da sé.

Intanto fu portata una grande tazza di caffè nero che Ada gli porse. Egli trasse le braccia di sotto le coperte e con ambe le mani si portò la tazza alla bocca. Ora, col naso nella tazza, pareva proprio un bambino.

Quando mi congedai, egli m’assicurò che il giorno seguente sarebbe venuto in ufficio.

Io avevo già salutata Ada e perciò fui non poco sorpreso quand’essa mi raggiunse alla porta d’uscita. Ansava:

– Te ne prego, Zeno! Vieni qui per un istante. Ho bisogno di dirti una cosa.

La seguii nel salottino ove ero stato poco prima e da cui adesso si sentiva il pianto di uno dei gemelli.

Restammo in piedi guardandoci in faccia. Essa ansava ancora e per questo, solo per questo, io per un momento pensai che m’avesse fatto entrare in quella stanzuccia buia per domandarmi l’amore che le avevo offerto.

Nell’oscurità i suoi grandi occhi erano terribili. Pieno d’angoscia mi domandavo quello che avrei dovuto fare. Non sarebbe stato mio dovere di prenderla fra le mie braccia e risparmiarle così di dover domandarmi qualche cosa? In un istante quale avvicendarsi di propositi! È una delle grandi difficoltà della vita d’indovinare ciò che una donna vuole. Ascoltarne le parole non serve, perché tutto un discorso può essere annullato da uno sguardo e neppure questo sa dirigerci quando ci si trova con lei, per suo volere, in una comoda buia stanzuccia.

Non sapendo indovinare lei, io tentavo d’intendere me stesso. Quale era il mio desiderio? Volevo baciare quegli occhi e quel corpo scheletrico? Non sapevo dare una risposta decisa perché poco prima l’avevo vista nella severa castità di quella soffice vestaglia, desiderabile come la fanciulla ch’io avevo amata.

Alla sua ansia s’era intanto associato anche il pianto e così s’allungò il tempo in cui io non sapevo quello ch’ella volesse e che io desiderassi. Finalmente, con voce spezzata, essa mi disse ancora una volta il suo amore per Guido, così ch’io non ebbi più con lei né doveri né diritti. Balbettò:

– Augusta m’ha detto che tu vorresti lasciare Guido e non occuparti più dei fatti suoi. Devo pregarti di continuare ad assisterlo. Io non credo ch’egli sia in grado di fare da sé.

Mi domandava di continuare a fare quello che già facevo. Era poco, ben poco ed io tentai di concedere di più:

– Giacché lo vuoi, continuerò ad assistere Guido; farò anzi del mio meglio per assisterlo più efficacemente di quanto non abbia fatto finora.

Ecco di nuovo l’esagerazione! Me ne avvidi nello stesso momento in cui v’incappavo, ma non seppi rinunziarvi. Io volevo dire ad Ada (o forse mentirle) che ella mi premeva. Essa non voleva il mio amore, ma il mio appoggio ed io le parlavo in modo che potesse credere ch’io ero pronto a concederle ambedue.

Ada m’afferrò subito la mano. Ebbi un brivido. Offre molto una donna porgendo la mano! Ho sempre sentito questo. Quando mi fu concessa una mano mi parve di afferrare tutta una donna. Sentii la sua statura e nell’evidente confronto fra la mia e la sua, mi parve di fare atto somigliante all’abbraccio. Certo fu un contatto intimo.

Ella soggiunse:

– Io devo ritornare subito a Bologna in casa di salute e mi sarà di grande tranquillità di saperti con lui.

– Resterò con lui! – risposi con aspetto rassegnato. Ada dovette credere che quel mio aspetto di rassegnazione significasse il sacrificio ch’io consentivo di farle. Invece io stavo rassegnandomi a ritornare ad una vita molto ma molto comune, visto ch’essa non ci pensava di seguirmi in quella d’eccezione ch’io avevo sognata.

Feci uno sforzo per discendere del tutto a terra, e scopersi immediatamente nella mia mente un problema di contabilità non semplice. Dovevo accreditare dell’importo dell’assegno che tenevo in tasca il conto di Ada. Questo era chiaro e invece non chiaro affatto come tale registrazione avrebbe potuto toccare il conto Utili e Danni. Non ne dissi nulla per il dubbio che forse Ada non sapesse che c’era a questo mondo un libro mastro contenente dei conti di sì varia natura.

Ma non volli uscire da quella stanza senz’aver detto altro. Fu così che invece di parlare di contabilità, dissi una frase che in quel momento gettai lì negligentemente solo per dire qualche cosa, ma che poi sentii di grande importanza per me per Ada e per Guido, ma prima di tutto per me stesso che compromisi una volta di più. Tanto importante fu quella frase che per lunghi anni ricordai come, con movimento trascurato, avessi mosse le labbra per dirla in quello stanzino buio in presenza dei quattro ritratti dei genitori di Ada e Guido sposatisi anch’essi fra di loro sulla parete. Dissi:

– Hai finito con lo sposare un uomo ancora più bizzarro di me, Ada!

Come la parola sa varcare il tempo! Essa stessa avvenimento che si riallaccia agli avvenimenti! Diveniva avvenimento, tragico avvenimento, perché diretta ad Ada. Nel mio pensiero non avrei mai saputo evocare con tanta vivacità l’ora in cui Ada aveva scelto fra me e Guido su quella via soleggiata ove, dopo giorni di attesa, avevo saputo incontrarla per camminarle accanto e affaticarmi di conquistare il suo riso che scioccamente accoglievo come una promessa! E ricordai anche che allora io ero già reso inferiore per l’imbarazzo dei muscoli delle mie gambe mentre Guido si moveva ancora più disinvolto di Ada stessa e non era segnato da alcuna inferiorità se come tale non si avesse dovuto considerare quello strano bastone ch’egli si adattava di portare.

Essa disse a bassa voce:

– È vero!

Poi, sorridendo affettuosamente:

– Ma sono lieta per Augusta che tu sia stato tanto migliore di quanto ti credevo. – Poi, con un sospiro: – Tanto, che mi attenua un poco il dolore che Guido non sia quello che io m’aspettavo.

Io tacevo sempre, ancora dubbioso. Mi pareva che m’avesse detto che io fossi divenuto quello ch’essa si era aspettata dovesse divenire Guido. Era dunque amore? Ed essa disse ancora:

– Sei il migliore uomo della nostra famiglia, la nostra fiducia, la nostra speranza. – Mi riafferrò la mano e io la serrai forse troppo. Essa me la sottrasse però tanto presto, che fu dissipato ogni dubbio. E in quella buia stanzuccia io seppi di nuovo come dovevo comportarmi. Forse per attenuare il suo atto mi mandò un’altra carezza: – È perché ti so così che mi dolgo tanto di averti fatto soffrire. Hai veramente sofferto tanto?

Io ficcai subito l’occhio nell’oscurità del mio passato per ritrovare quel dolore e mormorai:

– Sì!

A poco a poco ricordai il violino di Guido eppoi come m’avrebbero gettato fuori di quel salotto se non mi fossi aggrappato ad Augusta, e poi ancora il salotto in casa Malfenti, ove intorno al tavolino Luigi XIV si faceva all’amore mentre dall’altro tavolino si guardava. Improvvisamente ricordai anche Carla perché anche con lei c’era stata Ada. Allora sentii viva la voce di Carla che mi diceva ch’io appartenevo a mia moglie, cioè ad Ada. Ripetei, mentre le lacrime mi salivano agli occhi:

– Molto! Sì! Molto!

Ada singhiozzava addirittura: – Mi dispiace tanto, tanto!

Si fece forza e disse:

– Ma adesso tu ami Augusta!

Un singhiozzo l’interruppe per un istante ed io trasalii non sapendo se essa si fosse fermata per sentire se io avrei affermato o negato quell’amore. Per mia fortuna non mi diede il tempo di parlare perché continuò:

– Adesso c’è fra noi due e dev’esserci un vero affetto fraterno. Io ho bisogno di te. Per quel ragazzo di là, io ormai dovrò essere una madre, dovrò proteggerlo. Vuoi aiutarmi nel mio difficile compito?

Nella sua grande emozione ella quasi s’appoggiava a me, come nel sogno. Ma io m’attenni alle sue parole. Mi domandava un affetto fraterno; l’impegno di amore che pensavo mi legasse a lei si trasformava così in un altro suo diritto, epperò le promisi subito di aiutare Guido, di aiutare lei, di fare quello che avrebbe voluto. Se fossi stato più sereno avrei dovuto parlare della mia insufficienza al compito ch’essa m’assegnava, ma avrei distrutta tutta l’indimenticabile emozione di quel momento. Del resto ero tanto commosso che non potevo sentire la mia insufficenza. In quel momento pensavo che non esistessero affatto per nessuno delle insufficienze. Anche quella di Guido poteva essere soffiata via con alcune parole che gli dessero il necessario entusiasmo.

Ada m’accompagnò sul pianerottolo e restò lì, appoggiata alla ringhiera, a vedermi scendere. Così aveva fatto sempre Carla, ma era strano lo facesse Ada che amava Guido, ed io gliene fui tanto grato che, prima di passare alla seconda branca della scala, alzai anche una volta il capo per vederla e salutarla. Così si faceva in amore ma, si vedeva, anche quando si trattava di amore fraterno.

Così me ne andai via lieto. Essa m’aveva accompagnato fino su quel pianerottolo, e non oltre. Non v’erano più dubbii. Restavamo così: io l’avevo amata ed ora amavo Augusta, ma il mio antico amore le dava il diritto alla mia devozione. Essa poi continuava ad amare quel fanciullo, ma riservava a me un grande affetto fraterno e non solo perché avevo sposata sua sorella, ma per indennizzarmi dei dolori che m’aveva procurati e che costituivano un legame segreto fra di noi. Tutto ciò era ben dolce, di un sapore raro in questa vita. Tanta dolcezza non avrebbe potuto darmi una vera salute? Infatti io camminai quel giorno senza imbarazzo e senza dolori, mi sentii magnanimo e forte e nel cuore un sentimento di sicurezza che m’era nuovo. Dimenticai di aver tradito mia moglie ed anche nel modo più sconcio oppure mi proposi di non farlo più ciò che si equivale, e mi sentii veramente quale Ada mi vedeva, l’uomo migliore della famiglia.

Allorché tanto eroismo s’affievolì, io avrei voluto ravvivarlo, ma intanto Ada era partita per Bologna ed ogni mio sforzo per trarre un nuovo stimolo da quanto essa m’aveva già detto restava vano. Sì! Avrei fatto quel poco che potevo per Guido, ma un proposito simile non aumentava né l’aria nei miei polmoni né il sangue nelle mie vene. Per Ada mi rimase nel cuore una grande nuova dolcezza rinnovata ogni qualvolta essa nelle sue lettere ad Augusta mi ricordava con qualche parola affettuosa. Le ricambiavo di cuore il suo affetto e accompagnavo la sua cura coi voti migliori. Magari le fosse riuscito di riconquistare tutta la sua salute e tutta la sua bellezza!

Il giorno seguente, Guido venne in ufficio e si mise subito a studiare le registrazioni ch’egli voleva fare. Propose:

– Storniamo ora il Conto Utili e Danni a metà con quello di Ada.

Era proprio questo ch’egli voleva e che non serviva a nulla. Se io fossi stato l’esecutore indifferente della sua volontà come lo ero stato fino a pochi giorni prima, con tutta semplicità avrei eseguite quelle registrazioni e non ci avrei pensato più. Invece sentii il dovere di dirgli tutto; mi pareva di stimolarlo al lavoro facendogli sapere che non era tanto facile di cancellare la perdita in cui si era incorsi.

Gli spiegai che a quanto ne sapevo io, Ada aveva dato quel denaro perché fosse posto a suo credito nel suo conto e ciò non avveniva più se noi lo saldavamo ficcandoci dentro, dall’altra parte, metà della perdita del bilancio. Poi, che la parte della perdita ch’egli voleva trasportare nel conto proprio, vi apparteneva e vi avrebbe anzi appartenuta tutta, ma ciò non era il suo annullamento e invece la constatazione della stessa. Ci avevo pensato tanto che m’era facile di spiegargli tutto, e conclusi:

– Ammettendo che si capitasse – così non voglia Iddio! – nelle circostanze previste dall’Olivi, la perdita sarebbe tuttavia risultata evidente dai nostri libri, non appena fossero stati visti da un perito pratico.

Egli mi guardava attonito. Sapeva abbastanza di contabilità per intendermi e invece non ci arrivava perché il desiderio gl’impediva di adattarsi all’evidenza. Poi aggiunsi, per fargli veder chiaramente tutto:

– Vedi che non c’era nessuno scopo che Ada facesse tale versamento?

Quando finalmente comprese, impallidì fortemente e si mise a rosicchiarsi nervosamente le unghie. Restò trasognato, ma volle vincersi e con quel suo comico fare di comandante, dispose che tuttavia quelle registrazioni fossero fatte, aggiungendo:

– Per esonerarti di ogni responsabilità sono disposto di scrivere io nei libri e magari di firmare!

Compresi! Voleva continuare a sognare in luogo ove non c’è posto a sogni: la partita doppia!

Ricordai quanto avevo promesso a me stesso là sull’erta di via Belvedere, eppoi ad Ada, nel salottino buio di casa sua e parlai generosamente:

– Farò subito le registrazioni che desideri: non sento il bisogno di essere difeso dalla tua firma. Sono qui per aiutarti, non per ostacolarti!

Egli mi strinse affettuosamente la mano:

– La vita è difficile – disse – ed è un grande conforto per me di avere accanto un amico quale sei tu.

Ci guardammo commossi negli occhi. I suoi lucevano. Per sottrarmi alla commozione che minacciava anche me, dissi ridendo:

– La vita non è difficile, ma molto originale.

Ed anche lui rise di cuore.

Poi egli mi restò accanto per vedere come avrei saldato quel Conto Utili e Danni. Fu fatto in pochi minuti. Quel conto morì, ma trascinò nel nulla anche il conto di Ada a cui però notammo il credito in un libercolo, per il caso in cui ogni altra testimonianza in seguito a qualche cataclisma fosse sparita e per avere l’evidenza che dovevamo pagarle gl’interessi. L’altra metà del Conto Utili e Danni andò ad aumentare il Dare già considerevole del conto di Guido.

Per loro natura i contabili sono un genere di animali molto disposti all’ironia. Facendo quelle registrazioni io pensavo: «Un conto – quello intitolato agli utili e danni – era morto ammazzato, l’altro – quello di Ada – era morto di morte naturale perché non ci riusciva di tenerlo in vita e invece non sapevamo ammazzare quello di Guido, ch’essendo di un debitore dubbioso, tenuto così, era una vera tomba aperta nella nostra azienda».

Di contabilità si continuò a parlare per lungo tempo, in quell’ufficio. Guido s’arrabattava per trovare un altro modo che avesse potuto proteggerlo meglio da eventuali insidie (così egli le chiamava) della legge. Io credo che egli abbia anche consultato qualche contabile perché un giorno venne in ufficio a propormi di distruggere i libri vecchi dopo averne fatti di nuovi sui quali avremmo registrata una vendita falsa ad un nome qualunque che avrebbe poi figurato di averla pagata con l’importo prestato da Ada. Era doloroso dover disilluderlo perché era corso all’ufficio animato da una tanta speranza! Proponeva una falsificazione che proprio mi ripugnava. Finora non avevamo fatto altro che spostare delle realtà minacciando di danneggiare chi implicitamente vi aveva dato il suo consenso. Ora, invece, egli voleva inventare dei movimenti di merci. Vedevo anch’io che così e solo così, si poteva cancellare ogni traccia della perdita subita ma a quale prezzo! Bisognava anche inventare il nome del compratore o prendere il consenso di chi volevamo far figurare come tale. Non avevo niente in contrario di veder distruggere i libri che pur avevo scritti con tanta cura, ma era seccante farne di nuovi. Feci delle obbiezioni che finirono col convincere Guido. Una fattura non si simula facilmente. Bisognerebbe saper falsificare anche i documenti comprovanti l’esistenza e la proprietà della merce.

Egli rinunziò al suo piano, ma il giorno seguente capitò in ufficio con un altro piano che anch’esso implicava la distruzione dei libri vecchi. Stanco di veder intralciato ogni altro lavoro da discussioni simili, protestai:

– Vedendo che ci pensi tanto, si crederebbe tu voglia proprio prepararti al fallimento! Altrimenti quale importanza può aver una diminuzione tanto esigua del tuo capitale? Finora nessuno ha il diritto di guardare nei tuoi libri. Bisogna ora lavorare, lavorare e non occuparsi di sciocchezze.

Mi confessò che quel pensiero era la sua ossessione. E come avrebbe potuto essere altrimenti? Con un po’ di sfortuna poteva incappare dritto dritto in quella sanzione penale e finire in carcere!

Dai miei studi giuridici io sapevo che l’Olivi aveva esposto con grande esattezza quali fossero i doveri di un commerciante che ha fatto un simile bilancio, ma per liberare Guido e anche me da tale ossessione, lo consigliai di consultare qualche avvocato amico.

Mi rispose di averlo già fatto ossia di non essere stato da un avvocato espressamente a quello scopo perché non voleva confidare nemmeno ad un avvocato quel suo segreto, ma di aver fatto ciarlare un avvocato suo amico col quale s’era trovato a caccia. Sapeva perciò che l’Olivi non aveva né sbagliato né esagerato… purtroppo!

Vedendone l’inanità, cessò dal fare delle scoperte per falsare la sua contabilità, ma non perciò riacquistò la calma. Ogni qualvolta veniva in ufficio si rabbuiava guardando i suoi libroni. Mi confessò, un giorno, che entrando nella nostra stanza gli era parso di trovarsi nell’anticamera della galera e avrebbe voluto correr via.

Un giorno mi domandò:

– Augusta sa tutto del nostro bilancio?

Arrossii perché nella domanda mi parve sentire un rimprovero. Ma evidentemente se Ada sapeva del bilancio poteva saperne anche Augusta. Non pensai subito così, ma mi parve invece di meritare il rimprovero che egli intendeva di muovermi. Perciò mormorai:

– L’avrà saputo da Ada o forse da Alberta cui Ada l’avrà detto!

Rivedevo tutti i rigagnoli che potevano condurre ad Augusta e non mi pareva con ciò di negare che essa avesse avuto tutto dalla prima fonte, cioè da me, ma di asserire che sarebbe stato inutile per me di tacere. Peccato! Se avessi invece confessato subito ch’io con Augusta non avevo segreti, mi sarei sentito tanto più leale e onesto! Un lieve fatto così, cioè la dissimulazione di un atto che sarebbe stato meglio di confessare e proclamare innocente, basta ad imbarazzare la più sincera amicizia.

Registro qui, quantunque non abbia avuto alcun’importanza né per Guido né per la mia storia, il fatto che alcuni giorni appresso, quel chiacchierone di sensale col quale avevamo avuto da fare per il solfato di rame, mi fermò per istrada e, guardandomi dal basso in alto, come ve lo obbligava la sua bassa statura ch’egli sapeva esagerare abbassandosi sulle gambe, mi disse ironicamente:

– Si dice che abbiate fatti degli altri buoni affari come quello del solfato!

Poi, vedendomi allibire, mi strinse la mano e soggiunse:

– Per conto mio io vi auguro i migliori affari. Spero non ne dubiterete!

E mi lasciò. Io suppongo che i fatti nostri gli sieno stati riferiti dalla figliuola sua che frequentava al Liceo la stessa classe della piccola Anna. Non riferii a Guido la piccola indiscrezione. Il mio compito precipuo era di difenderlo da inutili angustie.

Fui stupito che Guido non prendesse alcuna disposizione per Carmen, perché sapevo che aveva formalmente promesso alla moglie di congedarla. Io credevo che Ada sarebbe ritornata a casa dopo qualche mese come la prima volta. Ma essa, senza passare per Trieste, si recò invece a soggiornare in una villetta sul Lago Maggiore ove poco dopo Guido le portò i bambini.

Ritornato da quel viaggio e non so se egli avesse ricordata la sua promessa da sé oppure che Ada gliel’avesse richiamata alla mente – mi domandò se non sarebbe stato possibile di impiegare Carmen nel mio ufficio, cioè in quello dell’Olivi. Io sapevo già che in quell’ufficio tutti i posti erano occupati, ma visto che Guido me ne pregava calorosamente, acconsentii di andar a parlarne col mio amministratore. Per un caso fortunato, un impiegato dell’Olivi se ne andava proprio in quei giorni, ma aveva una paga inferiore di quella che era stata concessa a Carmen negli ultimi mesi con grande liberalità da Guido il quale, secondo me, faceva così pagare le sue donne dal Conto Spese Generali. Il vecchio Olivi s’informò da me sulla capacità di Carmen e per quanto io gli dessi le migliori informazioni, offerse di prenderla intanto alle stesse condizioni dell’impiegato congedato. Riferii ciò a Guido il quale afflitto e imbarazzato si grattò la testa.

– Come si fa ad offrirle un salario inferiore di quello che percepisce? Non si potrebbe indurre l’Olivi di arrivare a concederle intanto quello che ha già?

Io sapevo che non si poteva eppoi l’Olivi non usava considerarsi sposato con i suoi impiegati come facevamo noi. Quando si fosse accorto che Carmen avesse meritata una corona di meno della paga concessale, gliel’avrebbe levata senza misericordia. E si finì col restare così: l’Olivi non ebbe e non chiese neppure mai una risposta decisiva e Carmen continuò a far roteare i suoi begli occhi nel nostro ufficio.

Fra me e Ada c’era un segreto e restava importante proprio perché rimaneva un segreto. Essa scriveva assiduamente ad Augusta, ma mai le raccontò di aver avute delle spiegazioni con me e neppure di avermi raccomandato Guido. Neppure io ne parlai. Un giorno Augusta mi fece vedere una lettera di Ada che mi riguardava. Essa domandava prima notizie di me e finiva con l’appellarsi alla mia bontà perché le dicessi qualche cosa sull’andamento degli affari di Guido. Mi turbai quando sentii ch’essa si dirigeva a me e mi rasserenai quando vidi che come al solito si dirigeva a me per informarsi di Guido. Di nuovo non avevo da osare niente.

D’accordo con Augusta e senza parlarne a Guido, scrissi io a Ada. Mi misi al tavolo col proposito di scriverle veramente una lettera di affari e le comunicai ch’ero tanto contento del modo come ora Guido dirigeva gli affari, cioè con assiduità e accortezza.

Ciò era vero o almeno ero contento di lui quel giorno, poiché gli era riuscito di guadagnare del denaro vendendo della merce che teneva depositata in città da varii mesi. Era pur vero che egli sembrava più assiduo, ma andava tuttavia ogni settimana a caccia e a pesca. Io esageravo volontieri nella mia lode perché così mi pareva di giovare alla guarigione di Ada.

Rilessi la lettera e non mi bastò. Ci mancava qualche cosa. Ada s’era rivolta a me ed era certo che voleva anche mie notizie. Perciò mancavo di cortesia non dandogliene. E a poco a poco – lo ricordo come se mi avvenisse ora – mi sentii imbarazzato a quel tavolo come se mi fossi trovato di nuovo faccia a faccia con Ada, in quello stanzino buio. Dovevo stringere molto la manina offertami?

Scrissi ma poi dovetti rifare la lettera perché m’ero lasciato sfuggire parole addirittura compromettenti: anelavo di rivederla e speravo riconquistasse tutta la sua salute e tutta la sua bellezza. Questo poi significava prendere per la vita la donna che m’aveva offerta solo la mano. Il mio dovere era di stringere solo quella manina, stringerla dolcemente e lungamente per significare che intendevo tutto, tutto quello che non doveva essere detto giammai.

Non dirò tutto il frasario che passai in rivista per trovarci qualche cosa che potesse sostituire quella stretta di mano lunga e dolce e significativa, ma soltanto quelle frasi che poi scrissi. Parlai lungamente della vecchiaia incombente su di me. Non potevo stare un momento tranquillo senz’invecchiare. Ad ogni giro del mio sangue qualche cosa s’aggiungeva alle mie ossa e alle mie vene che significava vecchiaia. Ogni mattina, quando mi destavo, il mondo appariva più grigio ed io non me ne accorgevo perché tutto restava intonato; non v’era in quel giorno neppure una pennellata del colore del giorno prima, altrimenti l’avrei scorta ed il rimpianto m’avrebbe fatto disperare.

Mi ricordo benissimo di aver spedita la lettera con piena soddisfazione. Non m’ero affatto compromesso con quelle parole, ma mi pareva anche certo che se il pensiero di Ada fosse stato uguale al mio, essa avrebbe compresa quella stretta di mano amorosa. Ci voleva poco acume per indovinare che quella lunga disquisizione sulla vecchiaia non significava altro che il mio timore che trovandomi in corsa traverso il tempo, non potessi più essere raggiunto dall’amore. Pareva gridassi all’amore: «Vieni, vieni!» Invece non sono sicuro di aver voluto quell’amore e, se v’è un dubbio, risulta solo dal fatto che so di aver scritto circa così.

Per Augusta feci una copia di quella lettera lasciandone fuori la disquisizione sulla vecchiaia. Essa non l’avrebbe intesa, ma la prudenza non nuoce. Avrei potuto arrossire sentendo com’essa mi guardava mentre io stringevo la mano della sorella! Sì! Io sapevo ancora arrossire. E arrossii anche quando ricevetti un biglietto di ringraziamento di Ada in cui essa non menzionava affatto le mie chiacchiere sulla mia vecchiaia. Mi parve ch’essa si compromettesse molto di più con me di quanto io mai mi fossi compromesso con lei. Non sottraeva la sua manina alla mia pressione. La lasciava giacere inerte nella mia e, per la donna, l’inerzia è un modo di consentire.

Pochi giorni dopo di aver scritta quella lettera, scopersi che Guido s’era messo a giocare in Borsa. Lo appresi per un’indiscrezione del sensale Nilini.

Io conoscevo costui da lunghi anni perché eravamo stati condiscepoli al liceo ch’egli aveva dovuto abbandonare per entrare subito nell’ufficio di un suo zio. Ci eravamo poi rivisti qualche volta, e ricordo che la differenza del nostro destino aveva costituito nei nostri rapporti una mia superiorità. Mi salutava allora per primo e talvolta cercava di avvicinarmi. Ciò mi sembrava naturale, e invece m’apparve meno spiegabile quando in un’epoca che non so precisare egli si fece con me molto altezzoso. Non mi salutava più e a pena a pena rispondeva al saluto mio. Me ne preoccupai un poco perché la mia cute è molto sensibile ed è facilmente scalfita. Ma che farci? Forse m’aveva scoperto nell’ufficio di Guido ove gli pareva occupassi un posto di subalterno e mi spregiava perciò, o, con la stessa probabilità, si poteva supporre ch’essendo morto un suo zio e lasciatolo indipendente sensale di Borsa, fosse montato in superbia. Nei piccoli ambienti ci sono frequentemente di simili relazioni. Senza che ci sia stato un atto nemico, ci si guarda un bel giorno con avversione e disprezzo.

Fui sorpreso perciò di vederlo entrare nell’ufficio, ove mi trovavo solo, e domandare di Guido. S’era levato il cappello e m’aveva porta la mano. Poi s’era subito abbandonato con grande libertà su una delle nostre grandi poltrone. Io lo guardai con interessamento. Non lo avevo visto da anni tanto da vicino ed ora, con l’avversione che mi manifestava, si era conquistata la mia più intensa attenzione.

Egli aveva allora circa quarant’anni ed era ben brutto per una calvizie quasi generale interrotta da un’oasi di capelli neri e fitti alla nuca e un’altra alle tempie, la faccia gialla e troppo ricca di pelle ad onta del grosso naso. Era piccolo e magro e si ergeva come poteva, tanto che quando parlavo con lui mi sentivo un lieve dolore simpatico al collo, la sola simpatia che provassi per lui. Quel giorno mi parve che si trattenesse dal ridere e che la sua faccia fosse contratta da un’ironia o da un disprezzo che non poteva ferire me, visto ch’egli m’aveva salutato con tanta gentilezza. Invece poi scopersi che quell’ironia gli era stata stampata in faccia da madre natura bizzarra. Le sue piccole mascelle non combaciavano esattamente e fra di esse, da una parte della bocca, era rimasto un buco nel quale abitava stereotipata la sua ironia. Forse per conformarsi alla maschera da cui non sapeva liberarsi che allorquando sbadigliava, egli amava deridere il prossimo. Non era affatto uno sciocco e lanciava delle frecciate velenose, ma di preferenza agli assenti.

Ciarlava molto ed era immaginoso specie per affari di Borsa. Parlava della Borsa come se si fosse trattato di una sola persona ch’egli descriveva trepidante per una minaccia o addormentata nell’inerzia e con una faccia che sapeva ridere e anche piangere. Egli la vedeva salire la scala dei corsi ballando o scenderne a rischio di precipitare, eppoi l’ammirava come accarezzava un valore, come ne strangolava un altro, oppure anche come insegnava alla gente la moderazione e l’attività. Perché solo chi aveva del senno poteva trattare con lei. V’erano tanti di quei denari sparsi per terra in Borsa, ma chinarsi a raccoglierli non era facile.

Lo lasciai attendere dopo di avergli offerta una sigaretta e mi diedi da fare con certa corrispondenza. Dopo un po’ di tempo egli si stancò e disse che non poteva restare di più. Del resto era venuto solo per raccontare a Guido che certe azioni dallo strano nome di Rio Tinto e di cui egli a Guido aveva consigliato l’acquisto il giorno prima – sì, proprio ventiquattr’ore prima – erano quel giorno balzate in alto di circa il dieci per cento. Si mise a ridere di cuore.

– Intanto che noi parliamo qui, ossia che io attendo, il dopo-Borsa avrà fatto il resto. Se il signor Speier ora volesse comperare quelle azioni chissà a quale prezzo dovrebbe pagarle. Come ho indovinato io dove mirava la Borsa.

Si vantò del suo colpo d’occhio dovuto alla sua lunga intimità con la Borsa. S’interruppe per domandarmi:

– Chi credi istruisca meglio: l’Università o la Borsa?

La sua mandibola calò ancora un poco e il buco dell’ironia s’ingrandì.

– Evidentemente la Borsa! – dissi io con convinzione. Ciò mi valse da lui una stretta di mano affettuosa quando mi lasciò.

Dunque Guido giocava in Borsa! Se fossi stato più attento avrei potuto indovinarlo prima, perché quando io gli avevo presentato un conto esatto degli importi non insignificanti che avevamo guadagnati con gli ultimi nostri affari, egli lo aveva guardato sorridendo, ma con qualche disprezzo. Trovava che avevamo dovuto lavorare troppo per guadagnare quel denaro. E si noti che con qualche decina di quegli affari si avrebbe potuto coprire la perdita in cui eravamo incorsi l’anno precedente! Che cosa dovevo far ora, io che pochi giorni prima avevo scritte le sue lodi?

Poco dopo Guido venne in ufficio ed io fedelmente gli riferii le parole del Nilini. Stette a sentire con tanta ansietà che neppure si accorse che io avevo così appreso ch’egli giocava, e corse via.

Alla sera ne parlai con Augusta, che ritenne si dovesse lasciare in pace Ada e invece avvisare la signora Malfenti dei pericoli cui s’esponeva Guido. Mi domandò di fare anch’io del mio meglio per impedirgli spropositi.

Preparai lungamente le parole che dovevo dirgli. Finalmente attuavo i miei propositi di bontà attiva e mantenevo la promessa che avevo fatta ad Ada. Sapevo come dovevo afferrare Guido per indurlo ad obbedirmi. Ognuno commette una leggerezza, – gli avrei spiegato, – giocando in Borsa, ma più di tutti un commerciante che abbia un simile bilancio dietro di sé.

Il giorno seguente cominciai benissimo:

– Tu dunque ora giochi alla Borsa? Vuoi finire in carcere? – gli domandai severamente. Ero preparato ad una scena e tenevo anche in serbo la dichiarazione che giacché egli procedeva in modo da compromettere la ditta, io avrei abbandonato senz’altro l’ufficio.

Guido seppe disarmarmi subito. Avevo tenuto sinora il segreto, ma ora, con un abbandono da buon ragazzo, mi disse ogni particolare di quei suoi affari. Lavorava in valori minerarii di non so che paese, che gli avevano già dato un utile che quasi sarebbe bastato a coprire la perdita del nostro bilancio. Oramai era cessato ogni rischio e poteva raccontarmi tutto. Quando avesse avuta la sfortuna di perdere quello che aveva guadagnato, avrebbe semplicemente cessato di giocare. Se invece la fortuna avesse continuato ad assisterlo, si sarebbe affrettato di mettere in regola le mie registrazioni di cui sentiva sempre la minaccia.

Vidi che non era il caso di arrabbiarsi e che si doveva invece congratularsi con lui. In quanto alle questioni di contabilità, gli dissi che poteva oramai essere tranquillo, perché ove c’era disponibile del contante era facilissimo di regolare la contabilità più fastidiosa. Quando nei nostri libri fosse stato reintegrato come di diritto il conto di Ada e almeno diminuito quello ch’io dicevo l’abisso della nostra azienda, cioè il conto di Guido, la nostra contabilità non avrebbe fatta una grinza.

Poi gli proposi di fare tale regolazione subito e mettere in conto della ditta le operazioni di Borsa. Per fortuna egli non accettò perché altrimenti io sarei divenuto il contabile del giocatore e mi sarei addossata una maggiore responsabilità. Così invece le cose procedettero come se io non avessi esistito. Egli rifiutò la mia proposta con delle ragioni che mi parvero buone. Era di malaugurio di pagare così subito i suoi debiti ed è una superstizione divulgatissima a tutti i tavoli da giuoco che il denaro altrui porti fortuna. Io non ci credo, ma quando giuoco non trascuro neppur io alcuna prudenza.

Per un certo tempo mi feci dei rimproveri di aver accolte le comunicazioni di Guido senz’alcuna protesta. Ma quando vidi comportarsi allo stesso modo la signora Malfenti che mi raccontò come suo marito aveva saputo guadagnare dei bei denari alla borsa, eppoi anche Ada, dalla quale sentii considerare il giuoco come un qualsiasi genere di commercio, compresi che assolutamente a questo riguardo non si avrebbe potuto movermi alcun rimprovero. Per arrestare Guido su quella china non sarebbe bastata la mia protesta che non avrebbe avuta alcun’efficacia se non fosse stata appoggiata da tutti i membri della famiglia.

Fu così che Guido continuò a giocare, e tutta la sua famiglia con lui. Ero anch’io della comitiva, tant’è vero ch’entrai in una relazione d’amicizia alquanto curiosa col Nilini. È sicuro ch’io non potevo soffrirlo perché lo sentivo ignorante e presuntuoso, ma pare che per riguardo a Guido, che da lui aspettava i buoni consigli, sapessi celare tanto bene i miei sentimenti ch’egli finì col credere di avere in me un amico devoto. Non nego che forse la mia gentilezza con lui fosse anche dovuta al desiderio di evitare quel malessere che m’aveva data la sua inimicizia, tanto forte causa quell’ironia che rideva sulla sua brutta faccia. Ma non gli usai mai altre gentilezze fuori di quella di porgergli la mano e il saluto quando veniva e se ne andava. Egli invece fu gentilissimo ed io non seppi non accettare le sue cortesie con gratitudine, ciò ch’è veramente la massima gentilezza che si possa usare a questo mondo. Mi procurava delle sigarette di contrabbando e me le faceva pagare quello che gli costavano, cioè molto poco. Se mi fosse stato più simpatico avrebbe potuto indurmi a giocare col suo mezzo; non lo feci mai, solo per non vederlo più di spesso.

Lo vedevo anzi troppo! Passava delle ore nel nostro ufficio ad onta che – com’era facile di accorgersene – non fosse innamorato di Carmen. Veniva a tener compagnia proprio a me. Pare si fosse prefisso d’istruirmi nella politica in cui egli era profondo causa la Borsa. Mi presentava le grandi potenze come un giorno si stringevano la mano e si pigliavano a schiaffi il giorno seguente. Non so se abbia indovinato il futuro perché io per antipatia non lo stetti mai a sentire. Conservavo un sorriso ebete, stereotipato. Il nostro malinteso sarà certo dipeso da un’interpretazione errata del mio sorriso che gli sarà parso d’ammirazione. Io non ne ho colpa.

So solo le cose che ripeteva ogni giorno. Potei accorgermi ch’egli era un italiano di color dubbio perché gli pareva che per Trieste fosse meglio di restare austriaca. Adorava la Germania e specialmente i treni ferroviari tedeschi che arrivavano con tanta precisione. Era socialista a modo suo e avrebbe voluto fosse proibito che una singola persona possedesse più di centomila corone. Non risi un giorno in cui, conversando con Guido, egli ammise di possedere proprio centomila corone e non un centesimo in più. Non risi, e non gli domandai neppure se guadagnando dell’altro denaro avrebbe modificata la sua teoria. La nostra era una relazione veramente strana. Io non sapevo ridere né con lui né di lui.

Quando aveva snocciolata qualche sua sentenza, si ergeva di tanto sulla sua poltrona che i suoi occhi guardavano il soffitto mentre a me restava rivolto il buco che io dicevo mandibolare. E vedeva con quel buco! Volli talvolta approfittare di quella sua posizione per pensare ad altro, ma egli richiamava la mia attenzione domandandomi subito:

– Mi stai a sentire?

Dopo di quella sua simpatica effusione, Guido per lungo tempo non mi parlò dei suoi affari. Qualche cosa me ne diceva dapprima il Nilini, ma anche lui si fece poi più riservato. Da Ada stessa seppi che Guido continuava a guadagnare.

Quand’essa ritornò, la trovai di nuovo imbruttita parecchio. Era piuttosto imbolsita che ingrassata. Le sue guancie, ricresciute, erano anche questa volta fuori di posto e le facevano una faccia quasi quadrata. Gli occhi avevano continuato a sformare la loro incassatura. La mia sorpresa fu grande, perché da Guido ed altri ch’erano stati a trovarla, avevo sentito dire che ogni giorno che passava le apportava nuova forza e salute. Ma la salute della donna è in primo luogo la sua bellezza.

Con Ada ebbi altre sorprese. Mi salutò affettuosamente, ma non altrimenti di quanto avesse salutata Augusta. Non c’era fra di noi più alcun segreto e certamente essa non ricordava più di aver pianto al ricordo di avermi fatto soffrire tanto. Tanto meglio! Essa dimenticava infine i suoi diritti su di me! Ero il suo buon cognato e mi amava solo perché ritrovava immutati i miei affettuosi rapporti con mia moglie, che formavano sempre l’ammirazione di casa Malfenti.

Un giorno feci una scoperta che mi sorprese assai. Ada si credeva ancora bella! Lontano, sul lago, le avevano fatta la corte ed era evidente ch’essa gioiva dei suoi successi. Probabilmente li esagerava perché mi pareva fosse un eccesso il pretendere di aver dovuto lasciare quella villeggiatura per sottrarsi alle persecuzioni di un innamorato. Ammetto che qualche cosa di vero ci possa essere stato, perché probabilmente ella poteva apparire meno brutta a chi prima non l’aveva conosciuta. Ma già, non tanto, con quegli occhi e quel colorito e quella forma di faccia! A noi essa appariva più brutta perché, ricordando com’era stata, scorgevamo più evidenti le devastazioni compiute dalla malattia.

Invitammo una sera Guido e lei a casa nostra. Fu un ritrovo gradevole, veramente di famiglia. Pareva la continuazione di quel nostro fidanzamento a quattro. Ma la chioma di Ada non era illuminata da alcuna luce.

Al momento di dividerci, io, per aiutarla a indossare il mantello, restai per un istante solo con lei. Ebbi subito un senso un po’ differente delle nostre relazioni. Eravamo lasciati soli e forse potevamo dirci quello che in presenza degli altri non volevamo. Mentre l’aiutavo, riflettei e finii col trovare quello che dovevo dirle:

– Tu sai ch’egli ora giuoca! – le dissi con voce seria. Mi viene talvolta il dubbio ch’io con tali parole avessi voluto rievocare l’ultimo nostro ritrovo che non ammettevo fosse talmente dimenticato.

– Sì – essa disse sorridendo, – e fa molto bene. È divenuto bravo abbastanza, a quanto mi dicono.

Risi con lei, forte. Mi sentivo sollevato da ogni responsabilità. Andandosene essa mormorò:

– Quella Carmen è sempre nel vostro ufficio?

Non arrivai a rispondere perché corse via. Fra di noi non c’era più il nostro passato. C’era però la sua gelosia. Quella era viva come nell’ultimo nostro incontro.

Adesso, ripensandoci, trovo che avrei dovuto accorgermi molto tempo prima di esserne espressamente avvisato, che Guido aveva cominciato a perdere in Borsa. Sparve dalla sua faccia l’aria di trionfo che l’aveva illuminata e manifestò di nuovo quella grande ansietà per quel bilancio chiuso a quel modo.

– Perché te ne preoccupi – gli domandai io nella mia innocenza – quando hai già in tasca quello che occorre per rendere del tutto reali queste registrazioni? Avendo tanti denari non si va in carcere. – Allora, come lo seppi poi, egli in tasca non aveva più nulla.

Credetti tanto fermamente ch’egli avesse legata a sé la fortuna che non tenni conto di tanti indizii che avrebbero potuto convincermi altrimenti.

Una sera, di Agosto, egli mi trascinò di nuovo a pesca con lui. Alla luce abbagliante di una luna quasi piena c’era poca probabilità di pigliare qualche cosa all’amo. Ma egli insistette dicendo che in mare avremmo trovato qualche sollievo al caldo. Infatti non vi trovammo altro. Dopo un solo tentativo, non inescammo neppure più gli ami e lasciammo pendere le lenze dalla barchetta che Luciano spinse al largo. I raggi della luna raggiungevano certo il fondo del mare affinando la vista agli animali grossi e rendendoli accorti dell’insidia ed anche agli animalucci piccoli capaci di rosicchiarci l’esca, ma non d’arrivare con la piccola bocca all’amo. Le nostre esche non erano altro che un dono alla minutaglia.

Guido si coricò a poppa ed io a prua. Egli mormorò poco dopo:

– Che tristezza tutta questa luce!

Probabilmente diceva così perché la luce gl’impediva di dormire ed io assentii per fargli piacere ed anche per non turbare con una sciocca discussione la quiete solenne in cui lentamente ci movevamo. Ma Luciano protestò dicendo che a lui quella luce piaceva moltissimo. Visto che Guido non rispondeva, volli farlo tacere dicendogli che la luce era certamente una cosa triste perché si vedevano le cose di questo mondo. Eppoi impediva la pesca. Luciano rise e tacque.

Stemmo zitti molto tempo. Io sbadigliai più volte in faccia alla luna. Rimpiangevo di essermi lasciato indurre di montare in quella barchetta.

Guido improvvisamente mi domandò:

– Tu che sei chimico, sapresti dirmi se sia più efficace il veronal puro o il veronal al sodio? Io veramente non sapevo neppure che ci fosse un veronal al sodio. Non si può mica pretendere che un chimico sappia il mondo a mente. Io di chimica so tanto da poter trovare subito nei miei libri qualsiasi informazione e inoltre da poter discutere – come si vide in quel caso – anche delle cose che ignoro.

Al sodio? Ma se era saputo da tutti che le combinazioni al sodio erano quelle che più facilmente si assimilavano.

Anzi a proposito del sodio ricordai – e riprodussi più o meno esattamente – un inno a quell’elemento elevato da un mio professore all’unica sua prelezione cui avessi assistito. Il sodio era un veicolo sul quale gli elementi montavano per moversi più rapidi. E il professore aveva ricordato come il cloruro di sodio passava da organismo ad organismo e come andava adunandosi per la sola gravità nel buco più profondo della terra, il mare. Io non so se riproducessi esattamente il pensiero del mio professore, ma in quel momento, dinanzi a quell’enorme distesa di cloruro di sodio, parlai del sodio con un rispetto infinito.

Dopo un’esitazione, Guido domandò ancora:

– Sicché chi volesse morire dovrebbe prendere il veronal al sodio?

– Sì, – risposi.

Poi ricordando che ci sono dei casi in cui si può voler simulare un suicidio e non accorgendomi subito che ricordavo a Guido un episodio spiacevole della sua vita, aggiunsi:

– E chi non vuole morire deve prendere del veronal puro.

Gli studii di Guido sul veronal avrebbero potuto darmi da pensare. Invece io non compresi nulla, preoccupato com’ero dal sodio. Nei giorni seguenti fui in grado di portare a Guido nuove prove delle qualità che io avevo attribuite al sodio: anche per accelerare gli amalgami che non sono altro che degli abbracci intensi fra due corpi, abbracci che sostituiscono la combinazione o l’assimilazione, si aggiungeva al mercurio del sodio. Il sodio era il mezzano fra l’oro e il mercurio. Ma a Guido il veronal non importava più, ed io ora penso che in quel momento le sue viste alla Borsa si fossero migliorate.

Nel corso di una settimana, Ada venne in ufficio ben tre volte. Soltanto dopo la seconda, sorse in me l’idea ch’essa mi volesse parlare.

La prima s’imbatté nel Nilini che s’era messo una volta di più ad educarmi. Essa attese per un’ora intera che se ne andasse, ma ebbe il torto di ciarlare con lui ed egli credette perciò di dover restare. Dopo fatte le presentazioni, io respirai, sollevato che il buco mandibolare del Nilini non fosse rivolto a me. Non presi parte alla loro conversazione.

Il Nilini fu persino spiritoso e sorprese Ada raccontando che si facevano altrettante maldicenze al Tergesteo come nel salotto di una signora. Soltanto, secondo lui, alla Borsa, come sempre, si era meglio informati che altrove. Ad Ada sembrò ch’egli calunniasse le donne. Disse di non saper neppure ciò che fosse la maldicenza. A questo punto intervenni io per confermare che, nei lunghi anni in cui la conoscevo, non avevo mai sentita venir dalla sua bocca una parola che avesse neppur ricordato la maldicenza. Sorrisi dicendo ciò perché mi parve di moverle un rimprovero. Essa non era maldicente perché dei fatti altrui non s’occupava. Dapprima, in piena salute, aveva pensato ai fatti proprii e, quando la malattia l’invase, non restò in lei che un piccolo posticino libero, occupato dalla sua gelosia. Era una vera egoista, ma essa accolse la mia testimonianza con gratitudine.

Il Nilini finse di non prestar fede né a lei né a me. Disse di conoscermi da molti anni e di credermi di una grande ingenuità. Ciò mi divertì e divertì anche Ada. Fui molto seccato invece quand’egli – per la prima volta dinanzi a terzi – proclamò ch’ero uno dei migliori suoi amici e che perciò mi conosceva a fondo. Non osai protestare, ma da quella dichiarazione sfacciata mi sentii offeso nel mio pudore, come una fanciulla cui in pubblico fosse stato rimproverato di aver fornicato.

Io ero tanto ingenuo, diceva il Nilini, che Ada, con la solita furberia delle donne, avrebbe potuto fare della maldicenza in mia presenza senza ch’io me ne accorgessi. A me parve che Ada continuasse a divertirsi a quei complimenti di carattere dubbio mentre poi seppi ch’essa lo lasciava parlare sperando si esaurisse e se ne andasse. Ma ebbe un bell’attendere.

Quando Ada ritornò per la seconda volta, mi trovò con Guido. Allora lessi sulla sua faccia un’espressione d’impazienza e indovinai ch’essa voleva proprio me. Finché non ritornò, io mi baloccai coi miei soliti sogni. In fondo essa da me non domandava amore, ma troppo frequentemente voleva trovarsi da sola a solo con me. Per gli uomini era difficile d’intendere quello che le donne volevano anche perché esse stesse talvolta lo ignoravano.

Non mi derivò invece alcun nuovo sentimento dalle sue parole. Essa, non appena poté parlarmi, ebbe la voce strozzata dall’emozione, ma non già perché avesse rivolta la parola a me. Voleva sapere per quale ragione Carmen non fosse stata mandata via. Io le raccontai tutto quanto ne sapevo, compreso quel nostro tentativo di procurarle un posto presso l’Olivi.

Essa fu subito più calma perché quello che le dicevo corrispondeva esattamente a quanto gliene era stato detto da Guido. Poi seppi che gli accessi di gelosia si seguivano da lei a periodi. Venivano senza causa apparente e andavano via per una parola che la convincesse.

Mi fece ancora due domande: se era proprio tanto difficile di trovare un posto per un’impiegata e se la famiglia di Carmen si trovasse in tali condizioni da dipendere dal guadagno della fanciulla.

Le spiegai che infatti a Trieste era difficile allora di trovare del lavoro per le donne, negli uffici. In quanto alla sua seconda domanda, non potevo risponderle perché della famiglia di Carmen io non conoscevo nessuno.

– Guido invece conosce tutti in quella casa, – mormorò Ada con ira e le lacrime le irorarono di nuovo le guancie.

Poi mi strinse la mano per congedarsi e mi ringraziò. Sorridendo traverso le lacrime, disse che sapeva di poter contare su di me. Il sorriso mi piacque perché certamente non era rivolto al cognato, ma a chi era legato a lei da vincoli segreti. Tentai di dar prova che meritavo quel sorriso e mormorai:

– Quello ch’io temo per Guido non è Carmen, ma il suo giuoco alla Borsa!

Essa si strinse nelle spalle:

– Quello non ha importanza. Ne parlai anche con mamma. Papà giuocava anche lui alla Borsa e vi guadagnò tanti di quei denari!

Io rimasi sconcertato dalla risposta e insistetti:

– Quel Nilini non mi piace. Non è mica vero ch’io sia suo amico!

Essa mi guardò sorpresa:

– A me pare un gentiluomo. Anche Guido gli vuole molto bene. Io credo, poi, che Guido sia ora molto attento ai suoi affari.

Ero ben deciso di non dirle male di Guido e tacqui. Quando mi trovai solo non pensai a Guido, ma a me stesso. Era forse bene che Ada finalmente m’apparisse quale una mia sorella e null’altro. Essa non prometteva e non minacciava amore. Per varii giorni corsi la città inquieto e squilibrato. Non arrivavo a intendermi. Perché mi sentivo come se Carla m’avesse lasciato in quell’istante? Non m’era avvenuto niente di nuovo. Sinceramente credo ch’io abbia avuto sempre bisogno dell’avventura o di qualche complicazione che le somigli. I miei rapporti con Ada non erano ormai più complicati affatto.

Il Nilini dal suo seggiolone un giorno predicò più del solito: dall’orizzonte s’avanzava un nembo, nient’altro che il rincaro del denaro. La Borsa era tutt’ad un tratto satura e non poteva assorbire più nulla!

– Gettiamoci del sodio! – proposi io.

L’interruzione non gli piacque affatto, ma per non dover arrabbiarsi, la trascurò: tutt’ad un tratto il denaro a questo mondo era divenuto scarso e perciò caro. Egli era sorpreso che ciò avvenisse ora mentre egli l’aveva preveduto per un mese più tardi.

– Avranno mandato tutto il denaro alla luna! – dissi io.

– Sono cose serie di cui non bisogna ridere, – affermò il Nilini guardando sempre il soffitto. – Adesso si vedrà chi avrà l’anima del vero lottatore e chi invece al primo colpo soggiacerà.

Come non intesi perché il denaro a questo mondo potesse divenire più scarso, così non indovinai che il Nilini ponesse Guido fra i lottatori di cui si doveva provare il valore. Ero tanto abituato a difendermi dalle sue prediche con la disattenzione, che anche questa, che pur sentii, passò via senza neppur scalfirmi.

Ma pochi giorni appresso il Nilini intonò tutt’altra musica. Era avvenuto un fatto nuovo. Egli aveva scoperto che Guido aveva fatti degli affari con un altro agente di cambio. Il Nilini cominciò col protestare in un tono concitato che egli non aveva mai mancato in nulla verso Guido, neppure nella dovuta discrezione. Di questo egli voleva la mia testimonianza. Non aveva tenuto celati gli affari di Guido persino a me ch’egli continuava a ritenere quale il suo miglior amico? Ma ormai egli era svincolato da qualunque riserbo e poteva gridarmi nelle orecchie che Guido era in perdita fino alla punta dei capelli. Per gli affari ch’erano stati fatti col suo mezzo, egli assicurava che alla più lieve miglioria si sarebbe potuto resistere e aspettare tempi migliori. Era però enorme che alla prima avversità Guido gli avesse fatto torto.

Altro che Ada! La gelosia del Nilini era indomabile. Io volevo avere da lui delle notizie ed egli invece si esasperava sempre più e continuava a parlare del torto che gli era stato fatto. Perciò, contro ogni suo proposito, egli continuò a rimanere discreto.

Nel pomeriggio trovai Guido in ufficio. Era sdraiato sul nostro sofà in un curioso stato intermedio fra la disperazione e il sonno. Gli domandai:

– Tu sei ora in perdita fino agli occhi?

Non mi rispose subito. Levò il braccio col quale si copriva il volto sfatto e disse:

– Hai mai visto un uomo più disgraziato di me?

Riabbassò il braccio e cambiò di posizione mettendosi supino. Rinchiuse gli occhi e parve avesse già dimenticata la mia presenza.

Io non seppi offrirgli alcun conforto. Davvero mi offendeva ch’egli credesse di essere l’uomo più disgraziato del mondo. Non era un’esagerazione la sua; era una vera e propria menzogna. L’avrei soccorso se avessi potuto, ma mi era impossibile di confortarlo. Secondo me neanche chi è più innocente e più disgraziato di Guido merita compassione, perché altrimenti nella nostra vita non ci sarebbe posto che per quel sentimento, ciò che sarebbe un grande tedio. La legge naturale non dà il diritto alla felicità, ma anzi prescrive la miseria e il dolore. Quando viene esposto il commestibile, vi accorrono da tutte le parti i parassiti e, se mancano, s’affrettano di nascere. Presto la preda basta appena, e subito dopo non basta più perché la natura non fa calcoli, ma esperienze. Quando non basta più, ecco che i consumatori devono diminuire a forza di morte preceduta dal dolore e così l’equilibrio, per un istante, viene ristabilito. Perché lagnarsi? Eppure tutti si lagnano. Quelli che non hanno avuto niente della preda muoiono gridando all’ingiustizia e quelli che ne hanno avuto parte trovano che avrebbero avuto diritto ad una parte maggiore. Perché non muoiono e non vivono tacendo? È invece simpatica la gioia di chi ha saputo conquistarsi una parte esuberante del commestibile e si manifesti pure al sole in mezzo agli applausi. L’unico grido ammissibile è quello del trionfatore.

Guido, poi! Egli mancava di tutte le qualità per conquistare od anche solo per tenere la ricchezza. Veniva dal tavolo di giuoco e piangeva per aver perduto. Non si comportava dunque neppure da gentiluomo e a me faceva nausea. Perciò e solo perciò, nel momento in cui Guido avrebbe avuto tanto bisogno del mio affetto, non lo trovò. Neppure i miei ripetuti propositi poterono accompagnarmi fin là.

Intanto la respirazione di Guido andava facendosi sempre più regolare e rumorosa. S’addormentava! Com’era poco virile nella sventura! Gli avevano portato via il commestibile e chiudeva gli occhi forse per sognare di possederlo tuttavia, invece di aprirli ben bene per vedere di strapparne una piccola parte.

Mi venne la curiosità di sapere se Ada fosse stata informata della disgrazia che gli era toccata. Glielo domandai ad alta voce. Egli trasalì ed ebbe bisogno di una pausa per assuefarsi alla sua disgrazia che improvvisamente rivide intera.

– No! – mormorò. Poi rinchiuse gli occhi.

Certamente tutti coloro che sono stati duramente percossi inclinano al sonno. Il sonno ridà le forze. Stetti ancora a guardarlo esitante. Ma come si poteva aiutarlo se dormiva? Non era questo il momento per dormire. Lo afferrai rudemente per una spalla e lo scossi:

– Guido!

Aveva proprio dormito. Mi guardò incerto con l’occhio ancora velato dal sonno eppoi mi domandò:

– Che vuoi? – Subito dopo, adirato, ripeté la sua domanda: – Che vuoi dunque?

Io volevo aiutarlo, altrimenti non avrei neppure avuto il diritto di destarlo. M’arrabbiai anch’io e gridai che questo non era il momento di dormire perché bisognava affrettarsi di vedere come si avrebbe potuto correre ai ripari. C’era da calcolare e discutere con tutti i membri della nostra famiglia e quelli della sua di Buenos Aires.

Guido si mise a sedere. Era ancora un po’ sconvolto di essere stato destato a quel modo. Mi disse amaramente:

– Avresti fatto meglio di lasciarmi dormire. Chi vuoi che ora m’aiuti? Non ricordi a quale punto dovetti giungere l’altra volta per avere quel poco di cui abbisognavo per salvarmi? Adesso si tratta di somme considerevoli! A chi vuoi mi rivolga?

Senza nessun affetto e anzi con l’ira di dover dare e privare me e i miei, esclamai:

– E non ci sono anch’io qui? – Poi l’avarizia mi suggerì di attenuare da bel principio il mio sacrificio:

– Non c’è Ada? Non c’è nostra suocera? Non possiamo unirci per salvarti?

Egli si levò e mi si appressò con l’evidente intenzione di abbracciarmi. Ma era proprio questo ch’io non volevo. Avendogli offerto il mio aiuto, avevo ora il diritto di rampognarlo, e ne feci l’uso più largo. Gli rimproverai la sua attuale debolezza eppoi anche la sua presunzione durata fino a quel momento e che l’aveva tratto alla rovina. Aveva agito di propria testa non consultandosi con nessuno. Tante volte io avevo tentato di avere sue comunicazioni per trattenerlo e salvarlo ed egli me le aveva rifiutate serbando la sua fiducia per il solo Nilini.

Qui Guido sorrise, proprio sorrise, il disgraziato! Mi disse che da quindici giorni egli non lavorava più col Nilini essendosi fitto in capo che il grugno di costui gli portasse sventura.

Egli era caratterizzato da quel sonno e da quel sorriso: rovinava tutti attorno a sé e sorrideva. M’atteggiai a giudice severo perché per salvare Guido bisognava prima educarlo. Volli sapere quanto egli avesse perduto e m’arrabbiai quando mi disse di non saperlo esattamente. M’arrabbiai ancora quand’egli mi disse una cifra relativamente piccola che poi risultò rappresentare l’importo che bisognava pagare alla liquidazione del quindici del mese da cui distavamo di soli due giorni. Ma Guido asseriva che fino alla fine del mese c’era del tempo e che le cose potevano mutarsi. La scarsezza del denaro sul mercato non sarebbe durata eternamente.

Gridai:

– Se a questo mondo manca il denaro, vuoi riceverne dalla luna? – Aggiunsi che non bisognava giocare neppure per un giorno di più. Non si doveva rischiare di veder aumentare la perdita già enorme. Dissi anche che la perdita sarebbe stata divisa in quattro parti che avremmo sopportate io, lui (cioè suo padre), la signora Malfenti e Ada, che bisognava ritornare al nostro commercio privo di rischi e che non volevo mai più vedere nel nostro ufficio né il Nilini né alcun altro sensale di cambio.

Egli, mite, mite, mi pregò di non gridare tanto, perché avremmo potuto essere sentiti dai vicini.

Feci un grande sforzo per calmarmi e vi riuscii anche a patto di poter dirgli a bassavoce delle altre insolenze. La sua perdita era addirittura l’effetto di un crimine. Bisognava essere un bestione per mettersi in frangenti simili. Proprio mi pareva ch’era necessario egli subisse intera la lezione.

Qui Guido mitemente protestò. Chi non aveva giocato in Borsa? Nostro suocero, ch’era stato un commerciante tanto solido, non era stato un giorno solo della sua vita privo di qualche impegno. Eppoi – Guido lo sapeva – avevo giocato anch’io.

Protestai che fra gioco e gioco c’era una differenza. Egli aveva rischiato alla Borsa tutto il suo patrimonio, io le rendite di un mese.

Mi fece un triste effetto che Guido tentasse puerilmente di liberarsi della sua responsabilità. Egli asserì che il Nilini lo aveva indotto a giocare più di quanto egli avesse voluto, facendogli credere di avviarlo ad una grande fortuna.

Io risi e lo derisi. Il Nilini non era da biasimarsi perché faceva gli affari suoi. E – del resto – dopo di aver lasciato il Nilini, non si era egli precipitato ad aumentare la propria posta col mezzo di un altro sensale? Avrebbe potuto vantarsi della nuova relazione se con essa si fosse messo a giocare al ribasso ad insaputa del Nilini. Per riparare non poteva certo bastare di cambiare di rappresentante e continuare sulla stessa via perseguitato dallo stesso malocchio. Egli volle indurmi finalmente a lasciarlo in pace, e, con un singhiozzo nella gola, riconobbe di aver sbagliato.

Cessai dal rampognarlo. Ora mi faceva veramente compassione e l’avrei anche abbracciato se egli avesse voluto. Gli dissi che mi sarei occupato subito di provvedere il denaro che io dovevo fornire e che avrei potuto anche occuparmi di parlare con nostra suocera. Egli, invece, si sarebbe incaricato di Ada.

La mia compassione aumentò quand’egli mi confidò che volentieri avrebbe parlato con nostra suocera in vece mia, ma che lo tormentava di dover parlare con Ada.

– Tu sai come son fatte le donne! Gli affari non li capiscono o soltanto quando finiscono bene! – Egli non avrebbe parlato affatto e avrebbe pregata la signora Malfenti d’informarla lei di tutto.

Questa decisione l’alleggerì grandemente e uscimmo insieme. Lo vedevo camminare accanto a me con la testa bassa e mi sentivo pentito di averlo trattato con tanta rudezza. Ma come fare altrimenti se lo amavo? Doveva pur ravvedersi, se non voleva andare incontro alla sua rovina! Come dovevano essere fatte le sue relazioni con la moglie se temeva tanto di parlare con lei!

Ma intanto egli scoperse un modo per indispettirmi di nuovo. Camminando aveva trovato di perfezionare il piano che gli era tanto piaciuto. Non soltanto egli non avrebbe avuto da parlare con la moglie, ma avrebbe fatto in modo di non vederla per quella sera, perché sarebbe subito partito per la caccia. Dopo quel proposito, fu libero da ogni nube. Pareva fosse bastata la prospettiva di poter recarsi all’aria aperta, lontano da ogni pensiero, per avere l’aspetto di trovarvisi diggià e di goderne pienamente. Io ne fui indignato! Con lo stesso aspetto, certo, avrebbe potuto ritornare in Borsa per riprendervi il giuoco nel quale rischiava la fortuna della famiglia e anche la mia.

Mi disse:

– Voglio concedermi quest’ultimo divertimento e t’invito di venire con me a patto che tu prenda l’impegno di non rammentare con una sola parola gli avvenimenti di oggi.

Fin qui aveva parlato sorridendo. Dinanzi alla mia faccia seria, si fece più serio anche lui. Aggiunse:

– Vedi anche tu che ho bisogno di un riposo dopo un colpo simile. Poi mi sarà più facile di riprendere il mio posto nella lotta.

La sua voce s’era velata di un’emozione della cui sincerità non seppi dubitare. Perciò seppi rattenere il mio dispetto o manifestarlo solo col rifiuto del suo invito, dicendogli che io dovevo restare in città per provvedere al denaro necessario. Era già un rimprovero il mio! Io, innocente, restavo al mio posto, mentre lui, il colpevole, poteva andare a spassarsela.

Eravamo giunti dinanzi alla porta di casa della signora Malfenti. Egli non aveva più ritrovato l’aspetto di gioia per il divertimento di alcune ore che l’aspettava e, finché rimase con me, conservò stereotipata sulla faccia l’espressione del dolore cui io l’avevo richiamato. Ma prima di lasciarmi, trovò uno sfogo in una manifestazione d’indipendenza e – come a me parve – di rancore. Mi disse ch’era veramente stupito di scoprire in me un tale amico. Esitava di accettare il sacrificio che gli volevo portare e intendeva (proprio intendeva) ch’io sapessi ch’egli non mi riteneva impegnato in alcun modo e ch’ero perciò libero di dare o non dare.

Son sicuro di aver arrossito. Per levarmi dall’imbarazzo gli dissi:

– Perché vuoi ch’io desideri di ritirarmi quando pochi minuti or sono senza che tu m’abbia chiesto nulla, mi son proferto di aiutarti?

Egli mi guardò un po’ incerto eppoi disse:

– Giacché lo vuoi, accetto senz’altro e ti ringrazio. Ma faremo un contratto di società nuovo del tutto, perché ognuno abbia quello che gli compete. Anzi se ci sarà lavoro e vorrai continuare ad attendervi, dovrai avere il tuo salario. Metteremo la nuova società su tutt’altra base. Così non avremo più da temere altri danni dall’aver occultata la perdita del nostro primo anno d’esercizio.

Risposi:

– Questa perdita non ha più alcuna importanza e non devi pensarci più. Cerca ora di mettere dalla parte tua nostra suocera. Questo e null’altro per adesso importa.

Così ci lasciammo. Io credo di aver sorriso dell’ingenuità con cui Guido manifestava i suoi più intimi sentimenti. Egli m’aveva tenuto quel lungo discorso solo per poter accettare il mio dono senz’aver da manifestarmi della gratitudine. Ma io non pretendevo nulla. Mi bastava di sapere che tale riconoscenza egli proprio me la doveva.

Del resto, staccatomi da lui, anch’io sentii un sollievo come se fossi andato appena allora all’aria libera. Sentivo veramente la libertà che m’era tolta per i propositi di educarlo e rimetterlo sulla buona strada. In fondo il pedagogo è incatenato peggio dell’alunno. Ero ben deciso di procurargli quel denaro. Naturalmente non so dire se lo facessi per affetto a lui o ad Ada, o forse per liberarmi da quella piccola parte di responsabilità che poteva toccarmi per aver lavorato nel suo ufficio. Insomma avevo deciso di sacrificare una parte del mio patrimonio e ancora oggidì guardo a quel giorno della mia vita con una grande soddisfazione. Quel denaro salvava Guido e a me garantiva una grande tranquillità di coscienza.

Camminai fino a sera nella più grande tranquillità e così perdetti il tempo utile per andar a rintracciare alla Borsa l’Olivi cui dovevo rivolgermi per procurarmi una somma così forte. Poi pensai che la cosa non fosse tanto urgente. Io avevo parecchio denaro a mia disposizione e quello bastava intanto per partecipare alla regolazione che si doveva fare il quindici del mese. Per la fine del mese avrei provveduto più tardi.

Per quella sera non pensai più a Guido. Più tardi, e cioè quando i bambini furono coricati, m’accinsi varie volte a dire ad Augusta del disastro finanziario di Guido e del danno che doveva riverberarne a me, ma poi non volli seccarmi con discussioni e pensai sarebbe meglio mi riservassi di convincere Augusta nel momento in cui la regolazione di quegli affari sarebbe stata decisa da tutti. Eppoi mentre Guido stava divertendosi sarebbe stato curioso che io mi fossi seccato.

Dormii benissimo e, alla mattina, con la tasca non molto carica di denaro (ci avevo l’antica busta abbandonatami da Carla e che fino ad allora religiosamente avevo conservato per lei stessa o per qualche sua erede e qualche po’ di altro denaro che avevo potuto prelevare da una Banca) mi recai in ufficio. Passai la mattina a leggere giornali, fra Carmen che cuciva e Luciano che s’addestrava in moltipliche e addizioni.

Quando ritornai a casa all’ora della colazione, trovai Augusta perplessa e abbattuta. La sua faccia era coperta da quel grande pallore che non si produceva che per dolori che le provenivano da me. Mitemente mi disse:

– Ho saputo che hai deciso di sacrificare una parte del tuo patrimonio per salvare Guido! Io so che non avevo il diritto di esserne informata…

Era tanto dubbiosa del suo diritto che esitò. Poi riprese a rimproverarmi il mio silenzio:

– Ma è vero ch’io non sono come Ada, perché mai mi sono opposta alla tua volontà.

Ci volle del tempo per apprendere quello ch’era avvenuto. Augusta era capitata da Ada quando stava discutendo la quistione di Guido con la madre. Vedendola, Ada s’era abbandonata ad un gran pianto e le aveva detto della mia generosità ch’essa assolutamente non voleva accettare. Aveva anzi pregata Augusta d’invitarmi a desistere dalla mia profferta.

M’accorsi subito che Augusta soffriva della sua antica malattia, la gelosia per la sorella, ma non vi diedi peso. Mi sorprendeva l’attitudine assunta da Ada:

– Ti parve risentita? – domandai facendo tanto d’occhi per la sorpresa.

– No! No! Non offesa! – gridò la sincera Augusta. – Mi baciò e abbracciò… forse perché abbracci te.

Pareva un modo di esprimersi assai comico. Essa mi guardava, studiandomi, diffidente.

Protestai.

– Credi che Ada sia innamorata di me? cosa ti salta in testa?

Ma non riuscii a calmar Augusta la cui gelosia mi seccava orribilmente. Sta bene che Guido a quell’ora non era più a divertirsi e passava certamente un brutto quarto d’ora fra sua suocera e sua moglie ma ero seccatissimo anch’io e mi pareva di dover soffrir troppo essendo del tutto innocente.

Tentai di calmare Augusta facendole delle carezze. Essa allontanò la sua faccia dalla mia per vedermi meglio e mi fece dolcemente un mite rimprovero che mi commosse molto:

– Io so che ami anche me, – mi disse.

Evidentemente lo stato d’animo di Ada non aveva importanza per lei, ma il mio ed ebbi un’ispirazione per provarle la mia innocenza:

– Ada è dunque innamorata di me? – feci ridendo.

Poi staccatomi da Augusta per farmi veder meglio, gonfiai un po’ le guancie e spalancai in modo innaturale gli occhi così da somigliare ad Ada malata. Augusta mi guardò stupita, ma presto indovinò la mia intenzione. Fu colta da uno scoppio d’ilarità di cui subito si vergognò.

– No! – mi disse, – ti prego di non deriderla. – Poi confessò, sempre ridendo, ch’ero riuscito di imitare proprio quelle protuberanze che davano alla faccia di Ada un aspetto tanto sorprendente. Ed io lo sapevo perché imitandola m’era parso di abbracciare Ada. E quando fui solo, più volte ripetei quello sforzo con desiderio e disgusto.

Nel pomeriggio andai all’ufficio nella speranza di trovarvi Guido. Ve l’attesi per qualche tempo eppoi decisi di recarmi a casa sua. Dovevo pur sapere se era necessario di domandare del denaro all’Olivi. Dovevo compiere il mio dovere per quanto mi seccasse di rivedere Ada alterata una volta di più dalla riconoscenza. Chissà quali sorprese mi potevano ancora provenire da quella donna!

Sulle scale della casa di Guido m’imbattei nella signora Malfenti che pesantemente le saliva. Mi raccontò per lungo e per largo quanto fino ad allora era stato deciso nell’affare di Guido. La sera prima s’erano divisi circa d’accordo nella convinzione che bisognava salvare quell’uomo che aveva una disdetta disastrosa. Soltanto alla mattina Ada aveva appreso ch’io dovevo collaborare a coprire la perdita di Guido e s’era recisamente rifiutata di accettare. La signora Malfenti la scusava:

– Che vuoi farci? Essa non vuole caricarsi del rimorso di aver impoverita la sua sorella prediletta.

Sul pianerottolo, la signora si fermò per respirare e anche per parlare, e mi disse ridendo che la cosa sarebbe finita senza danno per nessuno. Prima di colazione, lei, Ada e Guido s’erano recati per averne consiglio da un avvocato, vecchio amico di famiglia e ora anche tutore della piccola Anna. L’avvocato aveva detto che non occorreva pagare perché per legge non vi si era obbligati. Guido s’era vivamente opposto parlando di onore e di dovere, ma senza dubbio, una volta che tutti, compresa Ada, decidevano di non pagare, anche lui avrebbe dovuto rassegnarvisi.

– Ma la sua ditta alla Borsa sarà dichiarata bancarotta? – dissi io perplesso.

– Probabilmente! – disse la signora Malfenti con un sospiro prima d’imprendere la salita dell’ultima scala.

Guido dopo colazione usava di riposare e perciò fummo ricevuti dalla sola Ada in quel salottino ch’io conoscevo tanto bene. Al vedermi essa fu per un istante confusa, per un solo istante, ch’io però afferrai e ritenni, chiaro, evidente, come se la sua confusione mi fosse stata detta. Poi si fece forza e mi stese la mano con un movimento deciso, virile, che doveva cancellare l’esitazione femminea che l’aveva precorso.

Mi disse:

– Augusta ti avrà detto come io ti sia riconoscente. Non saprei ora dirti quello che sento perché sono confusa. Sono anche malata. Sì, molto malata! Avrei di nuovo bisogno della casa di salute di Bologna!

Un singhiozzo l’interruppe:

– Ti domando ora un favore. Ti prego di dire a Guido che neppure tu sei al caso di dargli quel denaro. Così ci sarà più facile d’indurlo a fare quello che deve.

Prima aveva avuto un singhiozzo ricordando la propria malattia; singhiozzò poi di nuovo prima di continuare a parlare del marito:

– È un ragazzo, e bisogna trattarlo come tale. Se egli sa che tu consenti di dargli quel denaro, s’ostinerà ancora maggiormente nella sua idea di sacrificare anche il resto inutilmente. Inutilmente, perché oramai sappiamo con assoluta certezza che il fallimento in Borsa è permesso. L’ha detto l’avvocato.

Mi comunicava il parere di un’alta autorità senza domandarmi il mio. Come vecchio frequentatore di Borsa, il mio parere, anche accanto a quello dell’avvocato, avrebbe potuto avere il suo peso, ma non ricordai neppure il mio parere seppure ne avevo uno. Ricordai invece che venivo messo in una posizione difficile. Io non potevo ritirarmi dall’impegno che avevo preso con Guido: era in compenso di quell’impegno, che m’ero creduto autorizzato di gridargli nelle orecchie tante insolenze, intascando così una specie d’interessi sul capitale che ora non potevo più rifiutargli.

– Ada! – dissi esitante. – Io non credo di potermi disdire così da un giorno all’altro. Non sarebbe meglio che tu convincessi Guido di fare le cose come le desideri tu?

La signora Malfenti con la grande simpatia che sempre mi dimostrava, disse che intendeva benissimo la mia speciale posizione e che del resto, quando Guido si sarebbe visto messo a disposizione soltanto un quarto dell’importo di cui abbisognava, avrebbe pur dovuto adattarsi al loro volere.

Ma Ada non aveva esaurite le sue lacrime. Piangendo con la faccia celata nel fazzoletto, disse:

– Hai fatto male, molto male di fare quell’offerta veramente straordinaria! Ora si vede quanto male hai fatto!

Mi pareva esitante fra una grande gratitudine e un grande rancore. Poi soggiunse che non voleva si parlasse mai più di quella mia offerta e mi pregava di non provvedere quel denaro, perché essa m’avrebbe impedito di darlo o avrebbe impedito a Guido di accettarlo.

Ero tanto imbarazzato che finii col dire una bugia. Le dissi cioè che quel denaro io l’avevo già procurato e accennai alla mia tasca di petto dove giaceva quella busta dal peso tanto lieve. Ada mi guardò questa volta con un’espressione di vera ammirazione di cui forse mi sarei compiaciuto se non avessi saputo di non meritarla. Ad ogni modo fu proprio questa mia bugia per la quale non so dare altra spiegazione che una mia strana tendenza a rappresentarmi dinanzi ad Ada maggiore di quanto non sia, che m’impedì di attendere Guido e mi cacciò da quella casa. Avrebbe potuto anche avvenire che a un dato punto, contrariamente a quanto appariva, mi fosse stato chiesto di consegnare il denaro che dicevo di avere con me, e allora che figura ci avrei fatta? Dissi che avevo degli affari urgenti in ufficio e corsi via.

Ada m’accompagnò alla porta e m’assicurò ch’essa avrebbe indotto Guido di venire lui da me per ringraziarmi della mia bontà e per rifiutarla. Fece tale dichiarazione con tale risolutezza che io trasalii. A me parve che quel fermo proposito andasse a colpire in parte anche me. No! In quel momento essa non mi amava. Il mio atto di bontà era troppo grande. Schiacciava la gente su cui s’abbatteva e non c’era da meravigliarsi che i beneficati protestassero. Andando all’ufficio cercai di liberarmi del malessere che m’aveva dato il contegno di Ada, ricordando che io portavo quel sacrificio a Guido e a nessun altro. Che c’entrava Ada? Mi ripromisi di farlo sapere ad Ada stessa alla prima occasione.

Andai all’ufficio proprio per non avere il rimorso di aver mentito una volta di più. Nulla mi vi attendeva. Cadeva dalla mattina una pioggerella minuta e continua che aveva rinfrescata considerevolmente l’aria di quella primavera esitante. In due passi sarei stato a casa, mentre per andare all’ufficio dovevo percorrere una strada ben più lunga ciò ch’era abbastanza fastidioso. Ma mi pareva di dover corrispondere ad un impegno.

Poco dopo vi fui raggiunto da Guido. Allontanò dall’ufficio Luciano per restare solo con me. Aveva quel suo aspetto sconvolto che l’aiutava nelle sue lotte con la moglie e che io conoscevo tanto bene. Doveva aver pianto e gridato.

Mi domandò che cosa mi paresse dei progetti di sua moglie e di nostra suocera ch’egli sapeva m’erano già stati comunicati. Gli parvi esitante. Non volevo dire la mia opinione che non poteva accordarsi con quella delle due donne e sapevo che se avessi adottata la loro, avrei provocate delle nuove scene da parte di Guido. Poi mi sarebbe dispiaciuto troppo di far apparire esitante il mio aiuto e infine eravamo d’accordo con Ada che la decisione doveva venire da Guido e non da me. Gli dissi che bisognava calcolare, vedere, sentire anche altre persone. Io non ero un tale uomo d’affari da poter dare un consiglio in argomento tanto importante. E, per guadagnare del tempo, gli domandai se voleva che consultassi l’Olivi.

Bastò questo per farlo gridare:

– Quell’imbecille! – urlò. – Te ne prego lascialo da parte!

Non ero affatto disposto di accalorarmi alla difesa dell’Olivi, ma non bastò la mia calma per rasserenare Guido. Eravamo nell’identica situazione del giorno prima, ma ora era lui che gridava e toccava a me di tacere. È quistione di disposizione. Io ero pieno di un imbarazzo che mi legava le membra.

Ma egli assolutamente volle io dicessi il mio parere. Per un’ispirazione che credo divina parlai molto bene, tanto bene che se le mie parole avessero avuto un effetto qualunque, la catastrofe che poi seguì sarebbe stata evitata. Gli dissi che io intanto avrei scisse le due quistioni, quella della liquidazione del quindici da quella di fine mese. In complesso al quindici non si aveva da pagare un importo troppo rilevante e bisognava intanto indurre le donne a sottostare a quella perdita relativamente lieve. Poi avremmo avuto il tempo necessario per provvedere saggiamente all’altra liquidazione.

Guido m’interruppe per domandarmi:

– Ada m’ha detto che tu hai già pronto il denaro in tasca. L’hai qui?

Arrossii. Ma trovai subito pronta un’altra bugia che mi salvò:

– Visto che a casa tua non accettarono quel denaro, lo depositai poco fa alla Banca. Ma possiamo riaverlo quando vorremo, anche subito domattina.

Allora egli mi rimproverò di aver cambiato di parere. Se proprio io il giorno prima avevo dichiarato di non voler aspettare l’altra liquidazione per mettere in regola tutto! E qui egli ebbe uno scoppio d’ira violenta che finì col gettarlo privo di forze sul sofà! Egli avrebbe gettato fuori d’ufficio il Nilini e quegli altri agenti che lo avevano trascinato al giuoco. Oh! Giuocando egli aveva bensì intravvista la possibilità della rovina, ma mai più la soggezione a donne che non capivano niente di niente.

Andai a stringergli la mano e se lo avesse permesso lo avrei abbracciato. Non volevo nient’altro che vederlo arrivare a quella decisione. Niente più giuoco, ma il lavoro di ogni giorno!

Questo sarebbe stato il nostro avvenire e la sua indipendenza. Ora si trattava di passare quel breve duro periodo, ma poi tutto sarebbe stato facile e semplice.

Abbattuto, ma più calmo, egli poco dopo mi lasciò. Anche lui nella sua debolezza era tutto pervaso da una forte decisione.

– Ritorno da Ada! – mormorò ed ebbe un sorriso amaro, ma sicuro.

L’accompagnai fino alla porta e l’avrei accompagnato fino a casa sua se egli non avesse avuta alla porta la vettura che l’attendeva.

La Nemesi perseguitava Guido. Mezz’ora dopo ch’egli m’aveva lasciato, io pensai che sarebbe stato prudente da parte mia di recarmi a casa sua ad assisterlo. Non che io avessi sospettato che su lui potesse incombere un pericolo, ma ormai io ero tutto dalla parte sua e avrei potuto contribuire a convincere Ada e la signora Malfenti ad aiutarlo. Il fallimento in Borsa non era una cosa che mi piaceva ed in complesso la perdita ripartita fra noi quattro non era insignificante, ma non rappresentava per nessuno di noi la rovina.

Poi ricordai che il mio maggior dovere era oramai non di assistere Guido, ma di fargli trovare pronto il giorno appresso l’importo che gli avevo promesso. Andai subito in cerca dell’Olivi e mi preparai ad una nuova lotta. Avevo escogitato un sistema di rifondere alla mia firma il grosso importo in varii anni, versando però di lì ad alcuni mesi tutto quello che ancora restava dell’eredità di mia madre. Speravo che l’Olivi non avrebbe fatte delle difficoltà, perché io fino ad allora non gli avevo mai domandato più di quanto mi fosse spettato per utili ed interessi e potevo anche promettere di non inquietarlo mai più con domande simili. Era evidente che pur potevo sperare di ricuperare da Guido almeno parte di quell’importo.

Quella sera non seppi trovare l’Olivi. Era appena uscito dall’ufficio quand’io vi entrai. Supponevano si fosse recato alla Borsa. Non lo trovai neppure colà e allora mi recai a casa sua ove appresi che si trovava ad una seduta di un’associazione economica nella quale occupava un posto onorifico. Avrei potuto raggiungerlo colà, ma oramai s’era fatto notte, e cadeva ininterrotta una pioggia abbondante che convertiva le vie in tanti ruscelli.

Fu un diluvio che durò per tutta la notte e di cui per lunghi anni non si perdette il ricordo. La pioggia cadeva tranquilla, tranquilla, addirittura perpendicolarmente, sempre nella stessa abbondanza. Dalle alture che circondano la città scese il fango che, associato alle scorie della nostra vita cittadina, andò ad ostruire i nostri scarsi canali. Quando mi decisi a rincasare dopo di aver atteso inutilmente in un rifugio che la pioggia cessasse e quand’ebbi chiara la visione che il tempo s’era assestato nella pioggia e ch’era vano di sperare un mutamento, si camminava nell’acqua anche movendosi sulla parte più alta del selciato. Corsi a casa bestemmiando e fracido fino alle ossa. Bestemmiavo anche perché avevo perduto tanto buon tempo per rintracciare l’Olivi. Può essere che il mio tempo non sia poi tanto prezioso, ma è sicuro ch’io soffro orrendamente quando posso constatare di aver lavorato invano. E correndo pensavo: «Lasciamo tutto per domani quando sarà chiaro e bello e asciutto. Domani andrò dall’Olivi e domani mi recherò da Guido. Magari mi leverò di buon’ora, ma sarà chiaro e asciutto». Ero tanto convinto della giustezza della mia decisione che dissi ad Augusta che da tutti si era stabilito di rimandare ogni decisione alla dimane. Mi cambiai, mi rasciugai e con le comode e calde pantofole sui piedi torturati, dapprima cenai eppoi mi coricai per dormire profondamente fino alla mattina mentre ai vetri delle mie finestre batteva la pioggia grossa come funi.

Così seppi solo tardi gli avvenimenti della notte. Dapprima apprendemmo che la pioggia aveva finito col provocare in varie parti della città delle inondazioni, poi che Guido era morto.

Molto più tardi seppi come poté accadere una cosa simile. Alle undici di sera circa, quando la signora Malfenti si fu allontanata, Guido avvertì la moglie ch’egli aveva ingoiata una quantità enorme di veronal. Volle convincere la moglie che era condannato. L’abbracciò, la baciò, le domandò perdono di averla fatta soffrire. Poi, ancora prima che la sua parola si convertisse in un balbettio, l’assicurò ch’essa era stata il solo amore della sua vita. Essa non credette per allora né a quest’assicurazione né ch’egli avesse ingoiato tanto veleno da poter morirne. Non credette neppure ch’egli avesse perduti i sensi, ma si figurò che fingesse per strapparle di nuovo dei denari.

Poi, trascorsa quasi un’ora, vedendo ch’egli dormiva sempre più profondamente, ebbe un certo terrore e scrisse un biglietto ad un medico che abitava non lontano dalla sua abitazione. Su quel biglietto scisse che suo marito abbisognava di pronto aiuto avendo ingoiato una grande quantità di veronal.

Fino ad allora non c’era stata in quella casa alcun’emozione che avesse potuto avvisare la fantesca, una vecchia donna ch’era in casa da poco tempo, della gravità della sua missione.

La pioggia fece il resto. La fantesca si trovò con l’acqua a mezza gamba e smarrì il biglietto. Se ne accorse solo quando si trovò alla presenza del dottore. Seppe però dirgli che c’era urgenza e lo indusse a seguirla.

Il dottor Mali era un uomo di circa cinquant’anni, tutt’altro che una genialità, ma un medico pratico che aveva fatto sempre il suo dovere come meglio aveva potuto. Non aveva una grande clientela propria, ma invece aveva molto da fare per conto di una società dai numerosissimi membri, che lo retribuiva poco lautamente. Era rincasato poco prima ed era arrivato finalmente a riscaldarsi e rasciugarsi accanto al fuoco. Si può immaginare con quale animo abbandonasse ora il suo caldo cantuccio. Quando io mi misi ad indagare meglio le cause della morte del mio povero amico, mi preoccupai anche di fare la conoscenza del dottor Mali. Da lui non seppi altro che questo: quando giunse all’aperto e si sentì bagnare dalla pioggia traverso l’ombrello, si pentì d’aver studiato medicina invece di agricoltura, ricordando che il contadino, quando piove, resta a casa.

Giunto al letto di Guido, trovò Ada del tutto calmata. Ora che aveva accanto il dottore, ricordava meglio come Guido l’avesse giocata mesi prima simulando un suicidio. Non toccava più a lei di assumersi una responsabilità, ma al dottore il quale doveva essere informato di tutto, anche delle ragioni che dovevano far credere in una simulazione di suicidio. E queste ragioni il dottore le ebbe tutte come prestava nello stesso tempo l’orecchio alle onde che spazzavano la via. Non essendo stato avvisato che lo si aveva chiamato per curare un caso di avvelenamento, egli mancava di ogni ordigno necessario alla cura. Lo deplorò balbettando qualche parola che Ada non intese. Il peggio era che, per poter imprendere un lavacro dello stomaco, egli non avrebbe potuto mandar a prendere le cose necessarie, ma avrebbe dovuto andar a prenderle lui stesso traversando per due volte la via. Toccò il polso di Guido e lo trovò magnifico. Domandò ad Ada se forse Guido avesse sempre avuto un sonno molto profondo. Ada rispose di sì, ma non a quel punto. Il dottore esaminò gli occhi di Guido: reagivano prontamente alla luce! Se ne andò raccomandando di dargli di tempo in tempo dei cucchiaini di caffè nero fortissimo.

Seppi anche che, giunto sulla via, mormorò con rabbia:

– Non dovrebbe essere permesso di simulare un suicidio con questo tempo!

Io, quando lo conobbi, non osai di fargli un rimprovero per la sua negligenza, ma egli l’indovinò e si difese: mi disse che rimase stupito all’apprendere alla mattina che Guido era morto, tanto che sospettò fosse rinvenuto e avesse preso dell’altro veronal. Poi soggiunse che i profani d’arte medica non potevano immaginare come nel corso della sua pratica il dottore venisse abituato a difendere la sua vita contro i clienti che vi attentavano non pensando che alla loro.

Dopo poco più di un’ora, Ada si stancò di cacciare a Guido il cucchiaino fra’ denti e vedendo ch’egli ne sorbiva sempre meno e che il resto andava a bagnare il guanciale, si spaventò di nuovo e pregò la fantesca di recarsi dal dottor Paoli. Questa volta la fantesca tenne da conto il bigliettino. Ma ci mise più di un’ora per raggiungere l’abitazione del medico. È naturale che quando piove tanto si senta il bisogno di tempo in tempo di fermarsi sotto qualche portico. Una pioggia simile non solo bagna, ma sferza.

Il dottor Paoli non era in casa. Era stato chiamato poco prima da un cliente e se ne era andato dicendo che sperava di ritornare presto. Ma poi pare avesse preferito di attendere presso il cliente che la pioggia cessasse. La sua donna di servizio, una buonissima persona in età, fece sedere la fantesca di Ada accanto al fuoco e si preoccupò di rifocillarla. Il dottore non aveva lasciato l’indirizzo del suo cliente e così le due donne passarono insieme varie ore accanto al fuoco. Il dottore ritornò, solo quando la pioggia fu cessata. Quando poi arrivò da Ada con tutti gli ordigni che già aveva esperiti su Guido, albeggiava. A quel letto ebbe un solo compito: celare ad Ada che Guido era già morto e far venire la signora Malfenti prima che Ada se ne accorgesse, per assisterla nel primo dolore.

Per questo la notizia ci pervenne molto tardi e imprecisa.

Levatomi dal letto ebbi per l’ultima volta uno slancio d’ira contro il povero Guido: complicava ogni sventura con le sue commedie! Uscii di casa senza Augusta che non poteva abbandonare il bimbo così su due piedi. Fuori, fui trattenuto da un dubbio! Non avrei potuto attendere che le Banche si aprissero e l’Olivi fosse nel suo ufficio per comparire dinanzi a Guido fornito del denaro che avevo promesso? Tanto poco credevo alla notizia della gravità delle condizioni di Guido che pur m’era stata annunziata!

La verità la ebbi dal dottor Paoli in cui m’imbattei sulle scale. Ne ebbi uno sconvolgimento che quasi mi fece precipitare. Guido, dacché vivevo con lui, era divenuto per me un personaggio di grande importanza. Finché era vivo lo vedevo in una data luce ch’era la luce di parte delle mie giornate. Morendo, quella luce si modificava in modo come se improvvisamente fosse passata traverso un prisma. Era proprio questo che m’abbacinava. Egli aveva sbagliato, ma io subito vidi ch’essendo morto, dei suoi errori non restava niente. Secondo me era un imbecille quel buffone che in un cimitero coperto di epigrafi laudatorie domandò dove si seppellissero in quel paese i peccatori. I morti non sono mai stati peccatori. Guido era ormai un puro! La morte l’aveva purificato.

Il dottore era commosso per aver assistito al dolore di Ada. Mi disse qualche cosa dell’orrenda notte ch’essa aveva passata. Oramai si era riusciti a farle credere che la quantità di veleno ingerita da Guido era stata tale che nessun soccorso avrebbe potuto giovare. Guai se avesse saputo altrimenti!

– Invece – aggiunse il dottore con sconforto – se io fossi arrivato qualche ora prima l’avrei salvato. Ho trovate le boccette vuote del veleno.

Le esaminai. Una dose forte ma poco più forte dell’altra volta. Mi fece vedere alcune boccette sulle quali lessi stampato: Veronal. Dunque non veronal al sodio. Come nessun altro io potevo ora essere certo che Guido non aveva voluto morire. Non lo dissi però mai a nessuno.

Il Paoli mi lasciò dopo di avermi detto che per il momento non cercassi di vedere Ada. Egli le aveva propinati dei forti calmanti e non dubitava che presto avrebbero avuto il loro effetto.

Sul corridoio sentii venire da quella stanzuccia, ove ero stato ricevuto due volte da Ada, il suo pianto mite. Erano parole singole che non intendevo, ma pregne di affanno. La parola lui era ripetuta più volte ed io immaginai quello ch’essa diceva. Stava ricostruendo la sua relazione col povero morto. Non doveva somigliare affatto a quella ch’essa aveva avuta col vivo. Per me era evidente ch’essa col marito vivo aveva sbagliato. Egli moriva per un delitto commesso da tutti insieme perché egli aveva giocato alla Borsa col consenso di tutti loro. Quando s’era trattato di pagare allora l’avevano lasciato solo. E lui s’era affrettato di pagare. Unico dei congiunti io, che veramente non ci entravo, avevo sentito il dovere di soccorrerlo.

Nella stanza da letto matrimoniale il povero Guido giaceva abbandonato, coperto dal lenzuolo. La rigidezza già avanzata, esprimeva qui non una forza ma la grande stupefazione di essere morto senz’averlo voluto. Sulla sua faccia bruna e bella era impronto un rimprovero. Certamente non diretto a me.

Andai da Augusta a sollecitarla di venire ad assistere la sorella. Io ero molto commosso ed Augusta pianse abbracciandomi:

– Tu sei stato un fratello per lui, – mormorò. – Solo adesso io sono d’accordo con te di sacrificare una parte del nostro patrimonio per purificare la sua memoria.

Mi preoccupai di rendere ogni onore al mio povero amico. Intanto affissi alla porta dell’ufficio un bollettino che ne annunciava la chiusura per la morte del proprietario. Composi io stesso l’avviso mortuario. Ma soltanto il giorno seguente, d’accordo con Ada, furono prese le disposizioni per il funerale. Seppi allora che Ada aveva deciso di seguire il feretro al cimitero. Voleva concedergli tutte le prove d’affetto che poteva. Poverina! Io sapevo quale dolore fosse quello del rimorso su una tomba. Ne avevo tanto sofferto anch’io alla morte di mio padre.

Passai il pomeriggio chiuso nell’ufficio in compagnia del Nilini. Si arrivò così a fare un piccolo bilancio della situazione di Guido. Spaventevole! Non solo era distrutto il capitale della ditta, ma Guido restava debitore di altrettanto, se avesse dovuto rispondere di tutto.

Io avrei avuto bisogno di lavorare, proprio lavorare a vantaggio del mio povero defunto amico, ma non sapevo far altro che sognare. La prima mia idea sarebbe stata di sacrificare tutta la mia vita in quell’ufficio e di lavorare a vantaggio di Ada e dei suoi figliuoli. Ma ero poi sicuro di saper far bene?

Il Nilini, come al solito, chiacchierava mentre io guardavo tanto, tanto lontano. Anche lui sentiva il bisogno di mutare radicalmente le sue relazioni con Guido. Ora comprendeva tutto! Il povero Guido, quando gli aveva fatto di torto, era stato già colto dalla malattia che doveva condurlo al suicidio. Perciò tutto era dimenticato oramai. E predicò dicendosi proprio fatto così. Non poteva serbare rancore a nessuno. Egli aveva sempre voluto bene a Guido e gliene voleva tuttavia.

Finì che i sogni del Nilini s’associarono ai miei e vi si sovrapposero. Non era nel lento commercio che si avrebbe potuto trovare il riparo ad una catastrofe simile, ma alla Borsa stessa. E il Nilini mi raccontò di persona a lui amica che all’ultimo momento aveva saputo salvarsi raddoppiando la posta.

Parlammo insieme per molte ore, ma la proposta del Nilini di proseguire nel gioco iniziato da Guido, arrivò in ultimo, poco prima del mezzodì e fu subito accettata da me. L’accettai con una gioia tale come se così fossi riuscito di far rivivere il mio amico. Finì che io comperai a nome del povero Guido una quantità di altre azioni dal nome bizzarro: Rio Tinto, South French e così via.

Così s’iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giù l’ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti. Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni non si attribuì quella morte a suicidio.

Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti, fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo quell’agitazione come un vero e proprio lavoro. Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte. Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile. Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva. Persino le mie notti furono insonni.

Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l’opera di salvataggio cui m’ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse. Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione. Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m’aveva subito assecondato. Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l’esposizione del mio danaro. Fin qui m’accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui. Soffersi tanto di quell’agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio.

Ma a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido. La cosa avvenne così. Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto. Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensì ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta. Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario. Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch’egli restasse nell’affare con la sua ambizione. Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.

Partimmo dall’ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.

All’altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare. Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell’andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.

– Per il momento – dissi io, e non so perché arrossissi, – io non lavoro che per conto del mio povero amico.

Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:

– Poi penserò a me stesso. – Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico. Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano tua!» Egli si mise a predicare.

– Chissà se si può cogliere un’altra simile occasione! – Dimenticava d’avermi insegnato che alla Borsa v’era l’occasione ad ogni ora.

Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a procedere dietro al funerale che s’avviava al cimitero greco.

– Il signor Guido era greco? – domandò sorpreso.

Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s’avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.

– Può essere che sia stato protestante! – dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.

– Dev’essere un errore! – esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.

Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.

– Ci siamo sbagliati! – esclamò. Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!

Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m’era difficile di sopportare i suoi rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l’entrata del cimitero cattolico. La vettura ci seguì. M’accorsi che i superstiti dell’altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell’estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello.

Il Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazione:

– Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?

Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica. Rispose che non lo sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell’ultima mezz’ora due funerali.

Perplessi ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso d’intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla. Dunque non sarei entrato in cimitero. Ma d’altronde non potevo rischiare d’imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere all’interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola. Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch’egli conosceva.

Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch’ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era perciò esatto. Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m’avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale.

Quel giorno il tempo s’era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l’aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m’ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me. Anche la campagna dall’erba giovine. L’estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell’altro giorno, dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata. Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo. Ma questa era la previsione dell’esperienza ed io non la ricordai; m’afferra solo ora che scrivo. In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.

Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo dalla collina di Servola s’affrettò fin qui quasi alla corsa. Giunto al passeggio di Sant’Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità. L’aria mi portava.

Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico. Avevo il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.

Andai all’ufficio a vedere i corsi di chiusa. Erano un po’ più deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia. Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo.

Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada. Venne ad aprirmi Augusta. Mi domandò subito:

– Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l’unico uomo nella nostra famiglia?

Deposi l’ombrello e il cappello, e un po’ perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi. Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale. Non ne ero più tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s’era fatto dolente forse per la stanchezza. Doveva essere quell’osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.

Ada non venne. Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch’io l’attendessi. Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto. Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città. Balbettavo. Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch’era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell’ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m’ero sentito di allontanarmi dall’ufficio prima di aver ricevuta la risposta. Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta. Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors’anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell’operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali. Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentì la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi. Ero di nuovo non l’unico uomo della famiglia, ma il migliore.

Mi domandò di venire di sera con Augusta a salutare Ada cui essa nel frattempo avrebbe raccontato tutto. Per il momento Ada non era al caso di ricevere nessuno. Ed io, volentieri, me ne andai con mia moglie. Neppure essa, prima di lasciare quella casa, sentì il bisogno di congedarsi da Ada, che passava da pianti disperati ad abbattimenti che le impedivano persino di accorgersi della presenza di chi le parlava.

Ebbi una speranza:

– Allora non è Ada che si è accorta della mia assenza?

Augusta mi confessò che avrebbe voluto tacerne, tanto le era sembrata eccessiva la manifestazione di risentimento di Ada per tale mia mancanza. Ada esigette delle spiegazioni da lei e quando Augusta dovette dirle di non saperne nulla non avendomi ancora visto, essa s’abbandonò di nuovo alla sua disperazione urlando che Guido aveva dovuto finire così essendo stato odiato da tutta la famiglia.

A me parve che Augusta avrebbe dovuto difendermi e ricordare ad Ada come io solo ero stato pronto di soccorrere Guido nel modo che si doveva. Se fossi stato ascoltato, Guido non avrebbe avuto alcun motivo di tentare o simulare un suicidio.

Augusta invece aveva taciuto. Era stata tanto commossa dalla disperazione di Ada che avrebbe temuto di oltraggiarla mettendosi a discutere. Del resto essa era fiduciosa che ora le spiegazioni della signora Malfenti avrebbero convinto Ada dell’ingiustizia ch’essa mi usava. Devo dire che avevo anch’io tale fiducia ed anzi confessare che da quel momento gustai la certezza di assistere alla sorpresa di Ada e alle sue manifestazioni di gratitudine. Già da lei, causa Basedow, tutto era eccessivo.

Ritornai all’ufficio ove appresi che c’era alla Borsa di nuovo un lieve accenno all’ascesa, lievissimo, ma già tale che si poteva sperare di ritrovare il giorno dopo, all’apertura, i corsi della mattina.

Dopo cena dovetti andar da Ada da solo perché Augusta fu impedita di accompagnarmi per una indisposizione della bambina. Fui ricevuto dalla signora Malfenti che mi disse che doveva attendere a qualche lavoro in cucina e che perciò avrebbe dovuto lasciarmi solo con Ada. Poi mi confessò che Ada l’aveva pregata di lasciarla sola con me perché voleva dirmi qualche cosa che non doveva esser sentito da altri. Prima di lasciarmi in quel salottino ove già due volte m’ero trovato con Ada, la signora Malfenti mi disse sorridendo:

– Sai, non è ancora disposta a perdonarti la tua assenza dal funerale di Guido, ma… quasi!

In quel camerino mi batteva sempre il cuore. Questa volta non per il timore di vedermi amato da chi non amavo. Da pochi istanti e solo per le parole della signora Malfenti, avevo riconosciuto di aver commessa una grave mancanza verso la memoria del povero Guido. La stessa Ada, ora che sapeva che a scusare tale mancanza le offrivo un patrimonio, non sapeva perdonarmi subito. M’ero seduto e guardavo i ritratti dei genitori di Guido. Il vecchio Cada aveva un’aria di soddisfazione che mi pareva dovuta al mio operato, mentre la madre di Guido, una donna magra vestita di un vestito dalle maniche abbondanti e un cappellino che le stava in equilibrio su una montagna di capelli, aveva l’aria molto severa. Ma già! Ognuno dinanzi alla macchina fotografica assume un altro aspetto ed io guardai altrove sdegnato con me stesso d’indagare quelle faccie. La madre non poteva certo aver previsto ch’io non avrei assistito all’interramento del figlio!

Ma il modo come Ada mi parlò fu una dolorosa sorpresa. Essa doveva aver studiato a lungo quello ch’essa voleva dirmi e non tenne addirittura conto delle mie spiegazioni, delle mie proteste e delle mie rettifiche ch’essa non poteva aver previste e cui perciò non era preparata. Corse la sua via come un cavallo spaventato, fino in fondo.

Entrò vestita semplicemente di una vestaglia nera, la capigliatura nel grande disordine di capelli sconvolti e fors’anche strappati da una mano che s’accanisce a trovar da far qualche cosa, quando non può altrimenti lenire. Giunse fino al tavolino a cui ero seduto e vi si appoggiò con le mani per vedermi meglio. La sua faccina era di nuovo dimagrata e liberata da quella strana salute che le cresceva fuori di posto. Non era bella come quando Guido l’aveva conquistata, ma nessuno guardandola avrebbe ricordata la malattia. Non c’era! C’era invece un dolore tanto grande che la rilevava tutta. Io lo compresi tanto bene quell’enorme dolore, che non seppi parlare. Finché la guardai pensai: «quali parole potrei dirle che potrebbero equivalere a prenderla fraternamente fra le mie braccia per confortarla e indurla a piangere e sfogarsi?». Poi, quando mi sentii aggredito, volli reagire, ma troppo debolmente ed essa non mi sentì.

Essa disse, disse, disse ed io non so ripetere tutte le sue parole. Se non sbaglio cominciò col ringraziarmi seriamente, ma senza calore di aver fatto tanto per lei e per i bambini. Poi subito rimproverò:

– Così hai fatto in modo ch’egli è morto proprio per una cosa che non ne valeva la pena!

Poi abbassò la voce come se avesse voluto tener segreto quello che mi diceva e nella sua voce vi fu maggior calore, un calore che risultava dal suo affetto per Guido e (o mi parve?) anche per me:

– Ed io ti scuso per non esser venuto al suo funerale. Tu non potevi farlo ed io ti scuso. Anche lui ti scuserebbe se fosse ancora vivo. Che ci avresti fatto tu al suo funerale? Tu che non lo amavi! Buono come sei, avresti potuto piangere per me, per le mie lagrime, ma non per lui che tu… odiavi! Povero Zeno! Fratello mio!

Era enorme che mi si potesse dire una cosa simile alterando in tale modo la verità. Io protestai, ma essa non mi sentì. Credo di aver urlato o almeno ne sentii lo sforzo nella strozza:

– Ma è un errore, una menzogna, una calunnia. Come fai a credere una cosa simile?

Essa continuò sempre a bassa voce:

– Ma neppure io seppi amarlo. Non lo tradii neppure col pensiero, ma sentivo in modo che non ebbi la forza di proteggerlo. Guardavo ai tuoi rapporti con tua moglie e li invidiavo. Mi parevano migliori di quelli ch’egli mi offriva. Ti sono grata di non essere intervenuto al funerale perché altrimenti non avrei neppur oggi compreso nulla. Così invece vedo e intendo tutto. Anche che io non l’amai: altrimenti come avrei potuto odiare persino il suo violino, l’espressione più completa del suo grande animo?

Fu allora che io poggiai la mia testa sul braccio e nascosi la mia faccia. Le accuse ch’essa mi rivolgeva erano tanto ingiuste che non si potevano discutere ed anche la loro irragionevolezza era tanto mitigata dal suo tono affettuoso che la mia reazione non poteva essere aspra come avrebbe dovuto per riuscire vittoriosa. D’altronde già Augusta m’aveva dato l’esempio di un silenzio riguardoso per non oltraggiare ed esasperare tanto dolore. Quando però i miei occhi si chiusero, nell’oscurità vidi che le sue parole avevano creato un mondo nuovo come tutte le parole non vere. Mi parve d’intendere anch’io di aver sempre odiato Guido e di essergli stato accanto, assiduo, in attesa di poter colpirlo. Essa poi aveva messo Guido insieme al suo violino. Se non avessi saputo ch’essa brancolava nel suo dolore e nel suo rimorso, avrei potuto credere che quel violino fosse stato sfoderato come parte di Guido per convincere dell’accusa di odio l’animo mio.

Poi nell’oscurità rividi il cadavere di Guido e nella sua faccia sempre stampato lo stupore di essere là, privato dalla vita. Spaventato rizzai la testa. Era preferibile affrontare l’accusa di Ada che io sapevo ingiusta che guardare nell’oscurità.

Ma essa parlava sempre di me e di Guido:

– E tu, povero Zeno, senza saperlo, continuavi a vivergli accanto odiandolo. Gli facevi del bene per mio amore. Non si poteva! Doveva finire così! Anch’io credetti una volta di poter approfittare dell’amore ch’io sapevo tu mi serbavi per aumentare d’intorno a lui la protezione che poteva essergli utile. Non poteva essere protetto che da chi lo amava e, fra noi, nessuno l’amò.

– Che cosa avrei potuto fare di più per lui? – domandai io piangendo a calde lacrime per far sentire a lei e a me stesso la mia innocenza. Le lacrime sostituiscono talvolta un grido. Io non volevo gridare ed ero persino dubbioso se dovessi parlare. Ma dovevo soverchiare le sue asserzioni e piansi.

– Salvarlo, caro fratello! Io o tu, noi si avrebbe dovuto salvarlo. Io invece gli stetti accanto e non seppi farlo per mancanza di vero affetto e tu restasti lontano, assente, sempre assente finché egli non fu sepolto. Poi apparisti sicuro armato di tutto il tuo affetto. Ma, prima, di lui non ti curasti. Eppure fu con te fino alla sera. E tu avresti potuto immaginare, se di lui ti fossi preoccupato, che qualche cosa di grave stava per succedere.

Le lacrime m’impedivano di parlare, ma borbottai qualche cosa che doveva stabilire il fatto che la notte innanzi egli l’aveva passata a divertirsi in palude a caccia, per cui nessuno a questo mondo avrebbe potuto prevedere quale uso egli avrebbe fatto della notte seguente.

– Egli abbisognava della caccia, egli ne abbisognava! – mi rampognò essa ad alta voce. Eppoi, come se lo sforzo di quel grido fosse stato soverchio, essa tutt’ad un tratto crollò e s’abbatté priva di sensi sul pavimento.

Mi ricordo che per un istante esitai di chiamare la signora Malfenti. Mi pareva che quello svenimento rivelasse qualche cosa di quanto aveva detto.

Accorsero la signora Malfenti e Alberta. La signora Malfenti sostenendo Ada mi domandò:

– Ha parlato con te di quelle benedette operazioni di Borsa? – Poi: – È il secondo svenimento quest’oggi!

Mi pregò di allontanarmi per un istante ed io andai sul corridoio ove attesi per sapere se dovevo rientrare o andarmene. Mi preparavo ad ulteriori spiegazioni con Ada. Essa dimenticava che se si fosse proceduto come io l’avevo proposto, la disgrazia sicuramente sarebbe stata evitata. Bastava dirle questo per convincerla del torto ch’essa mi faceva.

Poco dopo, la signora Malfenti mi raggiunse e mi disse che Ada era rinvenuta e che voleva salutarmi. Riposava sul divano su cui fino a poco prima ero stato seduto io. Vedendomi, si mise a piangere e furono le prime lagrime ch’io le vidi spargere. Mi porse la manina madida di sudore:

– Addio, caro Zeno! Te ne prego, ricorda! Ricorda sempre! Non dimenticarlo!

Intervenne la signora Malfenti a domandare quello che avessi da ricordare ed io le dissi che Ada desiderava che subito fosse liquidata tutta la posizione di Guido alla Borsa. Arrossii della mia bugia e temetti anche una smentita da parte di Ada. Invece di smentirmi essa si mise ad urlare:

– Sì! Sì! Tutto dev’essere liquidato! Di quell’orribile Borsa non voglio più sentirne parlare!

Era di nuovo più pallida e la signora Malfenti, per quietarla, l’assicurò che subito sarebbe stato fatto com’essa desiderava.

Poi la signora Malfenti m’accompagnò alla porta e mi pregò di non precipitare le cose: facessi il meglio che credessi nell’interesse di Guido. Ma io risposi che non mi fidavo più. Il rischio era enorme e non potevo più osare di trattare a quel modo gl’interessi altrui. Non credevo più nel giuoco di Borsa o almeno mi mancava la fiducia che il mio «succhiellare» potesse regolarne l’andamento. Dovevo liquidare perciò subito, ben contento che fosse andata così.

Non ripetei ad Augusta le parole di Ada. Perché avrei dovuto affliggerla? Ma quelle parole, anche perché non le riferii ad alcuno, restarono a martellarmi l’orecchio, e m’accompagnarono per lunghi anni. Risuonano tuttavia nell’anima mia. Tante volte ancora oggidì le analizzo. Io non posso dire di aver amato Guido, ma ciò solo perché era stato uno strano uomo. Ma gli stetti accanto fraternamente e lo assistetti come seppi. Il rimprovero di Ada non lo merito.

Con lei non mi trovai mai più da solo. Essa non sentì il bisogno di dirmi altro né io osai esigere una spiegazione, forse per non rinnovarle il dolore.

In Borsa la cosa finì come avevo previsto e il padre di Guido, dopo che col primo dispaccio gli era stata avvisata la perdita di tutta la sua sostanza, ebbe certamente piacere a ritrovarne la metà intatta. Opera mia di cui non seppi godere come m’ero atteso.

Ada mi trattò affettuosamente tutto il tempo fino alla sua partenza per Buenos Aires ove coi suoi bambini andò a raggiungere la famiglia del marito. Amava di ritrovarsi con me ed Augusta. Io talvolta volli figurarmi che tutto quel suo discorso fosse stato dovuto ad uno scoppio di dolore addirittura pazzesco e ch’essa neppure lo ricordasse. Ma poi una volta che si riparlò in nostra presenza di Guido, essa ripeté e confermò in due parole tutto quello che quel giorno essa m’aveva detto:

– Non fu amato da nessuno, il poverino!

Al momento d’imbarcarsi con in braccio uno dei suoi bambini lievemente indisposto, essa mi baciò. Poi, in un momento in cui nessuno ci stava accanto essa mi disse:

– Addio, Zeno, fratello mio. Io ricorderò sempre che non seppi amarlo abbastanza. Devi saperlo! Io abbandono volentieri il mio paese. Mi pare di allontanarmi dai miei rimorsi!

La rimproverai di crucciarsi così. Dichiarai ch’essa era stata una buona moglie e che io lo sapevo e avrei potuto testimoniarlo. Non so se riuscii a convincerla. Essa non parlò più, vinta dai singhiozzi. Poi, molto tempo dopo, sentii che congedandosi da me, essa aveva voluto con quelle parole rinnovare anche i rimproveri fatti a me. Ma so ch’essa mi giudicò a torto. Certo io non ho da rimproverarmi di non aver voluto bene a Guido.

La giornata era torbida e fosca. Pareva che una sola nube distesa e niente minacciosa offuscasse il cielo. Dal porto tentava di uscire a forza di remi un grande bragozzo le cui vele pendevano inerti dagli alberi. Due soli uomini vogavano e, con colpi innumeri, arrivavano appena a muovere il grosso bastimento. Al largo avrebbero trovata una brezza favorevole, forse.

Ada, dalla tolda del piroscafo, salutava agitando il suo fazzoletto. Poi ci volse le spalle. Certo guardava verso sant’Anna ove riposava Guido. La sua figurina elegante diveniva più perfetta quanto più si allontanava. Io ebbi gli occhi offuscati dalle lacrime. Ecco ch’essa ci abbandonava e che mai più avrei potuto provarle la mia innocenza.

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